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STORIA DELLA SCIENZA

Enrico Fermi » gechi e la statistica di Francesco Cordella e Fabio Sebastiani

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3 L'INDICE

' LIBRI D E L M E S E | H E

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Silvia Cavicchioli, L'EREDITÀ CADORNA. UNA STORIA DI FAMIGLIA DAL X V I I I AL X X

SECO-LO, pp. 404, € 34,09, Carocci - Pubblicazioni

del Comitato di Torino dell'Istituto per la Sto-ria del Risorgimento Italiano, Roma-Torino

2001

Ha quasi dell'incredibile la storia che viene ricostruita in questo informatissimo libro. Si tratta dei tentativi strenui, indefes-si, iterati per ben tre generazioni, e alla fi-ne frustrati, che la famiglia Cadorna compì per vedere riconosciuto il titolo, ori-ginario e antico, di nobile di Pallanza. Il fi-lo conduttore consiste nel racconto minu-to di una secolare caccia alla nobiltà, le cui lontane origini, attestate da diplomi vi-scontei e spagnoli, si era per così dire smarrita nella storia della famiglia e di quell'angolo del lago Maggiore, passato ai Savoia nel 1743. Inutilmente braccata tra scartoffie di famiglia, pergamene e pezzi di carta, genealogie e araldica, la vera nobiltà a cui i Cadorna non seppero rinunciare era quella che la storia e le ca-suali vicende vollero negare loro, ossia la nobiltà cittadina, pallanzese, ben più pre-stigiosa che non i titoli di conte concessi dal re, o la croce dell'Ordine Mauriziano ottenuta a prezzo di defatiganti procedu-re, o le alte cariche militari ricoperte da al-cuni di loro, come Raffaele, l'espugnatore di Porta Pia, e Luigi, capo di stato mag-giore dell'esercito italiano nella prima guerra mondiale fino a Caporetto. Per tut-to l'Ottut-tocentut-to inutilmente adirono tutte le strade legali possibili. La sorte giocò loro anche un tiro mancino facendo scompari-re in qualche faldone delle segscompari-reterie tori-nesi il diploma primitivo insieme con una documentazione di corredo, che costitui-va la procostitui-va diretta della nobiltà. Venuti a mancare i testimoniali autentici, i Cadorna furono costretti a rivangare nel loro pas-sato per fornire a funzionari di tetragona fedeltà alle regole burocratiche quelle te-stimonianze indirette che si illusero potes-sero supplire agli originali smarriti. In par-ticolare fu Giovanni Battista (1812-1870), personaggio centrale del libro, che, profondendo denari e annose fatiche per conseguire l'obiettivo, finì col lasciare ne-gli archivi di famine-glia la copiosa docu-mentazione che ha fornito alla studiosa un materiale di inusuale interesse. Lungo la trama che si snoda tra la metà del Sette-cento e l'inizio del NoveSette-cento, l'autrice ha saputo mettere in correlazione la storia di una famiglia con i problemi storiografici legati al tema della nobiltà, o meglio delle nobiltà, mostrando nei Cadorna il caso di una nobiltà smarrita ma non perduta, ri-vendicata ma non riottenuta, vanamente sostituita da inappaganti titoli di servizio.

DINO CARPANETTO

D. Vivant Denon e Abdel Rahman

el-Gabar-TI, BONAPARTE IN EGITTO. DUE CRONACHE TRA ILLUMINISMO E ISLAM, ed. orig. 1998, trad. dal francese di Vito Bianco, pp. 255, € 18,59, manifestolibri, Roma 2001

Katherine E. Fleming, BONAPARTE MUSUL-MANO. DIPLOMAZIA E ORIENTALISMO NELLA GRECIA DI ALI PASCIÀ, ed. orig. 1999, trad. dall'inglese di Loredana Melissari, pp. 233, €21,69, La Nuova Italia, Firenze 2001

Il primo volume, incentrato su due cro-nache coeve del medesimo straordinario avvenimento, presenta la campagna di Napoleone in Egitto, più che nei suoi aspetti bellici, come incontro di civiltà. Commento e interpretazione sottolineano le valenze positive dell'incontro, da cui emergerà un Egitto definitivamente muta-to in meglio; in quesmuta-to modo si trascura però l'eccezionalità dei due autori, en-trambi intellettualmente acuti quanto sce-vri di pregiudizi. Privo di apparati, il volu-me si rivolge palesevolu-mente a un pubblico non specializzato. Soltanto onomastica-mente contigua la severa e documentata

(nonostante il titolo, peraltro fedele all'ori-ginale) biografia di Ali Pascià, governato-re ottomano della Ggovernato-recia, discendente di briganti albanesi e anche all'epoca ste-reotipo di despota orientale, ma, secondo l'autrice, misconosciuto nei suoi meriti. Più che raccontare una vita, si esamina il protagonista per metterne in luce la reale complessità, attraverso sia la storia poli-tico-economica (qui detta "diplomatica") sia quella culturale (arti e letteratura, non-ché etnia, lingua, religione, "orientali-smo"). Buoni gli apparati, tranne il mode-sto indice dei nomi.

FRANCESCA ROCCI

Alfonso Scirocco, GARIBALDI. BATTAGLIE, AMORI, IDEALI DI UN CITTADINO DEL MONDO,

pp. 434, € 19,63, Laterza, Roma-Bari 2001

Fra i protagonisti del Risorgimento, Giu-seppe Garibaldi è forse quello che gode della maggiore popolarità, sia in Italia sia all'estero. Tuttavia, a questa indubbia ri-sonanza personale spesso non corrispon-de un acorrispon-deguato supporto storiografico. Intendiamoci, gli studi garibaldini sono sempre molto vivaci e la pubblicazione dell'edizione nazionale delle opere prose-gue con fervore, ma da parecchi anni mancava una trattazione biografica ampia e destinata a quello che una volta si chia-mava il pubblico colto. Basata su una co-noscenza diretta dell'amplissima lettera-tura critica e su una sicura padronanza delle fonti primarie, questa biografia di Scirocco ha un taglio narrativo che rende ia lettura estremamente scorrevole e av-vincente. Ovviamente, un lavoro di questo tipo non si può giudicare dalla quantità di informazione inedita che apporta, perché le linee fondamentali (e non solo quelle, a dire il vero) della vita di Garibaldi sono ben note. Semmai va valutato per come le notizie sono ordinate a comporre il profilo biografico. Da questo punto di vista oc-corre osservare che il racconto è detta-gliato senza divenire prolisso, le informa-zioni di carattere generale convivono in modo equilibrato con i dettagli e le nota-zioni particolari. Se la storiografia sull'ar-gomento è sempre tenuta presente e ri-chiamata nella bibliografia di ciascun ca-pitolo, nella esposizione si privilegiano le fonti dirette e i commenti dei contempora-nei. Così, ad esempio, viene riportato il lu-singhiero giudizio di Engels e di Marx sul-la spedizione dei mille o quello di Herzen sulla personalità dell'eroe dei due mondi, che allo scrittore russo era apparso "co-me un eroe classico, un personaggio

del-Eneide". Più in generale, questa

biogra-fia offre l'occasione per rimeditare la per-sonalità di Garibaldi al di fuori dei cliché e dei luoghi comuni. Se il condottiero niz-zardo era soprattutto un uomo d'azione, le sue scelte politiche, al tempo stesso reali-ste e impetuose, erano motivate dall'ade-sione ad alcuni principi di fondo. Certo, nella sua fedeltà agli ideali di libertà e, contemporaneamente, a quelli di naziona-lità c'è molto di ottocentesco; tuttavia la passione civile che anima l'adesione a questi valori fa di Garibaldi un nostro con-temporaneo.

MAURIZIO GRIFFO

ne di "un nuovo caso Dreyfus", in un libro strutturato come un'arringa difensiva gli autori si impegnano nella meticolosa con-futazione dell'edificio probatorio innalzato dalla controparte, cercando di smontarlo mediante considerazioni biografiche o ci-tazioni testuali, e dimostrando ora l'inat-tendibilità di testimoni e testimonianze, ora l'insensatezza del modo di agire del-l'Ovra qualora si sostenesse che Silone ne sia stato un confidente. Da considera-zioni in sé non decisive (come quella se-condo cui, siccome Fontamara e l'articolo

Riformismo e fascismo furono realizzati

quando Silone per l'accusa era ancora neli'Ovra, sarebbe assurdo ipotizzare una compromissione dello scrittore con il regi-me) e dalla condanna degli psicologismi di quanti, come Sofri, sostengono che Si-Ione di fatto confessò nei suoi romanzi, si procede poi allo scardinamento delle ipo-tesi colpevolistiche cui potrebbe indurre il macigno più duro a rimuoversi, ovvero la lettera scritta da "Silvestri" il 13 aprile 1930 per porre fine alla presunta collabo-razione con la polizia segreta. Sono nel complesso una cinquantina i testi analiz-zati, cui si aggiungono vari documenti tratti dagli stessi archivi fascisti: e di Silo-ne collaboratore sembra in effetti non ri-manere traccia alcuna. "In breve", affer-mano Tamburrano e gli altri, "nessuno si è accorto che Silone era stato una spia. Il più bello è che non se ne è accorta nem-meno l'Ovra".

DANIELE ROCCA

Giuseppe Tamburrano, Gianna Granati e

Alfonso Isinelli, PROCESSO A SLLONE. LA

DI-SAVVENTURA DI UN POVERO CRISTIANO,

pp. 161, € 10,32, Lacaita, Manduria (Ta) 2001

Nella querelle scatenata dagli articoli e dal libro di Biocca e Canali (cfr. "L'Indi-ce", 2000, n. 6) sulla presunta attività di informatore della polizia fascista che Ignazio Silone avrebbe svolto fra 1919 e 1930, Processo a Silone si schiera acce-samente dalla parte dello scrittore. Non esitando a definire quella di Biocca e Ca-nali un'"opera di immaginazione"

all'origi-Giuseppe Casarrubea, SALVATORE GIULIA-NO. MORTE DI UN CAPOBANDA E DEI SUOI

LUOGOTENENTI, pp. 272, € 19,62,

FrancoAn-geli, Milano 2001

Sicilia, 1947. La corsa per le regionali di primavera fa registrare un forte progresso delie sinistre, sospinte dalle rivendicazio-ni contadine. Il 4 gennaio la mafia, vicina ai reazionari del Fronte antibolscevico, in-terviene a modo suo: Accursio Miraglia, sindacalista di Sciacca, viene ucciso. Ma alle elezioni del 20 aprile il Blocco del po-polo trionfa ugualmente. A questo punto, è la guerra aperta. Il 1° maggio, a Portel-la delPortel-la Ginestra, il bandito Salvatore Giu-liano e i suoi sparano fra i manifestanti, e si registra una carneficina; il 22 giugno, ecco gii attentati contro sedi sindacali, o dei partiti del Blocco, a Partinico, Carini, San Giuseppe Jato, Borgetto, Cinisi e Monreale; il 21 dicembre sarà il turno di Campobello e Canicattì. Intanto, mentre si preparava il piano Marshall e i comunisti venivano estromessi dal governo naziona-le, la giunta regionale siciliana è passata sotto il controllo del centro-destra; ma so-lo il 18 aprile 1948 si potrà interrompere la lunga campagna elettorale della mafia nell'isola. Fin qui, la storia dei capi e dei vincitori. Quanto agli uomini della mano-valanza, cioè agli esecutori delle stragi, espressione d'un banditismo ormai alla mercé dei boss mafiosi, essi moriranno uno dopo l'altro fra il 1947 e il 1954 in cir-costanze sospette, che in questa eccel-lente inchiesta Casarrubea ricostruisce con implacabile precisione. Alcuni misteri di quegli anni rimangono ancor oggi tali, ma sono ormai evidenti, nel contesto sici-liano dell'epoca, sia la funzionalità e l'effi-cacia in direzione anticomunista della triangolazione fra mafia, influenti settori delle forze dell'ordine e banditismo, sia il coinvolgimento di numerosi politici in ope-razioni di dubbia legalità. Semplice pedi-na nell'intera faccenda, ma in diretto con-tatto con molti potenti, Salvatore Giuliano viene qui ben fotografato nel suo oltranzi-smo atlantico e nell'ingenuo culto degli Stati Uniti; il sogno del bandito, si legge nell'epistolario, era infatti sempre stato quello di separare la Sicilia dall'Italia per la creazione di "uno Stato siciliano confe-derato all'America".

( D . R . )

Ezio Ciconte, "Mi RICONOBBE PER BEN DUE VOLTE". STORIA DELLO STUPRO E DI DONNE

RIBELLI IN CALABRIA (1814-1975), prefaz. di

Nicola Tranfaglia, pp. 344, € 19,62, Edizioni dell'Orso, Alessandria 2001

Nelle società agrarie subire uno stupro significava solitamente la perdita dell'ono-rabilità e, per le donne ancora nubili, la quasi impossibilità di sposarsi con una persona che non fosse lo stupratore stes-so. La ricerca del matrimonio riparatore era del resto la strategia sociale cui abi-tualmente si affidava le famiglia della vitti-ma per evitare che questa, ribaltatasi la violenza subita in una colpa commessa, non cadesse nella più totale emarginazio-ne, cui non di rado seguiva la "scelta" del-la prostituzione. Non sempre però le don-ne accettavano un simile compromesso. Spesso cercavano di recuperare la dignità personale denunciando il proprio stupra-tore, ed esponendosi così al rischio di compromettere ulteriormente, con un pub-blico processo, la propria posizione nella comunità. È proprio per verificare l'evolu-zione nel comportamento delle donne vitti-me di violenza sessuale, in un contesto caratterizzato dalla relativa impermeabilità della società agricola tradizionale, che Ezio Ciconte ha analizzato gli atti giudizia-ri relativi ai circa duemila casi di stupro di-scussi nei tribunali calabresi dal 1814 al

1975. Oltre che sulle reazioni delle donne vittime delle violenze e dei loro famigliari, questa indagine ci restituisce importanti informazioni sulla mentalità degli stessi stupratori e su quella dei magistrati chia-mati a giudicarli. Si viene così a cono-scenza di una realtà più sfaccettata di quanto facili stereotipi potrebbero sugge-rire. Pur persistendo infatti, in una società tipicamente patriarcale, una diffusa men-talità maschilista - condivisa spesso an-che dai giudici - , si fa comunque strada una pluralità di atteggiamenti diversi. Gra-zie a questi ultimi si produce, anche se as-sai lentamente, il cambiamento sociale. La soggettività delle donne, tuttavia, incontra nella mentalità collettiva più di una oscu-rantistica resistenza. Ne consegue l'arre-tratezza della stessa legislazione.

CESARE PANIZZA

Andrea Tornielli, Pio XII, IL PAPA DEGLI

E,IREI, pp. 399, € 19,62, Piemme, Casale

Monferrato (Al), 2001

Accompagnato dalle "rivelazioni" di An-dreotti al meeting ciellino di Rimini, questo saggio si presenta, fin dal titolo, come una risposta alla recente operazione editoriale di John Cornwell II Papa di Hitler (Garzan-ti, 2000), senza dubbio caratterizzata da un'impostazione scandalistica e commer-ciale. Nell'ambito di tale giusta polemica, per spiegare la cautelosa riservatezza adottata dalla Santa Sede nei confronti del nazionalsocialismo e della politica di ster-minio degli ebrei, Tornielli sposa piena-mente la tesi sostenuta a suo tempo dal papa e da larghi settori della gerarchia -evitare i "mali maggiori" - evidenziando i motivi del suo reale fondamento: il timore di un attacco ancora più radicale del regi-me hitleriano contro la chiesa cattolica; la consapevolezza del rischio di rotture all'in-terno di un mondo cattolico diversamente orientato nei confronti del totalitarismo di destra; l'esigenza di mantenere l'imparzia-lità del "padre comune" di tutti i fedeli. No-tevolmente sottovalutate risultano, tuttavia, altre ragioni dei "silenzi" di Pio XII: la con-vinzione che il maggior pericolo fosse il bolscevismo sovietico, la simpatia per le ideologie autoritarie, la forte influenza del-la tradizione dell'antisemitismo cattolico. In tal senso, il libro di Tornielli in molti casi scivola verso quella parzialità di giudizio che vorrebbe contrastare. Se Pio XII non fu "il papa di Hitler", non per questo lo si può definire "il papa degli Ebrei".

i N. 3 D E I LIBRI D E L M E S E | 49

John Keegan, I L VOLTO DELLA BATTAGLIA, ed. orig. 1976, trad. dall'inglese di Francesco Saba Sardi, pp. 390, € 17,56, il Saggiatore, Milano

2001

Il volto della battaglia, pubblicato in

Ita-lia dall'editore Mondadori nel 1978, due anni dopo la sua uscita in Gran Bretagna, era da tempo fuori catalogo nel nostro paese, e per questo la scelta del Saggia-tore di ripubblicarlo è quanto mai opportu-na, vista l'assoluta centralità del ruolo che esso ha svolto, e continua a svolgere, nel panorama contemporaneo degli studi sul-la guerra. Il volto delsul-la battaglia si presen-ta come un trittico, in cui vengono analiz-zate tre grandi battaglie della storia euro-pea: Azincourt, scontro cruciale della Guerra dei cent'anni; Waterloo, la batta-glia ottocentesca per antonomasia; l'offen-siva sulla Somme, momento chiave della Grande guerra e modello ideale delle bat-taglie tecnologiche e massificate del XX secolo. La novità principale introdotta da Keegan fu l'idea di concentrarsi, oltre che sui problemi tattico-strategici, sulle mosse e contromosse dei condottieri, cui tradizio-nalmente si erano interessati gli storici mili-tari, anche dal punto di vista dei combat-tenti della prima linea, dell'esperienza di chi si trova nel centro della lotta. Il volto

della battaglia spiega infatti quanto poco i

fanti di Waterloo - esattamente come il Fa-brizio del Dongo di Stendhal - capissero della sanguinosa scena di cui erano inter-preti. L'altro aspetto fondamentale del li-bro di Keegan consiste nel fatto che, met-tendo a confronto tre battaglie svoltesi più o meno sul medesimo terreno (una fetta di territorio a cavallo di Belgio e Francia), ma tra loro molto lontane nel tempo, mostra quanto la nozione di battaglia sia andata modificandosi, tanto che lo stesso termine applicato a tre fatti d'arme indica in realtà fenomeni strutturalmente diversi.

GIAIME ALONGE

bilmente deluso dall'unica cartina presen-te, una rozza mappa di Leningrado, di scarsa utilità per seguire le operazioni mili-tari descritte da Salisbury.

( G . A . )

Harrison E. Salisbury, I 900 GIORNI. L'EPO-PEA DELL'ASSEDIO DI LENINGRADO, ed. orig. 1969, trad. dall'inglese di Adriana Dell'Orto, pp. 605, €20,14, il Saggiatore, Milano 2001

L'assedio di Leningrado, durato dal set-tembre del 1941 al febbraio del 1944, fu uno degli episodi più drammatici e sangui-nosi di tutta la seconda guerra mondiale. Basti pensare che i soli morti per fame, tra la popolazione civile, ammontarono a più di mezzo milione di persone. Il libro di Sali-sbury racconta con grande dettaglio - e, a tratti, con una piacevole verve romanze-sca, che però non prevale mai sul rigore storiografico - la tragica epopea di Lenin-grado, città simbolo della Rivoluzione d'ot-tobre, e pertanto obiettivo primario dei te-deschi, ma al contempo oggetto di odio da parte di Stalin, il quale diffidava della cultu-ra e dello spirito libero degli abitanti della capitale di Pietro il Grande. Ed è proprio la descrizione dei complessi rapporti che in-tercorrevano tra Stalin e la sua corte da un lato, e la città dall'altro, a rappresentare uno degli aspetti più interessanti dell'opera di Salisbury. A causa degli scontri interni alle varie fazioni del Cremlino, dopo la fine della guerra la quasi totalità dei dirigenti politici e dei generali che avevano condot-to la difesa della metropoli dimostrando in-telligenza e abnegazione saranno vittime di una purga organizzata da Malenkov, passata alla storia come "l'Affare di Lenin-grado". Più in generale, leggendo I 900 giorni, che ricostruisce minuziosamente i

meccanismi paranoici dell'entourage di Stalin, ci si stupisce di come il popolo so-vietico e l'Armata rossa abbiano saputo sconfiggere il più potente esercito d'Euro-pa, dovendo contemporaneamente so-pravvivere a una classe politica criminale. La traduzione italiana è di buon livello; l'uni-ca obiezione che si può muovere al volume è la mancanza di una mappa del fronte, che avrebbe molto aiutato il lettore,

inevita-Robert B. Stinnett, IL GIORNO DELL'INGAN-NO. PEARL HARBOR: UN DISASTRO DA NON EVITARE, ed. orig. 2000, trad. dall'inglese di Carla Malerba, pp. 479, € 18,59, il Saggiatore, Milano 2001

È dai tempi dell'omicidio di John Ken-nedy che negli Stati Uniti è invalsa la moda, nella sinistra liberal così come nella destra antistatalista, di spiegare la storia come l'a-zione occulta di élite sprezzanti delle regole democratiche. Il libro di Stinnett rientra a pieno in questo filone di "storiografia para-noica". La tesi dell'autore, peraltro non nuo-va, è che Roosevelt sapesse dell'imminen-te attacco giapponese a Pearl Harbor e non abbia fatto nulla per prevenirlo, in modo da vincere le résistenze degli isolazionisti e far entrare l'America in guerra. Stinnett si con-centra con estrema minuzia (per non dire prolissità) sull'attività delle centrali di spio-naggio americane, che - sostiene - erano a conoscenza dei piani di Tokyo, ma perde di vista il quadro generale, cioè la politica espansionistica giapponese, arrivando al paradosso di definire come "provocazioni" i tentativi americani di fermare l'aggressione giapponese alla Cina imperniati sull'embar-go petrolifero. Ciò che Stinnett sembra non capire è che la storia è piena di incredibi-li errori di valutazione e di piani azzardati che colgono l'avversario di sorpresa, co-me ha dimostrato platealco-mente l'attentato alle Twin Towers. Inoltre è poco credibile pensare che Roosevelt

avesse scelto come

ca-sus belli la distruzione

della flotta che sarebbe servita a vincere la guerra. È vero che quel giorno a Pearl Harbor non erano presenti le portaerei, ossia lo

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