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La città è un luogo di incontri, scontri, traiettorie personali e pubbliche che collidono in un testo continuamente in evoluzione. La città si presenta come una stratificazione di vite passate, esistenze private, di grandi eventi storici e una moltitudine di storie personali, una rete di discorsi da leggere, interpretare e riscrivere. Lo studio parte quindi dall’assunto che lo spazio urbano non è una dimensione inerte e semanticamente univoca, ma un testo che pone infinite domande di lettura, interpretazione e in ultima istanza, modelli di azione, sia letteraria che politica. In particolare, l’analisi prende le mosse da una visione dello spazio urbano declinato secondo parabole conflittuali, residuo di eredità coloniali, pregiudizi razziali, e strutture discorsive improntate al manicheismo imperiale. Lo spazio urbano si presta bene alla riproposizione di certe strutture del potere coloniale, così come, d’altro canto può essere un terreno di scontro e resistenza altamente significativo nella ridefinizione identitaria del soggetto e in generale delle società postcoloniali110. Ma il

conflitto, l’alterità, la frammentazione e l’ostilità urbana possono essere interiorizzate in termini di nevrosi e paranoia individuale, in modo da far emergere una descrizione stessa della città allucinata e sgretolata. Si pone quindi il problema di delineare fino a che punto sia la città, con i suoi

conflitti sociali, a plasmare la psiche, e quanto invece la rappresentazione della città venga tradotta dalle visioni mentali individuali. La rappresentazione della città che l’opera narrativa offre si pone quindi come una sintesi tra la dimensione pubblica e privata dello spazio urbano, come incontro tra la città fattuale e l’elemento intimistico e individuale. L’immagine della città che queste opere ci forniscono si trova all’intersezione tra la città reale e la città immaginaria111, creando nello

spazio narrativo la possibilità di una città nuova, una città altra, una riscrittura, una selezione attuata partendo dall’immenso archivio che la città è. La città reale, la Londra centro dell’Impero britannico, con la sua eredità coloniale e le nuove trasformazioni dell’epoca postcoloniale, fornisce, con i suoi aspetti sociali, politici e storici, la base fattuale e imprescindibile da cui partire, tingendosi poi e contaminandosi con le esperienze e le rielaborazioni immaginarie degli autori trattati. Questo incontro tra l’individuo e la città pone particolari problemi riguardo alla narratività e alla leggibilità della città stessa: come scrivere, ricordare e immaginare la città e, soprattutto, quando la città smette di essere reale per diventare una proiezione mentale dei personaggi. La città, proprio per non essere uno spazio neutro, ma con un ampio spettro di sfumature semantiche e ridefinizioni politiche, pone infinite sfide in termini di interpretazione e azione. Il significante Londra a livello simbolico può essere di volta in volta assimilato, definito e ridefinito in termini totalmente

111 John Clement Ball, Imagining London. Postcolonial Fiction and the Transnational Metropolis, University of Toronto

contrastanti, così come a livello più pratico può dar adito a riproposizioni politiche più o meno estreme. Partendo quindi dal presupposto che ‘Londra’ si trovi all’intersezione tra una rete di discorsi pubblici più o meno codificati e ufficiali, e una costellazione di singole esperienze individuali, scopo dell’analisi è appunto decifrare come queste due sfere, la pubblica e la privata, si incontrino o si scontrino, come l’una plasmi o subisca l’altra e per quali motivi e in quali modi le varie sensibilità creative si trovino a prediligere una certa lettura rispetto ad un’altra, e a mettere in relazione la scelta artistica dell’autore con la sua appartenenza culturale. Abbiamo notato come la conflittualità dello spazio abbia generato risposte in cui il discorso pubblico tende in qualche modo a farsi protagonista e lo spazio diventa scenario di protesta e ridefinizione politica, aprendo spazi utopici tra le falle della città, mettendo a nudo le cicatrici del colonialismo, rimappando lo spazio urbano e resistendo al lascito imperiale promuovendo una nuova ridefinizione dell’individuo. Da questo è chiaro che le due sfere, la pubblica e la privata, tendono comunque a influenzarsi e a convogliare, enfatizzando di volta in volta l’aspetto comunitario o solipsistico dell’autore. L’individuo che si trova a sfidare lo spazio urbano può quindi agire coscientemente sul suo ambiente impegnandosi per portare cambiamenti a livello sociale e politico – e questo è il caso di certi autori più programmaticamente impegnati a descrivere e denunciare le condizioni della propria comunità o minoranza e a cercare di ristabilire un equilibrio – così come può invece solo manipolare lo spazio esplorandone

ed esaurendone le risorse a livello immaginifico. Quest’ultimo caso prospetta una reazione al disagio urbano più soggettivistica e meno palesemente connotata da un programma politico, anche se dietro a questo apparente riflusso nel personale c’è, a mio avviso, una motivazione socialmente rilevante. La città può quindi assorbire integralmente il singolo che esperisce la metropoli in maniera distruttiva, introiettando nella propria psiche la configurazione conflittuale dello spazio e questa visione della città come catalizzatore di esperienze deliranti verrà messa in correlazione con il rapporto che sussiste tra pazzia e colonizzazione nel tentativo di stabilire in che misura le architetture del potere proprie dell’ex-centro dell’impero formino lo scenario, fisico e mentale, di una difficile decolonizzazione. A questo proposito è interessante notare come soprattutto le opere scritte da romanzieri irlandesi contemporanei delineino una risposta alla dimensione urbana in termini di disagio e follia, sintomo di un processo di decolonizzazione ancora travagliato. Il confronto con il centro dell’ex impero, carico di ampi significati simbolici, porta a galla un processo di decolonizzazione ancora impervio, in cui non vengono espresse energie liberatorie per una proficua riformulazione dell’identità – come abbiamo visto avvenire in testi precedenti – ma una recrudescenza della violenza coloniale in termini di disfunzioni familiari, squilibrio e alienazione112. Ciò che appare stranamente ricorrente nei romanzi presi in

esame è la mancanza di quella riformulazione identitaria in termini di ibridismo – così comune in tanti coevi testi postcoloniali – e di esperienze

atte a riconquistare simbolicamente la città, mentre appare predominante uno scivolamento nella paranoia, nell’alienazione e nell’isolamento. La seguente trattazione non vuole circoscrivere l'esperienza diasporica irlandese solo in termini di disagio e follia, ma approfondire un aspetto delicato ma affascinate che trova riscontro in molti testi letterari così come in molti studi critici.

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