2.4. Un maggior interesse della Comunità Internazionale
2.4.4. Per uno statuto onnicomprensivo e definitivo del profugo ambientale
Lo status da concedere ai rifugiati ambientali dovrebbe prevedere una importante differenza rispetto a quello classico attribuito ai rifugiati convenzionali. Questi ultimi godono di un nuovo e diverso livello giuridico nel momento in cui rompono i rapporti con il loro Stato di origine. Il loro status giuridico cambia, viene sostituito da un altro rapporto con lo Stato che li accoglie.
I rifugiati ambientali non rompono il loro legame giuridico con lo Stato di provenienza, solo che esso, temporaneamente, non sarà operante a causa della catastrofe ambientale di cui sono stati vittima. Può anche avvenire che lo Stato di provenienza potrà trovarsi in una situazione di catastrofe permanente ed irreversibile e che dunque cesserà di esistere.
L’eventuale Statuto dei rifugiati ambientali, dunque, dovrà prevedere l’inefficienza dello Stato d’origine per un certo periodo, o in maniera permanente e garantire alle vittime un aiuto materiale da parte dello stato che li accoglie e il ripristino del legame giuridico normale con il proprio paese, qualora fosse ancora vivibile, ed una volta verificate le condizioni per poter rientrarvi. Quando gli effetti della catastrofe ecologica si saranno dissipati, il profugo perderà la qualifica di rifugiato ambientale e rientrerà a far parte della giurisdizione del suo Stato.
Se lo spostamento dovesse essere definitivo come ci si dovrebbe comportare? Se una catastrofe naturale rendesse un territorio inabitabile per molti anni o per sempre, cosa ne sarebbe del rifugiato ambientale? Manterrebbe lo status per un tempo indefinito? Esistono molti esempi di catastrofi ecologiche che hanno effetti
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duraturi: il disboscamento intensivo, l’acidificazione dei suoli, gli incidenti chimici e nucleari, l’innalzamento del livello dei mari, ecc. Sono tutte situazioni suscettibili di generare spostamenti di popolazioni in maniera definitiva. Appare però complesso poter concedere uno status definitivo di rifugiato ambientale, per almeno due ragioni: 1. Uno status concepito per far fronte ad una situazione emergenziale non potrà durare più di una generazione. Si porrebbe altrimenti il problema di un bambino nato durante il periodo di rifugio. Non sarebbe plausibile concedergli in automatico lo stesso status dei genitori.
2. Una partenza definitiva richiede una soluzione anch’essa definitiva. Il carattere emergenziale non potrebbe porsi quando c’è da subito la certezza di una lunga inabitabilità dei luoghi colpiti da un evento naturale.
Un eventuale Statuto dei rifugiati ambientali rischierebbe di non essere utile a nessuno se non venisse formulato distinguendo tra esodi temporanei ed esodi definitivi. Ma allora su quali basi distinguere tra rifugiati ambientali temporanei e definitivi? E’ possibile stabilire un lasso di tempo oltre il quale lo status diviene definitivo? Cinque anni, dieci, venti o il tempo di una generazione?
Il tempo di una generazione, circa 25 anni, sembra decisamente troppo, sia dal punto di vista dei rifugiati, sia dal punto di vista dello Stato che li accoglie. Allo stesso tempo, cinque anni sono decisamente pochi affinché un ambiente colpito, per esempio, da una catastrofe nucleare, possa tornare ad essere abitabile. La maggior parte dei disastri ambientali si riassorbe rapidamente, nel giro di mesi, solitamente, ma in alcune situazioni il degrado o la contaminazione possono perdurare anche per decenni.
A tutt’oggi sembra prematuro rispondere a questi problemi, anche perché il calcolo dei tempi di ripristino di un territorio non può essere fatto al tavolo di una Conferenza di diplomatici ma piuttosto sulla base di studi scientifici. Ad ogni modo, riguardo i rifugiati ambientali definitivi, la soluzione ottimale sembrerebbe la rilocalizzazione, ossia la ricerca di un luogo capace di accoglierli per sempre. Qui il ruolo della Comunità Internazionale nel cercare soluzioni definitive, sarebbe assolutamente fondamentale, in quanto ad essa dovrebbe competere la responsabilità della rilocalizzazione su basi di totale sicurezza, dignità e umanità. In sostanza una soluzione che non pregiudichi minimamente alcuno dei diritti fondamentali
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individuali e collettivi citati precedentemente. A carico della Comunità Internazionale peserebbe maggiormente il compito e la responsabilità di protezione e tutela dei diritti per dei rifugiati definitivi.
A distanza di qualche anno dalle prime teorizzazioni sul tema, la questione dei rifugiati ambientali o qualunque altra definizioni si voglia dare loro, ha sempre più attirato la ricerca, sia scientifica che politica. Alcuni studiosi pensano sia opportuno distinguerli in differenti categorie a seconda dell’evento naturale originario.
Si vorrebbe in tal modo distinguere, per esempio, la categoria dei rifugiati “climatici”, in fuga dalle loro terre a causa delle mille conseguenze del global
warming; oppure si potrebbe immaginare uno status per i rifugiati “chimici”, come le
vittime di Bhopal, Seveso, o quelli, attualissimi dell’Ungheria e delle coste del Danubio; oppure rifugiati “nucleari” come per le vittime di Chernobyl, Three Miles Island, Mururoa o la recente Fukushima. Si possono immaginare decine di categorie possibili. Ma classificare, separare, distinguere, comporterebbe soltanto problemi burocratici: chi è competente per scegliere i beneficiari? Col rischio di tornare al modello della Convenzione di Ginevra del 1951 per i rifugiati convenzionali che prevede procedure individuali. Un regime di questo genere, come abbiamo più volte precisato, è inadatto, svuoterebbe l’impianto di protezione collettiva progettato.
Sembrerebbe di conseguenza, più opportuno mettere a punto uno Statuto onnicomprensivo dei rifugiati ambientali. Uno Statuto, cioè, che non distingua tra le varie catastrofi ambientali e le motivazioni di un popolo di migrare. Semplicemente uno Statuto che agisca in base alle conseguenze di un determinato evento naturale. Recentemente si è proposto anche a livello internazionale il concetto di rifugiato “della fame”91
. Ma è chiaro che se una persona o una comunità si trova al limite delle possibilità di nutrirsi, è l’ambiente circostante che non gli permette di fornire più il cibo (per esempio, nei casi di estrema siccità, desertificazione, sfruttamento insostenibile dei suoli agricoli, ecc.). Ci si ritrova quindi con la medesima definizione proposta di rifugiati ambientali.
L’idea alla base della proposta di uno Statuto speciale e dedicato per i rifugiati ambientali, è semplicemente una: se una popolazione viene seriamente messa in
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pericolo dal suo ambiente, deve poter trovare il sostegno della Comunità Internazionale nella sua interezza. E’ competenza e obbligo morale degli Stati e delle Organizzazioni Internazionali, specie l’UNHCR, riunirsi intorno ad un tavolo per adempiere alla loro missione fondamentale: rispettare la dignità di ogni uomo e di ogni donna in qualsiasi situazione, specie quelle più estreme.