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Le vicende storiche complessive della chiesa di S. Francesco e degli affreschi della cappella omonima a Castelvecchio Subequo, sono riportate nei testi di Ricotti nel 1961 e in Petrone 199183; entrambi studiosi appartenenti all’ordine francescano, che hanno cercato di

trarre il massimo delle notizie da una documentazione dispersa in varie sedi; a quanto afferma il padre Ricotti, sembra che le pergamene più antiche siano andate perdute all’epoca della soppressione napoleonica84. Secondo gli inventari, quando l’archivio del convento fu

trasferito a Napoli, vi si trovavano 207 pergamene dal 1277 al 1763, di cui a conclusione delle varie vicissitudini non c’è più traccia85.

Entrambi, fanno riferimento alle fonti storiche di Febonio e Corsignani risalenti alla fine del Seicento, in merito alla ricostruzione storica del territorio della Marsica. Ricotti tratta l’argomento della città di Castelvecchio Subequo dal punto di vista storico e cronologico, da evidenziare un approfondimento sui conti di Celano, a cui dedica la sua attenzione in quanto committenti della cappella di S. Francesco. Petrone focalizza il suo studio sulla chiesa e il convento di S. Francesco, dedicando uno spazio anche al tesoro della chiesa.

A diversi anni di distanza dalle prime segnalazioni86, gli affreschi nella cappella dei

conti di Celano a Castelvecchio Subequo, vivono una stagione di rinnovato interesse e di studio. Le indagini, centrate principalmente sugli aspetti iconografici e iconologici del ciclo, hanno riguardato la corretta identificazione dei numerosi episodi che illustrano la vita del santo assisiate, secondo la narrazione della Legenda Major di san Bonaventura. Gli studi hanno puntato poi all’individuazione dei modelli alla base delle diverse soluzioni compositive, nonché al riconoscimento del committente come il conte Ruggero II (vedi

83 Testi precedentemente citati: E. Ricotti, Castelvecchio Subequo, brevi notizie storiche, Ancona, Tipografia

Flamini, 1961; N. Petrone, Castelvecchio Subequo. Chiesa e convento di san Francesco, L’Aquila, 1991.

84 Ricotti, Castelvecchio Subequo cit., p.45.

85 Pomarici, Castelvecchio Subequo cit., p.171 nota 72.

86 Ricotti, Castelvecchio Subequo cit., p. 58; N. Del Re, Dipinti murali della cappella di S. Francesco.

Iconografia, in «Francescani in Abruzzo», Luoghi Arte Architettura nel Due e Trecento, (Chieti 26 aprile-15 maggio), 1985;Petrone, Castelvecchio Subequo, 1991.

32 paragrafo 1.8), che nella cappella si fece seppellire, o più probabilmente suo figlio Pietro II a motivo di implicazioni di carattere dinastico o viste le sue scelte politiche.

Andaloro, nel 1989, pone la sua attenzione sulla maestranza degli affreschi in cui vi riconosceva i sintomi dell’esperienza figurativa del ‘Maestro di Beffi e/o Maestro di san Silvestro pur nella persistenza di componenti connessi all’orizzonte dell’Umbria meridionale, che si esplicitavano nel riferimento alle Storie della Maddalena nell’omonima cappella in San Domenico a Spoleto87. Ciò che la studiosa definisce persistenza, costituisce il retroterra

culturale dal quale provengono le maestranze subequane, le quali non virano verso l’internazionalismo del maestro di San Silvestro, ma sono rappresentative di quella produzione figurativa che, resistente alla penetrazione dell’attualità tardogotica, è importata direttamente dal milieu culturale spoletino. Propone di riconoscere un primo maestro nei lunettoni alla sommità delle pareti e nei sottostanti due registri, mentre una seconda mano sarebbe responsabile della volta e dell’ordine più basso.

De Rubeis, 1991, è l’unica fonte che si interessa dello studio paleografico delle iscrizioni del ciclo di affreschi della cappella. La studiosa identifica la tipologia scrittoria delle iscrizione della cappella in maiuscola gotica elegante, mettendole anche a confronto con le caratteristiche grafiche tipiche delle maiuscola gotica napoletana, supponendo un’ influenza grafico-stilistica a modelli napoletani. Gli elementi che secondo lei indicano maggiormente l’influenza sono: l’aspetto rotondo della scrittura, la forte tendenza al disegno, l’uso ridondante dei tratti di chiusura sulle lettere E, C, F, M., la presenza costante di apici ornamentali posti sui tratti liberi di ogni singolo segno grafico ed infine l’esasperato contrasto di tratteggio fra pieni e filetti, che conferisce alla scrittura un effetto fortemente chiaroscurato. Il richiamo all’ambiente culturale napoletano è ipotizzabile per due ordini di ragioni: il legame culturale che intercorreva tra le due regioni, in particolare fra l’Abruzzo e la città di Napoli ed in secondo luogo la presenza e l’utilizzazione di maestranze specializzate provenienti da Napoli nell’area abruzzese. Le analogie grafiche trovano secondo lei un confronto con le due epigrafi di Matteo Capro di Napoli, rispettivamente a Cellino Attanasio e all’Isola del Gran Sasso88.

87 Andaloro, Studi sull’arte medievale cit., pp. 312-320. 88 De Rubeis, Scritture affrescate cit., pp.339-355.

33 D’Alberto, nel 2008, conduce uno studio critico sull’influenza del potere comitale89dei

conti di Celano, a sostegno dell’istituzione religiosa sulla vicenda del complesso convenutale di Castelvecchio.

Ritiene anche che le imprese artistico - devozionali subequane riflettano l’adesione alla politica di Urbano VI e Bonifacio IX, quindi all’adesione dell’ufficialità francescana e che siano assegnabili a un’arco cronologico compreso fra la fine del Trecento e il primo decennio del Quattrocento. Ne consegue che siano state patrocinate non da Ruggero II , ma dal figlio Pietro II. Nel corso degli anni si consolida la dimensione santuariale della casa francescana di Castelvecchio Subequo, una dimensione già di per sé copiosa per qualsiasi insediamento minoritico, considerati il possesso della reliquia del sangue di s. Francesco e la possibilità di lucrare indulgenze. Dopo la regolamentazione attuata in materia remissoriale dal Concilio Lateranense IV (1215), fu l’ Ordine dei frati minori a farne largo uso, non solo in riferimento alla Basilica assisiate, bensì a tutte le chiese di loro pertinenza. Si ricordi, ad esempio, il privilegio generale pubblicato da Clemente IV nel 1265, che indirizzato al ministro generale, ai ministri provinciali e a tutti i frati minori legava le concessioni, oltre che alle consacrazioni anche ai giorni di culto dedicati a Maria e alle santità dell’Ordine. Il sito subequano rientrava in queste disposizioni in quanto, come abbiamo già accennato, cumula, in occasione della dedicazione del 29 agosto 1288, otto anni e 160 giorni di indulgenze da rinnovarsi in ogni sua ricorrenza. La rilevantissima entità della largizione lo allinea alla diffusa tendenza che, Papato e Ordine, adottano, a partire dalla seconda metà del Duecento, nel trasformare i complessi conventuali mendicanti in veri e propri ‘santuari sorgenti d’ indulgenza; prassi che sfocerà nel corso del XIV secolo in un’attività di falsificazione remissoriale di cui sono testimonianza i cosiddetti summaria indulgentiarum che attestano, unitamente al resto, quanto si mirasse a intensificare l’incisività della cura animarum attraverso questa pratica.

In conclusione, ipotizza che con l’appoggio della curia pontificia, il potere nobiliare, congiunto a quello dei minori conventuali, intendeva fondare l’ecclesia communis del

89 La contea di Celano fu colpita dalla depopulatio del 1223, i sovrani angioini a partire dai primi anni settanta

del XIII secolo attuarono un recupero territoriale. L’operazione, finalizzata a una più omogenea redistribuzione insediativa e a un maggiore controllo dei confini settentrionali del regno, fu affidata alla famiglia feudataria locale che, da Ruggero I a Nicola, organizzò un programma teso al rafforzamento di tutti i principali centri della contea, sia attraverso la costituzione di una fitta rete di castelli, sia favorendo l’insediamento delle compagini minoritiche. L’abitato di Castelvecchio Subequo, circoscritto sino a quel momento all’incastellamento di età sveva, subì una consistente addizione a valle che, non difesa da cinta, venne regolata dalla fondazione del convento di San Francesco prospiciente la direttrice viaria tiburtina. Cfr. D’Alberto, Ufficialità francescana cit., p.53.

34 Francescanesimo abruzzese che, sino a quel momento privo di un suo centro nevralgico, poteva vantare un ruolo di primo piano nelle rotte degli insediamenti mendicanti centro- adriatici. Il sepolcro ruggeriano qualificando, dunque, in chiave dinastica, un’ impresa di più ampio respiro, è simbolo parziale delle salde relazioni per cui i frati concedevano lo spazio sacrale e la propria capacità religiosa, in cambio di mezzi materiali e appoggi sociali ritenuti necessari per rafforzare l’Ordine e adattarne il profilo gerarchizzato alle esigenze del potere gentilizio. Ciò che era avvenuto nell’Italia delle signorie, iniziava ad essere importato nelle piccole realtà neofeudali dell’Abruzzo citeriore attraverso forme di radicamento territoriale che, a differenza di quelle settentrionali, puntavano sulla forza del prodigio e sul seguito popolare.

Evidenti variazioni di stile e qualità delineano un’equipe composta da due principali maestri, affiancati da collaboratori di non sempre omogeneo livello qualitativo. I murali di Castelvecchio non hanno confronti tanto stringenti che possano essere assegnati alla loro stessa autografia, piuttosto, si rivelano qualificanti i tracciati figurativi legati alla fine del Trecento umbro e, nella fattispecie, a quella cultura pittorica che ebbe in Giovanni di Corraduccio e poi in Ottaviano Nelli. Nonostante le differenze di grammatica figurativa che D’Alberto nota, ribadisce che è possibile parlare di omogeneità linguistica per le maestranze che lavoravano nella cappella di San Francesco, tanto che il profilo del secondo maestro può ricondursi al recepimento di stimoli provenienti dalla cultura pittorica spoletina, come per il primo maestro90.D’Alberto, da parte sua, distingue un primo maestro nei riquadri superiori,

soppiantati forse, all’altezza delle scene perdute già sulla parete ovest, da un secondo pittore, individuabile sulla base di una diversa sigla stilistica, caratterizzata da diversificate tipizzazioni espressive che, nella ripetitività dei modelli, presentano tratti fisionomici codificati.

Pasqualetti91, nel 2008, riconosce nel pittore che decorò le ante del tabernacolo di

Campo di Giove, dedicato a sant’Eustochio, realizzato intorno al 1380, l’artista che realizzò il ciclo francescano di Castelvecchio.

Gandolfo92, 2009, ha come scopo del suo articolo, analizzare le parti architettoniche

della chiesa e del convento per riscoprire le diverse trasformazione compiute nel tempo. Dal

90 D’Alberto, Ufficialità francescana cit., pp. 59-64.

91 C. Pasqualetti, Da Campo di Giove a Castelvecchio Subequo: un nuovo protagonista della pittura del

Trecento in Abruzzo, in Ritorno in Abruzzo. Le Storie di Sant’Eustachio restituite dal Grand Rapids Art Museum, a cura di C. Pasqualetti, L’Aquila, 2008, pp. 7-18.

35 suo studio è stato possibile distinguere e datare i diversi cicli di affreschi, quelli nel coro e quelli nella navata centrale, risalenti alla fondazione della chiesa alla fine del XIII secolo, e quelli nella cappella databili dalla fine del XIV secolo (vedi paragrafo 1.5)

Pomarici, nel 2009, conduce uno studio iconografico e iconologico di tutti gli affreschi presenti nella chiesa. Partendo da quelli più vecchi del coro e della navata centrale, trova chiari riferimenti con la decorazione della Basilica Superiore di Assisi, Santa Maria in Trastevere e Santa Maria Maggiore a Roma, rintracciando i temi della cultura figurativa francescana. Per la "Leggenda del Santo" nella cappella dei conti di Celano, evidenzia la conoscenza e l'uso di modelli di diversa origine, quali il manoscritto della Legenda maior ‘madrileno’ e la ricerca di soluzioni originali ad hoc.

Angelelli, 2009, osserva gli aspetti materiali e operativi dell’impresa degli affreschi della cappella, gli strumenti di lavoro utilizzati dai pittori, l’analisi delle differenze tecniche e qualitative tra le varie mani; le dinamiche del cantiere, le componenti stilistiche dei membri dell’équipe, che appare al suo interno molto diversificata se non addirittura eterogenea. Lo studioso mette in risalto l’utilizzo delle sagome che disciplina l’ordito compositivo e timbra il grado di riconoscibilità delle figure, specie dei volti93; è vero altresì che esso non va mai

inteso come uno strumento meccanico e ripetitivo, ma come un mezzo duttile, in grado di declinare l’inventiva e l’abilità tecnica del pittore in immagini di volta in volta differenti e vive. Da qui le possibili, piccole variazioni proporzionali ottenute mediante una serie di espedienti; ed anche le possibili differenze nello scorcio o nella resa prospettica dei volumi, frutto di uno scaltro utilizzo del medesimo modello, solo ruotato o variato all’impronta94. La

“rotazione” e la “rivoluzione” delle sagome si configurano perciò come livelli base, ovvero i più semplici, delle loro modalità d’uso (esempio: all’interno dello stesso riquadro della vestizione (Fig. 34), che è abbracciata anche nella realizzazione del profilo immediatamente a destra di Francesco, costruito sulla base di una sagoma riutilizzata in modo speculare nel personaggio inginocchiato ai piedi del santo, intento a prendere dalle sue mani il saio.

92 Gandolfo, Una questione mendicante cit., p.144.

93 A Castelvecchio, se prendiamo in esame la Vestizione dei primi compagni si noterà come i volti del santo e del

frate che di fronte a lui stringe tra le mani il cordone siano tratti dal medesimo cartone. W. Angelelli, Modi, modelli e moduli. Le Storie di San Francesco nella cappella dei conti di Celano a Castelvecchio Subequo, in « La via degli Abruzzi e le arti nel Medioevo» (secc. XIII-XIV) a cura di Cristiana Pasqualetti, Milano, One Group Edizioni, 2009, pp.87-104:90.

36 Angelelli individua l’utilizzo della sagoma 1 (profilo) nel riquadro della Vestizione dei primi compagni (Fig. 55Fig. 54Fig. 56Fig. 59Fig. 58Fig. 57 ), e San Francesco benedici i frati prima della missione95(Fig. 35)(Fig. 61Fig. 60Fig. 63Fig. 62), San Francesco riceve la

Regola da Cristo mentre per la sagoma 2 (volto in leggero tre quarti, appartenente a un personaggio di mezza età, stempiato ma con i capelli piuttosto lunghi e rigonfi all’altezza delle orecchie), San Francesco benedici i frati prima della missione, San Francesco riceve la Regola da Cristo, San Francesco battuto lungo la strada, Rinuncia ai beni paterni.(Fig. 65Fig. 64Fig. 66Fig. 67). A cambiare, in questo caso, sono i pittori che utilizzano la medesima sagoma che ci si trovi di fronte a una sorta di variazione sul tema da parte dello stesso interprete. Se si paragonano alcune teste di questa serie e in particolare quelle del pittore più abile, del San Matteo nella volta (Fig. 68), risulta evidente come l’assetto del volto, la proporzione tra le parti e la definizione delle masse siano impostate sulla stessa matrice, benché la qualità della resa pittorica non sia equiparabile. L’abilità nel tornire i volumi e plasmare gli incarnati da parte dell’autore dell’evangelista Matteo, appare infatti superiore a quella di tutte le altre mani. Ciò che più interessa però, è riconoscere come quello che sembra essere uno dei tipi più ripetuti del ciclo, faccia la sua comparsa fin dalle battute iniziali del cantiere, per di più ad opera della mano di maggiore qualità, che pertanto potrebbe identificarsi con quella del regista del progetto (almeno della fase primitiva), ovvero colui al quale si rivolsero i committenti al momento di dare avvio all’impresa.

Nell’estasi mistica di Francesco (Fig. 49) e nella visione di frate Agostino (Fig.53), Angelelli riconosce due figure ripetute in modo pressoché identico alle precedenti, fatta eccezione per qualche variante nella pettinatura (Fig. 69). La maggiore fluidità disegnativa della testa nella visione di frate Agostino induce poi a credere che, ancora una volta, si tratti di opere realizzate da due mani diverse, intente a misurarsi con lo stesso schema. Tuttavia, l’unicità del cartone di cui entrambi i pittori si servono non può essere messa in discussione, tanto le due effigi sono vicine. Il punto però è proprio questo: le due immagini non sono sovrapponibili in toto ma solo per disiecta membra, ovvero per parti separate le une dalle altre: il naso col naso, la bocca con la bocca, l’occhio destro col destro. Nel riquadro la madre libera San Francesco dalla prigionia (Fig. 31 ), il volto della donna col mantello arancio

95 Vestizione dei primi compagni e San Francesco benedici i frati prima della missione sono brani dello stesso

maestro è indubbio e a provarlo sono inequivocabilmente i dati di stile, come il modo di costruire i volumi e di stendere i colori; nel San Francesco benedici i frati prima della missione le fisionomie delle otto figure che abitano il pannello siano realizzate tutte mediante l’utilizzo di modelli, tra i quali l’unico a non essere immediatamente riconoscibile in altre parti del ciclo è quello del protagonista.

37 (sagoma 3; Fig. 72, Fig. 71, Fig. 70) al centro del gruppetto di destra, e quello dell’uomo barbato, nella stessa posizione nel gruppo di sinistra, a dispetto della differenza di sesso, risultano esemplari sulla stessa matrice, la stessa forse dalla quale deriva anche il volto di Pica, madre del santo, ritratta anch’essa in questo episodio. In entrambi i casi, la sovrapposizione non è mai millimetrica, poiché funziona sempre bene nel rapporto naso- occhi. Di primo acchito, ciò conferma l’impressione ricavata dal caso analizzato poco più sopra, circa l’utilizzo degli stessi modelli per tutta la durata dei lavori, dalle sue fasi iniziali a quelle conclusive, ad opera di mani diverse, forse anche di formazione differente. Se da queste considerazioni relative alle sagome si passa però a un esame squisitamente stilistico, il problema si complica ulteriormente. Infatti, se è vero che alcune figure della lunetta con la madre libera San Francesco dalla prigionia (Fig. 31) hanno volumi dilatati – costruiti con un chiaroscuro denso ma semplificato, che non trova confronto nella Crocifissione (Fig. 50) – è altrettanto vero che la conduzione del volto della Vergine che abita quest’ultimo riquadro, e il modo in cui sono realizzati i lineamenti, le sopracciglia e le rughe di alcuni personaggi, nell’altro, non sono poi tanto distanti. Si fa strada perciò la possibilità che possa trattarsi della stessa mano o, più probabilmente, di due mani strette da un vincolo di discepolato o comunque, di sostanziale vicinanza. Ciò porterebbe a rivedere le modalità di esecuzione delle pitture, che potrebbero essere state eseguite non tanto mediante un ponteggio unico, esteso sull’area dell’intera cappella e, dunque, con una contemporaneità dei lavori dall’alto in basso su tutte le superfici disponibili; quanto piuttosto attraverso l’impiego di un ponteggio mobile, montato volta a volta in corrispondenza della parete bianca da dipingere. La soluzione, non solo avrebbe avuto il vantaggio di mantenere libera una parte della cappella durante il tempo necessario al completamento dell’impresa, ma soprattutto avrebbe potuto spiegare meglio la comparsa di un maestro e di un cartone alla fine di una parete e il loro riapparire nella sezione più alta di quella opposta. Infine, la compresenza all’interno della madre libera San Francesco dalla prigionia di due maniere stilistiche differenti, induce a credere che i “due maestri” non possano essersi alternati nella conduzione del cantiere, ma debbano aver lavorato fianco a fianco, sia in prima persona, sia per il tramite dei loro collaboratori. In questo modo si spiegherebbe meglio anche la vicinanza delle due maniere stilistiche in episodi contigui quali la Rinuncia ai beni e la Vestizione dei primi compagni, entrambi nel registro non potranno essere elusi in una eventuale, e più articolata ricognizione delle storie francescane di Castelvecchio Subequo. Ci si dovrà ricordare, così, che l’utilizzo di alcuni

38 modelli, dalle fasi iniziali a quelle conclusive del lavoro, implicano una conduzione dell’impresa senza cesure o strappi al suo interno, anche a dispetto del cospicuo numero di individualità che vi partecipano. Mani con caratteri specifici, contraddistinte da una spiccata riconoscibilità devono poi aver lavorato fianco a fianco in pannelli vicini o addirittura convissuto all’interno dello stesso riquadro. Infine, le differenze, pure a tratti sensibili, tra un tipo di pittura e un altro, sono mitigate da un utilizzo massiccio di disegni di modello, finalizzati a normalizzare l’insieme, a conferirgli una necessaria unitarietà e a renderne più spediti i tempi di realizzazione, in modo tale da rispondere appieno alle aspettative di una committenza, come quella dei conti di Celano, tra le più esigenti e prestigiose d’Abruzzo.

Aglietti, nel 2009, indaga la relazione instaurata tra le immagini, le «scritture esposte» e le fonti agiografiche, scritte e dipinte, sottese alla “narrazione” pittorico - verbale e tutti quegli aspetti che da tale relazione scaturiscono, tra cui individua dei possibili percorsi di lettura del ciclo che verranno in seguito ( vedi capitolo 6).

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