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La storia della colonna infame

a. Verità, vero

Più volte riaffiora ne La storia della colonna infame la questione della verità, o meglio, della verità e del suo opposto, il falso, la bugia, che nel corso del processo e dell'opera di fatto subiscono un fenomeno di scambio, di inversione reciproca, perché ciò che è falso viene eretto a vero e ciò che rientra nel vero o passa per falso o più spesso finisce sotto silenzio, inosservato.

Già nell'introduzione, quando Manzoni rileva che dal credere alle unzioni o dall'ammettere la

81 Sciascia, Verga e la libertà, cit., pp. 1049-1051.

82 Basti la seguente confessione sciasciana in merito al suo atteggiamento verso la letteratura e il suo essere

moralista. Partendo da un articolo di Ceronetti su Céline, nato a sua volta da una nota precedente dello stesso Sciascia, lo scrittore siciliano dice di sé «sono sempre, facendo letteratura o parlandone, un maestro di scuola. Non riesco, cioè, ad amare tutta la letteratura; e anzi molta ne respingo, ne voglio ignorare. […] a un vero letterato [piace] tutta la letteratura. Non sono dunque (ma lo sapevo già) un vero letterato» L. Sciascia, Nero

pratica della tortura non dovessero per forza discendere il riconoscimento di colpevolezza del Piazza e del Mora, la tortura per tutti gli indagati e che li si riconoscesse per forza colpevoli, commenta: «Verità che può parere sciocca per troppa evidenza; ma non di rado le verità troppo evidenti, e che dovrebbero essere sottintese, sono in vece dimenticate»83.

A ben vedere tutto il processo e quindi il volumetto è costruito attorno a una verità evidente ma negata e a falsità non credibili, o comunque facilmente smascherabili come tali, che vengono però erette a verità contro ogni ragionevolezza.

All'origine di tale inversione, in base all'interpretazione dei fatti che dà l'autore, sta uno scambio operato dai giudici: essi «non cercavano una verità, ma volevano una confessione», sostituiscono al loro obiettivo, la verità, la volontà di trovare un colpevole, come ridirà in più punti84.

Chiarito questo aspetto, ecco che ogni volta che appare la parola «verità» in bocca ai giudici, essa si carica di falsità, assume un significato antifrastico, non è più verità, ma falsità. Ad esempio il giudice minaccia al Piazza la tortura «per hauere la verità». La parola ritorna nel seguito dello stesso interrogatorio, in cui si usa la tortura, altre due volte, presente in brevissime citazioni dai documenti del processo, che l'autore riporta inserendole in corsivo, lì dove i giudici ne fanno richiesta al Piazza, e un'altra volta nelle dirette parole del Manzoni85. In questo processo di creazione di una verità che è falsa86, quella che vogliono i giudici, lo scrittore scopre come la vera verità venga subordinata alla menzogna. Viene infatti usata dal Piazza per inventare ciò che i giudici vogliono, e quindi declassata a elemento puramente strumentale, funzionale alla creazione della menzogna: «mentendo a suo dispetto, cercava di scostarsi il meno possibile dalla verità». Quando deve rispondere in merito alla quantità di unguento che avrebbe ricevuto dal Mora, Piazza dice che ne ebbe quanto ne conteneva il calamaio che aveva di fronte: «non potendo cavar nulla dalla sua memoria [di vero]», si attacca «a qualcosa di reale». In seguito, a un'altra domanda, il Piazza torna alla verità vera, usata per confezionare la bugia, ammette cioè di non conoscere che di vista il barbiere Mora, osserva Manzoni che egli non si accorge «come la verità che gli si presenta alla memoria, faccia ai cozzi con l'invenzione», poiché è difficile credere che tra due che si conoscono

83 A. Manzoni, Storia della colonna infame, cit., p. 309.

84 Ivi, p. 346, Manzoni dice che la paura di non trovare reo il Mora «è la chiave di tutto» ivi, p. 367, a un prete

«che non aveva l'impegno di trovar de' rei», come invece lo avevano i giudici, l'iniziale storia inventata dal Baruello pare strana ivi, p. 400.

85 Ivi, pp. 348-349.

86 È accostabile alla «verità» falsa, inventata, la «storia» che il Baruello dice ai giudici, dopo che gli viene

promessa l'impunità; nel dettaglio, la parola, più volte ripetuta dal Manzoni, si accompagna ai verbi che dichiarano la sua natura di invenzione: «cominciò una storia», «corresse la storia», «raccontò», «cominciò un'altra storia», «risposte che imbrogliavan la cosa sempre più»; in un caso è sostituita da «favola», A. Manzoni,

appena si tengano simili rapporti volti a compiere atti illegali87.

Proprio durante questo interrogatorio, al Piazza viene chiesto perché non avesse confessato prima, non avesse detto «questa verità» mentre veniva torturato, Manzoni, in un nuovo capoverso, commenta: «Questa verità!», a riconoscere che ai giudici interessava non la verità, ma un racconto che individuasse dei colpevoli88.

Quando al Mora si contesta che il Piazza ha testimoniato di aver ricevuto da lui un vasetto di unto per contagiare le persone di peste, e egli nega, i giudici gli annunciano che dal teste «gli

sarà questa verità sostenuta in faccia», Manzoni di nuovo va a capo e commenta: «Di nuovo questa verità!». Nel seguente confronto tra i due si assiste allo scontro diretto tra la verità

falsa e la verità vera: il Piazza dice «Signor sì, che è vero» quanto affermato e il Mora ribadisce che «non si trouarà mai questo»89, tra i due e le loro sfere, l'una della bugia indotta dai giudici, l'altra della verità, non vi può essere comunicazione, prevaricazone della prima sulla seconda, sì.

Sotto tortura il Mora protesta «d'aver detta la verità», sostiene che l'altro «dice la bugia», altre due volte compare il nome verità, nel senso di verità vera, finché egli non cede: «V.S. veda

quello che vole che dica, lo dirò», confessa ciò che vogliono, chiede di non essere più

torturato poiché si dichiara pronto a dire «la verità», che però ormai non è più la verità vera ma la verità falsa90.

Essa viene costruita seguendo le indicazioni che già in precedenza i giudici negli interrogatori gli hanno dato semplicemente rivolgendogli le domande. Un caso è quello del fornello trovato nel cortile di casa del Mora, sul quale si erano soffermati già i giudici per la liscivia vecchia che vi si trovò, l'accusato di conseguenza «Dice che il veleno lo teneva nel fornello, cioè dove loro si erano immaginati che potesse essere»91. Mora fa dunque proprio ciò che ha detto: dice quello che vogliono i giudici.

Lo scontro e la sconfitta della verità vera a vantaggio della verità falsa si realizzano sul corpo del torturato con continui passi verso la verità falsa e inutili passi indietro nella realtà, verso la verità vera, una specie di guerra di posizione nella quel però i territori riconquistati dal fronte della verità vera vengono subito ripersi, corrispondono dunque a effimere vittorie parziali, ininfluenti nel progressivo complessivo e conclusivo avanzare dei nemici92. Bene si vede il

87 A. Manzoni, Storia della colonna infame, cit., p. 360. 88 Ivi, p. 362. Si veda anche la n. 238 p. 362.

89 Ivi, pp. 374-375. 90 Ivi, pp. 378-379. 91 Ivi, cit., p. 382.

92 A parte è l'eccezione dell'arrotino figlio che continuerà, pur sotto tortura, a non cedere alla verità falsa,

«l'istanze [dei giudici] di dir la verità», ma che sarà comunque condannato, A. Manzoni, Storia della colonna

movimento descritto quando i giudici avrebbero dovuto in teoria, in base a quanto previsto, chiedere al Mora di confermare quanto detto sotto tortura, e invece gli chiedono se ha altro da aggiungere. Mora nega quanto già detto e riconosce: «quello che ho detto, l'ho detto per i

tormenti», minacciano di nuovo di torturarlo e lui: «quello che dissi hieri non è vero niente» e

lo ribadisce: «in coscienza mia, non è vero niente»; legato, sul punto di essere torturato, per paura del dolore, ritorna alla verità falsa: «la verità che ho deposto, la voglio mantenere», slegato, ritorna alla verità vera: «non è vero niente»; viene quindi torturato. Manzoni continua: «di nuovo disse quello che volevano» e, una volta finito, «Lettogli l'esame, disse: è

la verità tutto». Lo scrittore va a capo e inizia un nuovo capoverso, è senza parole. Qualche

riga dopo, commentando una espressione del barbiere, concluderà che «in quel momento, [aveva] abdicato, per dir così, sé medesimo, e acconsentiva a affermare, a negare, a sapere quello soltanto, e tutto quello che fosse piaciuto, a coloro che disponevan della tortura»93. Il comportamento di Caterina nella Strega e il capitano è sostanzialmente identico.

L'arrotino è forse più esplicito, perché ai giudici, che lo torturano e vogliono che dica di aver ricevuto i soldi e l'unguento dai due condannati, descrive precisamente il meccanismo che lo scrittore riconosce nel corso di tutto il volume: dice loro che non è vero ciò che gli chiedono, ma che se lo torturano ancora, sarà «forzato a dire che è vero, benché non lo sij»94. Più appropriatamente, rispetto alla visione manzoniana che vuole additare le responsabilità individuali, si dovrebbe dunque dire che più che uno scontro tra verità vera e falsa sul corpo del torturato, si ha uno scontro tra torturatori e torturato sul corpo dello stesso. Lo ribadisce inconsapevolmente il Mora stesso, quando gli chiedono dell'uomo importante che secondo il Piazza avrebbe dato i soldi, con questa risposta: «V.S. non vole già se non la verità, e la verità

io l'ho detta quando sono stato tormentato, et ho detto anche d'auantaggio»: ennesima

dichiarazione di aver detto sotto tortura ciò che si voleva da lui, la verità falsa; per Manzoni si tratta infatti di «una protesta, della quale lui forse non conosceva la forza»95.

Il gioco di creazione della verità falsa è però più complesso, perché si tiene contemporaneamente su due campi di battaglia diversi, su due corpi, c'è anche la battaglia sul Piazza, le risultanze dell'un fronte si ripercuotono sull'altro vicendevolmente.

Al Piazza contestano di non aver detto della bava dei cadaveri consegnata al Mora, secondo quanto da quest'ultimo dichiarato, il primo nega e i giudici fanno entrare un altro strumento nel campo di battaglia: non più solo la verità falsa spacciata per vera, ma anche la verità falsa, sempre spacciata per vera, ovviamente, ma parziale: contestano il «non hauer detto la verità

93 A. Manzoni, Storia della colonna infame, cit., pp. 383-384, 385. 94 Ivi, p. 398.

intera» e gli prospettano quindi la perdita dell'impunità. Piazza allora adegua la sua verità

falsa parziale a quella propostagli: «è vero», dice, che gli era stata chiesta la sostanza e che l'aveva data96. Per comprendere la comparsa della verità falsa parziale è necessario tener presente quello che premette Manzoni97: i giudici devono ora fare delle due versioni, dell'uno e dell'altro, differenti in alcuni punti, una unica. Di conseguenza, siccome iniziano dal Piazza, ecco che la sua verità falsa diventa parziale, perché solo una sua parte è uguale a quella del Mora. Piazza inizialmente cerca di difendere il pezzo di verità vera che i giudici vogliono eliminare, una specie di enclave in territorio ormai nemico, Manzoni commenta: «come se quelli che gli avevan creduta la bugia, dovessero credergli la verità»98. L'inversione è totale: se si seguono le regole della bugia, del falso, essa fa fede, ad essa ci si affida e si crede; la verità non può essere creduta. In particolare, vi è anche un aspetto giudiziario-processuale: tutte le volte che la bugia viene ufficialmente riconosciuta nell'avanzare del processo come verità, ha effetto di verità e a partire da essa derivano altre conseguenze giudiziarie per tutte le persone coinvolte. Vicino ormai all'esecuzione della sentenza del Piazza e del Mora, Manzoni rileva come ciò che essi avevano detto «i giudici l'avevan tante volte chiamato verità […] E le loro deposizioni promossero torture»99. L'autore interviene una volta di più a ribadire che quelle bugie erano chiamate verità, non lo erano, ma ci si comportò come se lo fossero, perseguendo quindi di conseguenza coloro i quali da esse erano chiamati in causa.

Viceversa, quando il Piazza inventa il nome del Padilla, tocca al Mora adeguarsi. Colla scusa del confronto tra i due, viene fatto sapere al Mora il nome che si vuole dica come mandante, così che la sua versione coincida con quella dell'altro imputato. Manzoni tiene a informare il lettore che il primo ad accorgersi che il confronto era un «“pretesto”» fu l'avvocato del Padilla, del quale riporta appunto le parole, a riprova della sua tesi che anche un uomo del Seicento, come era il difensore del Padilla, poteva vedere l'ingiustizia che veniva commessa. Ora, nel nuovo confronto, Mora nega, Piazza ribadisce sostenendo «che è la verità» e Mora cede subito. Manzoni ipotizza che egli immagini già che con altre torture gli avrebbero fatto dire quello che volevano, e quindi chiosa: «non ebbe nemmeno la forza d'opporre un'altra volta la verità alla bugia». Ci si arrende direttamente alla bugia, evidentemente sono già esauste le forze. Finito il confronto, gli si chiede «la verità», ovviamente quella del Piazza; egli replica di averla detta; torturato, conferma la versione del supposto complice e i giudici di nuovo ottengono di falsificare ulteriormente la realtà100.

96 A. Manzoni, Storia della colonna infame, cit., pp. 387-388. 97 Ivi, p. 387.

98 Ivi, p. 388. 99 Ivi, p. 395. 100 Ivi, pp. 391-392.

b. Verosimile, inverosimile

Molti dati che sono delle inverosimiglianze palesi, cioè, che sono contrastanti con il buon senso o con altre dichiarazioni e prove raccolte durante il processo, vengono passati sotto silenzio.

Ad esempio, si tralascia il fatto che le due donne, dalle cui testimonianze tutto inizia, non avevano visto entrare il Piazza «nella porta del Tradate», lì dove maggiore pare fosse la presenza di sostanza attaccata sui muri101.

Così, se sono deduzione banali che il Piazza andasse rasente il muro per ripararsi dalla pioggia e che strofinasse le dita contro lo stesso, giacché scriveva, per pulirsele dall'inchiostro, queste verità sciocche «per troppa evidenza», non vengono formulate e vengono sostituite da altre102. Altrettanto, non pare incredibile che il sospetto untore scegliesse di mettere in atto la sua azione criminale il giorno senza essere «almeno guardingo», che ritornasse indietro lì dove aveva già compiuto il misfatto, che senza precauzione alcuna maneggiasse una sostanza che avrebbe dovuto diffondere la peste al solo contatto. L'autore chiama questi dati: «strane inverosimiglianze»103. Osserva Manzoni che per la testimone, che vedeva unzioni ovunque, è normale pensare che il Piazza avesse in mano un vasetto, e non, più probabilmente, visto che scriveva, un calamaio104. Egualmente, quello che probabilmente era sporco sui muri lì lasciato da chi sa quanto tempo, diventa prova del delitto e il fatto che l'imputato Piazza non fosse scappato, non diviene indizio di innocenza105. Proprio in merito a quest'ultima informazione lo scrittore rileva come ciò che è lampante venga tralasciato di proposito: «sarebbe ridicolo il dimostrar che uomini potevano vedere cose che l'uomo non può non vedere: può bensì non volerci badare».

Manzoni riporta anche delle inverosimiglianze palesi, ovviamente non colte dai giudici, segnalate da Verri nelle Osservazioni sulla tortura. A proposito della deposizione del Piazza, quando coinvolge il Mora nelle presunte unzioni, non si capisce perché il barbiere non eseguisse da solo di notte quelle operazioni ma vi dovesse coinvolgere un complice e perché non fosse stato lui stesso a imbrattare la sua porta (la prima di queste annotazioni è riprodotta autografa). Egualmente, al Verri, citato in una sua postilla, si deve un altro rilievo: Mora dichiara che gettava nella Vetra ciò che avanzava del veleno usato, non si capacita lo scrittore illuminista che l'imputato non abbia fatto altrettanto con ciò che era stato trovato nel cortile di

101 A. Manzoni, Storia della colonna infame, cit., p. 320. 102 Ivi, p. 319.

103 Ivi, pp. 320-321. 104 Ivi, cit., p. 321. 105 Ivi, pp. 321, 324.

casa sua, una volta che il suo complice era finito in prigione, cioè, appare realmente inverosimile che non si sia liberato del corpo del delitto nel momento in cui più era pericoloso conservarlo, poiché, essendo stato scoperto il suo complice, il Mora avrebbe dovuto prevedere che prima o poi avrebbe potuto subire una perquisizione106.

Quando vanno ad arrestare il Mora, osserva Manzoni, egli, seppure in teoria colpevole, se ne stava tranquillo a casa sua; non solo, lì l'auditore e la sbirraglia con leggerezza maneggiano il ranno, ritrovato in un fornello nel cortile, che sarebbe però sostanza destinata a diffondere la peste107. Egualmente, non risulta che i giudici abbiano fatto alcun rilievo al Piazza, quando egli, minacciato di perdere l'impunità, si contraddice rispetto a una sua precedente testimonianza: sostiene che il Mora gli avesse detto a cosa serviva l'unguento, mentre prima lo aveva negato; altrettanto, non risulta che i magistrati si siano accorti che quando più avanti Piazza fa i nomi di altri coinvolti, lo fa perché non ha altro da dire, e dunque che sta inventando: impossibile, commenta Manzoni, che chi aveva chiesto all'interrogato di fornire «circostanze che rendessero verisimile il fatto», «chi propone la difficoltà», «non la veda»108. Alla stessa maniera pare passare per «verosimile» che il Mora e il Piazza si decidessero a diffondere la peste per guadagnare del denaro, i giudici non colgono la sproporzione tra «l'enormità e i pericoli d'un tal delitto, e l'importanza di tali guadagni»109, chiaramente esigui. Quando al Mora, poi, gli stessi giudici contesteranno tale inverosimiglianza, egli risponderà che vadano a chiedere la spiegazione al Piazza del perché, per i soldi che avrebbero previsto di guadagnare, avessero deciso di compiere il reato. I giudici non colgono quest'altra inverosimiglianza: che l'imputato rimandasse a un altro la spiegazione «d'un fatto dell'animo suo», in merito al movente, quando, per di più, l'altro dichiarava un movente in contraddizione con il suo110.

Quando il Piazza inventerà l'esistenza di un uomo importante che avrebbe dato il denaro al Mora e quest'ultimo viene interrogato su ciò, Manzoni osserva come i giudici si erano scordati che ben poco di questo denaro era stato trovato in casa sua, ma del resto non paiono nemmeno essere minimamente impensieriti dal fatto che più volte il Piazza sostenga di non sapere il nome della «persona grande» che avrebbe dovuto dare i soldi al Mora e poi alla fine ne faccia il nome, sostenendo che gli era stato confidato, non subito, dal supposto complice. La questione del denaro tornerà più avanti, quando, di tortura in tortura e di bugia in bugia, il Mora dirà che un banchiere aveva dato denaro al Piazza, altra inverosimiglianza reale che

106 A. Manzoni, Storia della colonna infame, cit., pp. 361, 382. 107 Ivi, pp. 364, 366.

108 Ivi, pp. 370, 372. 109 Ivi, p. 381. 110 Ivi, pp. 386-387.

passa sotto silenzio, giacché al Piazza denaro in casa proprio non era stato trovato, ricorda Manzoni. A questa se ne aggiunge un'altra: Piazza, domandatone, seppure avesse sempre negato di aver preso denaro, ora fa il nome di quello che glielo avrebbe dato111.

All'opposto, se nulla gli inquirenti rilevano in merito alle inverosimiglianze che hanno a che fare col Piazza o col Mora, fin qui riscontrate112, e che avrebbero dovuto farli propendere per l'innocenza degli imputati, sono pronti a coglierne di irrilevanti. Manzoni parla espressamente di «pretesa inverisimiglianza» e dice che i giudici vanno a caccia «di qualche altra»113 inverosimiglianza finta per torturare il Piazza.

Così, come per la parola verità, l'aggettivo «inverosimile» detto dai giudici, assume un altro significato, quello di strumentale pretesto per estorcere la verità-falsità che si vuole dall'imputato. Si minaccia la tortura per due «cose inuerisimili» assolutamente irrilevanti: che il Piazza negasse di sapere delle unzioni della Vetra e di sapere i nomi dei deputati coi quali si era incontrato114. Più avanti, più esplicitamente, con amaro sarcasmo lo scrittore osserva come per i giudici i tormenti erano probabilmente «gli argomenti verosimili e probabili» cui faceva riferimento la legge115. Quando il senato ordina che Piazza sia ritorturato, Manzoni cita di nuovo i documenti del processo: «sopra alcune bugie e inverisimiglianze», termini da