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Storia del commercio veneto-inglese

Capitolo 4. Intese e scontri diplomatico-commerciali nell’habitat naturale

4.1. Storia del commercio veneto-inglese

L’Inghilterra e Venezia erano collocate in posizioni geografiche troppo distanti per essere coinvolte in guerre o per firmare alleanze reciproche; i rapporti più diretti che avevano stabilito si riferivano a una serie di trattati commerciali riguardanti l’importazione e l’esportazione dei prodotti più diffusi nei propri domini. Durante il tardo medioevo le merci della Serenissima raggiungevano annualmente le coste inglesi sulle cosiddette “mude di Fiandra”, che consistevano in tre o quattro galere veneziane che sulla via delle Fiandre facevano scalo a Southampton (Antona) per barattare il vino e le spezie con la pregiata lana inglese; tuttavia, nel 1533 queste spedizioni cessarono definitivamente di essere attive. D’altra parte, negli ultimi anni del XV secolo, i mercanti anglosassoni giungevano nel Mediterraneo per vendere la lana a Firenze e dirigersi poi verso Candia ad acquistare il vino32. La successiva ascesa inglese come potenza coloniale e navale portò a rovesciare il

rapporto tra le due nazioni; nel XVIII secolo fu Venezia infatti, insieme a Livorno, a diventare un punto di rifornimento di materie prime, che i mercanti anglosassoni compravano esportando in Italia prodotti rifiniti33. Fu proprio quest’ultima città ad

assumere in questo secolo il ruolo di tappa fondamentale di scalo per i beni inglesi provenienti da e per il Levante a partire dagli accordi firmati nel 1630 tra il granducato di Toscana e l’Inghilterra34. Per accaparrarsi le ingenti quantità di denaro provenienti dal Nord

Europa, il granduca decise di abbassare la qualità della seta, scalzando così la Repubblica da principale partner commerciale inglese in questo settore. Di tutta risposta lo Stato marciano

31 Ivi, pp. 179-180. 32 Si veda ivi, pp. 9, 13.

33 Si veda G. Gullino, Dall’uva passa alla macchina a vapore (con in mezzo le afflizioni di un divorzio), in Non solo

spezie, cit. p. 11.

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non solo incrementò la qualità dei suoi prodotti vendendoli nei mercati tedeschi e levantini ad un prezzo elevato, ma proibì anche la loro esportazione in Inghilterra temendone una drastica diminuzione del valore35. Giuseppe Prato attribuì, per l’anno 1726, a Livorno più

del 73% del commercio complessivo italo-inglese, il 17,7% a Venezia, poco più del 3% a Napoli e a Genova e il 2% a Messina36.

Gli articoli che la penisola italiana poteva offrire in grandi quantità tramite i porti di Genova, Livorno e Venezia, erano l’olio di oliva37 e l’uva passa (derivante solo da quest’ultima città).

Nel percorso inverso, verso il 1690, giungevano dalle colonie, tramite la riesportazione da Londra, lo zucchero delle Barbados, il pepe, il calicot, il rame e il ginger38. Dal paese

anglosassone invece arrivavano in grande quantità prodotti tessili perché “abbonda il paese d’ogni sorte di manifatture di lana, non manca di lavorieri di seta.” e altri come “il piombo, il stagno, e il ferro, il pesce salato e quantità di fromenti [che] sono i prodotti del paese che si estragono con poco o niente di dazio, il tutto per facilitare o incoraggiare il commercio.”39. Per molti secoli le esportazioni inglesi consistettero quasi interamente in

lana e manifatture di lana, ma solo nel 1700 queste ultime riuscirono a soddisfare interamente, grazie anche all’aiuto dei beni delle colonie, l’acquisto di materie prime o rifinite dell’area mediterranea40. Nel primo quarto del secolo le esportazioni di pesce,

soprattutto aringhe, sono registrate a un valore monetario appena inferiore a quello della lana. Mentre questa proviene ancora tutta da Londra, il pesce viene perlopiù dai porti esterni. Verso il 1696 i mercanti inglesi che commerciavano con Venezia affermavano che gli Inglesi esportavano ogni anno a Venezia pesci di tutti i tipi per il valore di centomila ducati e importavano uva passa per il doppio di questa cifra41. Anche altre testimonianze,

come quella della Levant Company, che riducevano il disavanzo tra 50 e 81 mila sterline,

35 Si veda G.P. de Divitiis, Mercanti inglesi nell’Italia del Seicento. Navi, traffici, egemonie, Venezia, Marsilio Editori,

1990, pp.155-156, 169, 171.

36 Si veda E. Grendi, Sul commercio anglo-italiano del Settecento: le statistiche dei customs, pp. 263-275, in Quaderni

storici, nuova serie, XXVII, Bologna, Il Mulino, 1992, p. 271. Questa stima venne pubblicata dal Prato in Miscellanea in onore di A. Manno, I, Torino 1912.

37 Circa un terzo dell’olio importato veniva utilizzato per la fabbricazione di sapone. Dal XVIII secolo venne

impiegato nelle operazioni preliminari della filatura della lana, la maggiore industria del paese.

38 Si veda G.P. de Divitiis, Mercanti inglesi nell’Italia del Seicento, cit., p. 150. 39 L. Firpo, Relazione di Alvise II Mocenigo ambasciatore ordinario, cit., p. 1073.

40 Si veda R. Davis, English Foreign Trade (1700-1774), in The Economic History Review, Nuova serie, XV, Wiley

on behalf of the Economic History Society, 1962, cit., p. 286.

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sostenevano l’idea che la bilancia commerciale inglese con Venezia fosse passiva42. Lana,

pesce e merci estere (in primis il pepe) sono quindi i protagonisti delle esportazioni inglesi di questo periodo. La situazione non mutò nel decennio seguente, ma si registrò invece, fino agli anni Quaranta, accanto alla contrazione già osservata del volume del commercio, un calo delle esportazioni di pesce43. Proprio su questo punto, Giacinto Fiorelli44 auspicava

“si potesse dispensare da un tale gravoso consumo, e che li mari del Dominio pubblico fornir potessero uguale o altra sorte di pesce, buono a salarsi, e bastante al bisognevole, perché ne deriverebbe un grande risparmio di soldo che esce.”45. È interessante notare che

le aringhe, insieme allo stockfis (stoccafisso), facessero parte del carico di una nave inglese denominata Corfù, spedita dal porto di Bristol nel marzo del 1716 in direzione dell’isola veneziana. Oltre a queste materie erano presenti carne bovina salata, suino salato, biscotti, piombi, 20 cannoni di forno e, a discrezione del capitano della nave, qualunque altra merce commestibile che avesse trovato in Irlanda46.

La capitale dello Stato marciano fu l’ultima delle grandi potenze d’Europa con cui gli Inglesi strinsero rapporti commerciali. Ciò fu dovuto allo scarso interesse reciproco delle merci trainanti delle rispettive economie, ovverosia la lana per il paese anglosassone e le spezie e i prodotti di lusso per la Repubblica. Tuttavia, dalla fine del Trecento la corrispondenza tra le due nazioni si fece più fitta, e due furono i beni che dominarono la storia commerciale tra questi due paesi: l’uva passa raccolta dalle isole Ionie e il vino di Candia. Il primo dei due alimenti spopolava (e lo fa tuttora) in Inghilterra tanto che, sebbene il commercio tra le due nazioni fosse ormai in decadenza rispetto al secolo passato, essendosene spostato l’epicentro in Inghilterra/Olanda, le uve passe raccolte dalle isole continuavano a fruttare un introito annuo di cinquemila lire sterline47. Prima di parlare di questo traffico è

interessante rilevare l’esigua, ma stabile presenza dei mercanti inglesi a Venezia. Innanzitutto, essi non ebbero mai né un’organizzazione formale (come i tedeschi e il loro Fondaco), né una scuola o una confraternita che fungessero da luogo centrale di

42 Si veda G.P. de Divitiis, Mercanti inglesi nell’Italia del Seicento, cit., p. 147. 43 Si veda E. Grendi, Sul commercio anglo-italiano del Settecento, cit., p. 269.

44 Segretario e titolare dell’ambasceria della Repubblica di Venezia a Londra tra il 1717-1728. 45 M. Dal Borgo, Mercati e Merci tra Quattrocento e Settecento, in Non solo spezie, cit., p. 74.

46 Si veda l’allegato numero 1 che si trova in ASVe, Senato, Dispacci degli ambasciatori e residenti,

Inghilterra, Filza 91, Dispaccio 105.

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aggregazione in città. La maggioranza di loro visse nella zona al confine fra il sestiere di Cannaregio e quello di Castello, un’area tradizionalmente prediletta da altri gruppi di “stranieri” come i greci e i fiamminghi. Il loro numero si stima oscilli, tra la fine del Cinquecento e la fine del Settecento, tra i 20 e i 50 individui. Esisteva inoltre, al contrario dei loro corrispettivi veneziani a Londra, una netta separazione con l’ambasceria presente in città; l’elemento politico e quello economico si estendevano su due binari che era meglio tenere distinti, poiché la Repubblica era sì “l’amico” migliore che l’Inghilterra potesse avere nel Mediterraneo, ma anche il principale concorrente della stessa nei mercati del levante48.