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Uno specchio per leggere se stess

2. L’IDENTITÀ DELL’ALTRO: UN UNIVERSO INSONDABILE 1 L’Alterità: un’umanità labirintica

2.2. Uno specchio per leggere se stess

È stato evidenziato in precedenza, come sia irrinunciabile la volontà di tentare di dipanare l’intricata matassa dell’identità del «fratello ignoto», e come, però, questo tentativo conduca solo ad ulteriori interrogativi. Essi sorgono continuamente lungo le vie di in un viaggio esteriore, ma soprattutto interiore. Si tratta di interrogativi proprio perché, l’Altro, in quanto labirinto, costituisce un luogo di perdita psicologica, di smarrimento dei confini esperiti

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ID., Esperimento con l’India, cit., p. 92.

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Ivi, p. 49.

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dall’io. Ecco che inizia ad affacciarsi l’idea che l’Altro sia non solo esterno, ma soprattutto interno:

Per un istante interminabile io mi sento catturato dall’India – ma che cosa è l’India? Se è un «altrove» mi sfinisce, ma non la temo; quel che temo è questa capacità, illusionistica e metafisica, di illudermi che l’altrove sia non solo a portata di mano, ma dentro di me11

.

Da queste parole emerge, da parte dell’autore, la paura che l’Altro sia non solo al di fuori, ma all’interno di sé. Si comincia pertanto a prospettare l’idea che l’Altro si trovi in lui in quanto specchio per leggere se stesso e il mondo che lo circonda. Questo apparirà chiaro quando si tratterà il rapporto dell’io occidentale con quello orientale che, fungendo da specchio, farà emergere tutti gli scheletri nascosti dell’Occidente. In questo senso, pertanto, l’identità dell’Altro è fondamentale per costruire la propria identità, poiché essa si modella in rapporto costante, all’interno dei testi, a quella dell’altrove.

Un esempio della concezione di Altro come specchio per leggere se stessi si ritrova in un episodio accaduto al viaggiatore nella città di Bombay: riguarda il rapporto con un mendicante su cui l’autore si sofferma con particolare cura:

Una sera, un ragazzetto che mi seguiva pazientemente da almeno venti minuti mi sussurrò che se gli «davo qualcosa» mi avrebbe lasciato in pace […]. La prima sera avevo cambiato strada due o tre volte per eludere un mendicante che ambiva a specializzarsi nella mia elemosina. Quale errore: il mio, intendo. Cambiando strada per eluderlo gli avevo fatto capire che ero a disagio, e che dunque valeva la pena di insistere; perché l’occidentale non solo prova pietà, non solo è sensibile ai segni della malattia, è lascivo quanto basta per conoscere le preclusioni del disgusto, ma è anche incline ai sensi di colpa12.

Il viaggiatore delinea dunque alcune peculiarità psicologiche ed animiche dell’io occidentale e quindi in primis di se stesso, in relazione al rapporto con il mendicante. Ma ecco che poi acquisisce la consapevolezza di qualcosa che gli permette di trasformare il suo punto di vista iniziale e che si farà chiave fondamentale per entrare nei meandri della propria interiorità:

E fu a questo punto che mi accorsi del modo assolutamente naturale, ovvio, pacifico con cui il mendicante si collocava nel tessuto della società che intravedevo. E capii istantaneamente che in quella società, in quella cultura non c’è posto per la pietà individuale, non c’è quella dolorosa, disperata carità che lega l’Occidente al naturalmente morituro: né il mendicante ha pietà di se stesso. I segni della malattia e della miseria non sono «sventure»: vengono da lontano; migrano da vita a vita, certificati degli interventi degli dèi13.

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ID.,Esperimento con l’India, cit., p. 96.

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Ivi, p. 35.

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Il viaggiatore pertanto modifica la propria prospettiva, l’inclinazione dello sguardo cambia ed egli prende coscienza della modalità completamente opposta alla propria, secondo cui la società indiana si rapporta con il mendicante e del modo in cui egli si relaziona con il proprio Essere; in queste interazioni «non c’è posto per la pietà individuale» propria dell’occidente poiché è totalmente differente il punto di vista indiano: la pietà individuale è una delle conseguenze della considerazione della malattia e della povertà come vere e proprie «sventure», ma in India, all’opposto, non è presente questa concezione, perché si considera che tutto ciò sia una naturale conseguenza dei viaggi dell’anima da una vita all’altra, diretti e vigilati dagli dei.

Questa scoperta mi fece riguardare il mendicante e la sua tattica in modo diverso: mi proposi di non dare elemosine, non solo per sfamare la mia naturale avarizia, quanto per vedere se mi era possibile accettare la miseria, la malattia, la sventura come un evento che, diversamente collocato, ha un altro senso che nel nostro mondo14.

L’Altro pertanto diviene lo specchio privilegiato per esperire se stessi, per mettersi alla prova: il viaggiatore sceglie di non dare elemosina proprio per constatare sulla propria pelle se riesce ad accogliere in se stesso quella povertà, quel malessere corporale che il mendicante rappresenta in modo così forte ed evidente. Egli infatti, in quanto Altro diviene strumento di conoscenza di una parte dell’interiorità del viaggiatore a cui viene così permesso di esprimersi, di prendere forma all’interno di quel viaggio esteriore ed intimo che sta affrontando.

In che modo tuttavia il viaggiatore tenta di avvicinarsi all’Altro? In merito Manganelli dichiara, una volta giunto a Shanghai:

Mi chiedo con quale bagaglio infantile, quale sottile strato di deposte memorie io guardi questi cinesi. Non penso alle immagini, alle idee che mi sono giunte «da grande», cariche di perplesse prospettive, ma a quelle che hanno deposto nei cassetti più rozzi e più stabili della mente i «corrierini», i film, certe slabbrate e decomposte memorie di operette, di canzoni alla maniera orientale. […]. E i cinesi che cosa sono, in quel cassetto del ciarpame infantile? Ci sono dei cinesi che fanno ridere, hanno il codino, sono vestiti alla mandarina, sono piccoli, sorridenti, se sono ricchi sono dei golosi di classe, se sono poveri sono camerieri, ricordo i cinesi di via Canonica, i venditori di cravatte, i famosi «due lile», lisi e delicati; ritrovo un ritaglio di stampa fascista, un «due lile» sposa un’italiana, il giornale ironizza, depreca, sentenzia, ma altro non può fare, i cinesi non sono mica gli ebrei. Quale parentela c’è nel nostro inconscio, tra l’ebreo e il cinese15

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Ivi, p. 36.

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Il viaggiatore pertanto è consapevole che il suo sguardo nei confronti dell’Altrove sia condizionato in qualche modo da quelle «decomposte memorie» che sono state proiettate nella sua mente prima di quel viaggio. È significativo evidenziare in merito l’universo di immagini che evocano quel «ciarpame infantile», quelle fotografie portate alla luce, che sgorgano e fluiscono nella mente del viaggiatore. Ecco che ritorna il concetto di viaggio mentale analizzato in precedenza. Si noti tuttavia che questi cinesi prettamente ‘mentali’ non rappresentino la realtà autentica che il viaggiatore si trova di fronte a sé:

Quel disordinato odore di passate e tarmate immagini si perde definitivamente, ora, nel lento colloquio serale; scruto quei volti affilati, gradevolmente furbi, un che di leggero e infantile che ritroverò spesso, una gentilezza senza invadenza, una cordialità cauta, una sollecitudine anonima, che fa pensare a una forma colta e raffinatamente esangue di «amor fraterno»; l’arte di farsi dimenticare un attimo dopo il levar delle mense evoca una rara astuzia mondana16.

Ecco che, a contatto con i cinesi, quei ritratti mentali delineati in precedenza svaniscono per lasciare spazio ad un Altrove leggiadro che richiama il comportamento dei bambini, che non è indiscreto nella sua cordialità. Si può notare inoltre il verbo «evocare» nella citazione indagata: esso riveste una grande importanza all’interno dei testi di viaggio, perché questi sono costellati di persone, luoghi e oggetti che vengono evocati continuamente dal viaggiatore, acquistando una vitalità peculiare che li rende vivi, nel momento stesso in cui l’autore li nomina. Si vedrà più avanti come si manifesta questo aspetto nei testi odeporici. L’autore prosegue: «La loro benevolenza è indubbia ma non tocca il cuore del reciproco destino; cenare assieme dopo un lungo viaggio è un breve divertimento, non lasciamolo cadere, ma non dimentichiamo di essere sostanzialmente astemi e destinati altrove»17. Queste parole sono molto significative per investigare l’identità dell’altro che il viaggiatore incontra in Cina. Egli afferma in merito che anche se quella «benevolenza» con cui è venuto a contatto è indiscutibile, non raggiunge la natura più intima di ciò che unisce ed accomuna entrambi: ciò accade perché l’autore percepisce se stesso come «astemio», cioè lontano da quell’alterità che gli sta di fronte e pertanto si sente appartenente ad un altrove fisico, mentale ed animico. Non si dimentichi tuttavia come, se da un lato emerga questa distanza impalpabile e significativa, dall’altro lo stesso viaggiatore affermi, come si è visto in precedenza, che la ragazza dalle «gote rosee e vive» evochi «qualcosa di familiare, di intimo», oltre che una «vicinanza domestica». Pertanto torna il concetto dell’Altro come essenza al contempo vicina

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Ivi, p. 27.

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e in grado di toccare le corde più segrete dell’animo, ma anche distante, remota. In particolare, viene posta in rilievo una caratteristica dell’Alterità conosciuta in Cina e cioè la sua «cerimoniosità» che emerge molto spesso all’interno dei testi:

Ho avuto l’impressione che in Cina i rapporti, quel genere di rapporto che può esistere tra straniero e indigeno, non abbia connotati psicologici. È una cerimonia. […] I cinesi amano le cerimonie, e le eseguono con evidente gusto, come una gran bella recita; c’è una miscela di teatro e di rito in questi incontri che noi occidentali non capiamo del tutto. E nel teatro come nel rito, non c’è psicologia, c’è un insieme di gesti non individuali. Non ci sono singole persone, ci sono funzioni18.

Il rapporto con l’Altro pertanto si connota come un rito offerto da persone che recitano una parte che le porta quasi a perdere la propria individualità. Esse si caratterizzano dunque come una collettività unita nel suo prendere parte ad una funzione. Si percepisce pertanto quasi la fatica del viaggiatore che non riesce ad andare oltre questa cerimonia così totalizzante per incontrare l’Altro nella sua psicologia, nella sua intimità di essere umano. Nonostante questo, tuttavia, il viaggiatore afferma:

Quello che ci separa non è né freddezza né indifferenza, ma la sottile coscienza che sia noi, inconsapevoli, che loro, consapevoli, siamo coinvolti in una condizione teatrale. Qualche straniero avverte mancanza di «calore umano»; è facile replicare che il «calore umano», come tutte le aggressioni termiche passionali, è sommamente infido, petulante, aggressivo, erratico; chi ama ha degli eccellenti motivi per odiare, ma chi recitando offre quella provvisoria amicizia che è il meglio che in quelle condizioni si ci possa attendere, mi offre qualcosa di degno di fiducia, di realmente amichevole […]19

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L’Altro pertanto anche in questo caso riesce a toccare le corde più profonde dell’animo del viaggiatore poiché, pur nella sua cerimoniosità, «offre qualcosa di degno di fiducia» ed è «realmente amichevole» nella sua «provvisoria amicizia».

Tentando di indagare a fondo tuttavia l’alterità che viene incontrata in Cina ed in Asia in generale, risultano molto significative le seguenti parole:

La Cina mi fa pensare ad una palla di bigliardo: liscia, perfetta, impenetrabile. […] In Cina si avverte qualcosa che si riconoscerà poi in tutta l’Asia, la consapevolezza oscura e irriducibile che essere qualcuno non è questione di pensare in un certo modo, ma una misteriosa e tenace maniera di esistere, una eredità di corpo, di sangue, di nervi, di suoni ascoltati, di gesti20.

La Cina dunque viene rappresentata nella mente del viaggiatore come qualcosa di levigato, di imperscrutabile e di perfetto. Si ponga poi attenzione alla seconda asserzione relativa alle

18 Ivi p. 239. 19 Ivi, p. 39. 20 Ivi, p. 314.

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terre asiatiche: qui l’essenza dell’«essere qualcuno» non è una questione mentale, di pensiero o di opinioni differenti, ma riguarda un’ignota ed ostinata modalità di essere nel mondo che è profondamente legata alla corporeità, ai suoni e ai gesti. Tutto ciò slega pertanto l’essenza intima dal pensiero in sé per sé, per proiettarla in un universo che ha a che fare con l’anima e con il corpo.

Se in Cina uno dei modi di rappresentare l’Alterità è delineato da una cerimonia difficilmente penetrabile, il viaggiatore afferma rispetto all’incontro con l’Altro nelle terre indiane:

L’accoglienza indiana è viscerale: l’India ti lascia entrare nel suo corpo sterminato, nei meati, negli orifizi, gli intestini, le caverne carnali e simboliche, il labirinto genitale del più grande corpo del mondo. […] Vi sono molti modi per sperimentare il corpo dell’India, ma non mi pare che sia possibile guardarla come un mondo semplicemente diverso, pittoresco. Entrare nelle viscere dell’India è terribile: noi non sappiamo più che cosa sono le viscere mentali di un mondo21.

Queste parole sono molto indicative per continuare ad investigare l’essenza dell’Altro nei testi viaggio: l’alterità indiana, lungi dall’essere cerimoniosa, consente all’io di penetrare le parti più intime e recondite di se stesso. Si può notare anche qui come siano preponderanti le espressioni corporee per descrivere la modalità con cui l’Altro permette al viaggiatore di esperire se stesso. L’espressione «viscerale», infatti, fa ben comprendere come si tratti di un’alterità che irrompe, che si infiltra e si insinua nei meandri più nascosti dell’io del viaggiatore che non si può sottrarre a tutto questo, tanto ne risulta profondamente catturato da tutti i punti di vista. Si può osservare in particolare l’ultima asserzione sopra riportata: qui l’autore sottolinea lo shock di venire a contatto in modo così profondo con quell’alterità che «provoca e cruccia». Essa non possiede «viscere mentali» e forse è proprio questo che causa un tale turbamento nell’animo del viaggiatore, che è innanzitutto, come si è visto, un viaggiatore mentale, per cui la chiave intellettiva diviene strumento per leggere il mondo e l’Altro, che però, in questo caso non può essere penetrato ed inteso attraverso di essa.

L’esperienza asiatica colpisce a tal punto il viaggiatore nelle sue profondità da indurlo a dichiarare: «Dovunque viaggerete, in Asia, sentirete l’Europa come una bizzarra invenzione, una cosa impossibile, un ricordo maniacale, il tentativo di non sapere che cosa è esattamente essere vivi»22. Queste parole risuonano in modo significativo: l’Asia rappresenta quell’Alterità che consente al viaggiatore di sperimentare e constatare il vero significato

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Ibidem.

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dell’«essere vivi» che non si può cogliere con la mente, se l’Altro non possiede «viscere» mentali, ma con l’anima: colei che più soffre nell’affrontare questo contatto così arduo e vitale.

Continuando ad indagare l’identità dell’Altro, si può prestare ora attenzione all’atteggiamento mentale ed animico dell’autore in relazione ai «popoli nascosti» islandesi. In merito si afferma:

In Islanda è impossibile non parlare delle fate. E così degli elfi, dei «popoli nascosti» che abitano le montagne, dei colloqui con i morti, dei segni premonitori, dei profeti e delle profezie. Ma soprattutto delle fate. Vorrei essere chiaro: non sto dicendo che gli islandesi «credono» alle fate, ma che hanno rapporti con le fate23.

Si può osservare come in un certo senso quei «popoli nascosti» simboleggino l’Alterità stessa che il viaggiatore incontra e, se in questo caso sono rappresentati dalle fate e dagli elfi dell’Islanda, in profondità diventano la natura recondita dell’individualità dell’altro. Più avanti Manganelli asserisce: «Non vorrei dare l’impressione che si tratti di un residuo folkloristico; è del tutto chiaro che il rapporto con il mondo «nascosto» è un elemento essenziale del mondo interiore islandese, e sarebbe sciocco non trattarlo appunto come tale»24. Lo sguardo del viaggiatore pertanto non è giudicante rispetto all’universo segnico che gli si pone di fronte e tenta di essere libero dai pregiudizi che potrebbero intaccare quel contatto, quell’incontro così intimo con la natura profonda di quel mondo. La viva presenza delle fate non è perciò qualcosa di esteriore: non riguarda una tradizione resa manifesta per allietare turisti e viaggiatori bensì «un elemento essenziale del mondo interiore islandese». Si può porre attenzione all’aggettivo «interiore» che rende conto della volontà di indagare a fondo la natura dell’alterità, di oltrepassare la sua superficie per immergersi nella sua essenza più intima. Il viaggio infatti si configura all’interno dei testi come un itinerario esteriore ma soprattutto interiore compiuto dall’autore, in cui l’Altro diviene quello specchio privilegiato per leggere se stessi, per confrontarsi con la propria natura più profonda. Il viaggiatore aggiunge inoltre: «Chi mi ha parlato […] di questa misteriosa società con le fate e i «popoli nascosti» non ha mai usato la parola «superstizione». Ho letto che si può dubitare che l’Islanda sia cristiana, ma non si può dubitare che sia religiosa; e credo sia esatto»25

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G. MANGANELLI, L’isola pianeta e altri settentrioni, cit., p. 66.

24

Ivi, p. 88.

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Si può rilevare ora come l’alterità incontrata in Islanda, così come quella islamica ed indiana, sia profondamente in relazione con il mondo dei sogni e dell’invisibile. In merito un giornalista islandese incontrato dal viaggiatore afferma: «Gli islandesi hanno un rapporto profondo con il mondo dei sogni, credono nelle premonizioni, sanno che esiste un destino e ad esso ubbidiscono, coltivano i rapporti con i morti, attraverso sogni, visioni, sedute spiritiche»26. L’Altro dunque appartiene anche in questo caso alla sfera onirica: esso rappresenta qualcosa di impalpabile ed inafferrabile per il viaggiatore, che può coglierne solo quelle «struggenti modulazioni» di cui si è parlato in precedenza.

Più avanti viene inoltre dichiarato: «Che cosa è l’Islanda? Forse è l’ultima e unica tribù europea. L’ultima fortezza dei profeti e delle fate. Vista dall’Europa, tutta l’Islanda è un «popolo nascosto»27.

È interessante ora evidenziare come, se non è lecito parlare di superstizione per l’universo nascosto islandese, ciò si verifica anche nel mondo indiano, rispetto ad una riflessione sul rapporto tra l’uomo e la Divinità: «Forse a qualche lettore verrà in mente quella sciocca parola, superstizione; non v’è parola più inutile a descrivere la condizione religiosa indiana […]»28

. Manganelli aggiunge:

Nulla si incrosta o sovrappone ad altro; il catalogo dei riti, delle invenzioni, dei miti, delle fiabe, delle formule, delle cantilene scende nel cuore, nel centro del corpo dell’uomo religioso. Costui non fa ricorso né ad una teologia, né ad un rituale vincolante; se volesse potrebbe accedere a parecchie teologie simultanee. L’indiano religioso conosce la propria religiosità nella misura in cui conosce se stesso […]29

Questa citazione diventa illuminante non solo per comprendere l’operazione di negazione dei pregiudizi, ma anche per cogliere la grande consapevolezza della ricchezza culturale propria dell’altro. Nelle parole dell’autore si esprime l’apertura spirituale che caratterizza il mondo indiano, il cui rapporto con la religione, lungi dall’essere dogmatico, è al contrario indissolubilmente congiunto alla conoscenza del proprio sé.