Gli esseri umani si sono cimentati nella corsa di resistenza per milioni di anni, mentre la scarpa moderna come la conosciamo oggi è stata inventata solamente nel 1970. Nella maggior parte della storia evolutiva gli uomini hanno corso a piedi nudi o con calzature minimali, come mocassini e sandali, che avevano piccoli tacchi ed erano poco ammortizzati rispetto alle moderne scarpe da corsa.
L' evoluzione concomitante di scarpe moderne, la mancanza di prove per la prescrizione delle scarpe e l’ elevato tasso di lesioni che continua a rimanere, sono stati proposti come prova che le tecnologiche scarpe di oggi sono inefficaci e che la corsa a piedi nudi potrebbe fornire una valida alternativa. L' apparente fallimento della scarpa moderna riguardante il tasso di infortuni può tuttavia essere causa di numerosi fattori confondenti. Primo fra questi è che, mentre su numerosi fattori di rischio relativi al volume e l’ intensità di allenamento è nota l' esistenza, la ricerca non ha ancora identificato una singola variabile meccanica comune che prevede una serie di infortuni legati alla corsa. Durante la corsa a piedi nudi si ha una maggiore flessione plantare e maggior angolo di flessione del ginocchio al momento dell’ impatto, così che la forza d’ impatto si distribuirebbe su una superficie maggiore rispetto al solo tallone. A complicare la discussione è il disaccordo in letteratura relativo al “footstike” ed alla velocità di marcia. Hasegawa et al. “Footstrike patterns of runners at the 15-km point during an elite-level half marathon” e Hayes and Caplan “Foot strike patterns and ground contact times during highcalibre middle-distance races” hanno scoperto che l’ atterraggio in avampiede è maggiormente diffuso tra i corridori più veloci, mentre Larson et al “Foot strike patterns of recreational and sub-elite runners in a long-distance road race” non hanno trovato alcuna differenza tra corridori ricreativi con diverse capacità di prestazione. Inoltre le discrepanze possono essere dovute sia dal campione della popolazione (ricreativo vs competitivo) sia dalla dimensione. La rigorosa
50 classificazione dei runners a piedi nudi che atterrano in avampiede e i runners che indossano scarpe moderne che atterrano in retro piede, è una grossa semplificazione e spesso non corretta. Infatti un recente studio di Hatala et al. “Variation in foot strike patterns during running among habitually barefoot populations”, ha dimostrato che l’ atterraggio in retropiede è relativamente comune tra la popolazione abitualmente non calzata, con il 72 per cento di atterraggio sui talloni alla loro velocità di corsa preferita. Tuttavia come aumenta la velocità di corsa, il contatto al suolo si sposta verso l’ avampiede. Ecco che la corsa a piedi nudi non è sinonimo di atterraggio in avampiede e può oscurare le reali differenze cinematiche ed i loro effetti sul rischio delle lesioni. Un’ altra interessante osservazione è che i diversi tipi di superficie hanno influenzato in modo simile il tipo di atterraggio nei corridori calzati e non calzati. Lieberman et al. in “Endurance running and the evolution of Homo” ha trovato che alcuni individui abitualmente calzati che corrono a piedi nudi, sperimentano maggiori picchi d' impatto e tassi di carico rispetto ai runners che corrono senza scarpe. Questo è dovuto al fatto che essi non regolano il loro atterraggio e continuano ad impattare con il tallone, esponendosi a carichi sette volte maggiori di quando corrono con le scarpe. Ecco perché la corsa a piedi nudi di per sé non è sufficiente per portare ad una riduzione del rischio di lesioni. Le ricerche nella corsa a piedi nudi ha dimostrato aggiustamenti immediati dell’ angolo d’ impatto nella caviglia e nel ginocchio, ma questi cambiamenti non si verificano allo stesso modo in tutti i corridori. Sempre negli studi di Lieberman et al., in particolare in “Foot strike patterns and collision forces in habitually barefoot versus shod runners”, è stato scoperto che quando i corridori abitualmente calzati correvano a piedi nudi, l’ 83 per cento ha continuato ad atterrare in retropiede durante il periodo del test di laboratorio. In questa condizione (a piedi nudi ed in atterraggio in retropiede) la forza d’ impatto è stata superiore del 8,6 per cento rispetto alla situazione da calzati, mentre il tasso di carico è risultato maggiore di circa il 700 per cento. Perciò la risposta acuta della maggior parte dei corridori, come è stato dimostrato
51 anche da Divert C, Mornieux G, Baur H, et al. in “Mechanical comparison of barefoot and shod running” li espone ad impatti e tassi di carico superiori, riscontrando quindi più rischi a piedi nudi rispetto ad una condizione con scarpe. La capacità di correre a piedi nudi, con le riduzioni favorevoli proposte nella forza di impatto e nella velocità di caricamento, può avvenire nel lungo termine. Sembrerebbe probabile che i corridori abitualmente calzati, durante la transizione con la corsa a piedi nudi, ottengano cambiamenti progressivi nella cinematica come: aumento della flessione plantare, l’ angolo durante la flessione del ginocchio, le riduzioni conseguenti a forza d' impatto e la velocità di caricamento. Di conseguenza, la corsa a piedi nudi può non essere immediatamente efficace, ma piuttosto deve essere appresa con una certa consapevolezza e deve essere raggiunta una buona acquisizione del funzionamento biomeccanico per arrivare a dei risultati. L’ acquisizione di questa abilità deve riflettere pattern di attivazione neuromuscolari modificati in varie fasi durante il ciclo del passo, inclusa l' attivazione alterata del gruppo muscolare del polpaccio per facilitare la flessione plantare prima dell' impatto. A supporto di questo, Divert et al. in “Mechanical comparison of barefoot and shod running” ha scoperto che l' attività muscolare dei polpacci, quando si esegue la corsa a piedi nudi, assume un ruolo fondamentale rispetto alla corsa con calzature. La velocità con cui le strutture muscolo-tendinee ed il controllo neuromuscolare degli arti inferiori possono essere apprese nel corso del tempo, può determinare il successo della transizione della corsa a piedi nudi.
Altri studi come: “Examining injury risk and pain perception in runners using minimalist footwear” di Michael Ryan, Maha Elashi et al.; “Foot Bone Marrow Edema after a 10-wk Transition to Minimalist Running Shoes” Sarah T. at al.; “Individual responses to a barefoot running program: insight the risk of injury” di Tam N. et al. sostengono che l’ uso di calzature minimali possano invece aumentare il rischio di infortuni, in modo particolare alla tibia ed al polpaccio. Tuttavia il periodo di transizione che è stato preso in
52 considerazione in tutti questi studi è stato molto breve e perciò non sufficiente per poter apprendere il nuovo tipo di corsa. Il passaggio da scarpe ammortizzate a scarpe minimali deve essere graduale e progressivo, per non creare traumi aggiuntivi che nelle prime fasi vengono inevitabilmente a crearsi.
Tuttavia ulteriori ricerche sono necessarie per fare più chiarezza tra queste teorie e, ancora più importante, per scoprire se questa “abilità” può essere imparata allo stesso modo da tutti i corridori.
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3.2 POSE running
Il concetto del “natural running” prende spunto probabilmente dal “POSE running”, una tecnica di corsa che costituisce un graduale approccio posturale e propriocettivo per ridurre il rischio di infortuni. Il padre del POSE running è il Professor Nicholas Romanov, un ricercatore e preparatore atletico russo che adesso vive a Miami ed è consulente per le Associazioni di Triathlon Statunitense, Britannica e Messicana. Negli anni ’70 e ’80 ha notato come l’ importanza dell’ allenamento fosse focalizzata soprattutto sull’ incremento della velocità, della distanza ed il miglioramento del sistema cardiovascolare e respiratorio. La tecnica di corsa non era considerata rilevante, ma con l’ incremento del carico di allenamento era frequente l’ insorgenza di infortuni. La caratteristica che contraddistingue la tecnica del POSE running è l’ appoggio del medio piede, con l’ articolazione del ginocchio d’ appoggio già flessa al momento dell’ impatto. I muscoli bicipiti femorali svolgono l’ azione di richiamare il piede d’ appoggio da terra, mentre la forza di gravità viene sfruttata per lo spostamento del corpo in avanti. Questo tipo di tecnica è molto diversa da quella utilizzata dalla maggior parte dei runners, che hanno invece un appoggio di retropiede.
Graf. 22 “Corsa con appoggio in retropiede”.
Il concetto è abbastanza semplice, ma la sua esecuzione pratica è piuttosto difficile e richiede esercizi di allenamento specifici per la forza e la
54 propriocettività. L’ azione della corsa dovrebbe essere sciolta e fluente; Romanov afferma che una buona azione di corsa ha un’ elevata cadenza e un frequente cambio d’ appoggio, piuttosto che una lunga falcata. La tecnica del POSE running concentra soprattutto l’ attenzione sulla rimozione del piede di appoggio. Il corridore si lascia cadere in avanti, cambiando l’ appoggio da una gamba all’ altra e allontanando da terra il piede d’ appoggio con il minimo sforzo. L’ idea su cui è centrato il POSE running è che il runner mantiene una singola posizione nel suo avanzamento in corsa: il centro di gravità del corpo, situato all’ altezza delle anche, si muove lungo una linea orizzontale senza spostamenti verticali. La gamba posteriore mantiene una forma ad “S” e non è mai tesa. Come esempio è possibile pensare all’ azione di corsa del ghepardo, il cui appoggio a terra avviene sulla parte anteriore della zampa, seguito dal sollevamento posteriore della stessa ad opera dei bicipiti femorali.
L’ immagine più utile per rafforzare lo schema mentale di questa tecnica è quella di una linea verticale che passa dalla testa del runner fino al suolo: la gamba sollevata in avanti non deve mai oltrepassare questa linea. In questo modo l’ azione si focalizza sul sollevamento della caviglia posteriore ad opera della muscolatura posteriore (i bicipiti femorali), piuttosto che sull’ estensione in avanti della gamba anteriore ad opera dei quadricipiti e flessori dell’ anca. Questa tecnica di corsa può essere sintetizzata in tre semplici azioni: posizione ad “S”, caduta in avanti fino alla perdita del supporto, rapido cambio d’ appoggio e sollevamento della gamba con il bicipite femorale (Pose – Fall – Pull).
Arendse, et al. in “Reduced eccentric loading of the knee with the pose running method” 2004 ha scoperto che quando i corridori adottano consapevolmente la tecnica POSA con le scarpe ancora indosso, avviene una diminuzione dei momenti intorno al ginocchio, ma un aumento dei momenti intorno alla caviglia. Questi reperti hanno dimostrato di avere implicazioni positive per l’ infortunio al ginocchio, dal momento che ricerche precedenti hanno attribuito le lesioni al ginocchio ad elevati carichi di lavoro
55 eccentrici sull’ arto inferiore. Questa teoria però estesa alla caviglia, porterebbe ad un aumento di infortunio al polpaccio, alla caviglia ed al tendine d’ Achille. Tuttavia, se queste affermazioni e la tecnica POSA è tipica della corsa a piedi nudi, rimane ancora discutibile.
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3.3 La resistenza
Per resistenza si intende la capacità psicofisica dell’ atleta di opporsi all’ affaticamento. La resistenza fisica fa riferimento alla capacità dell’ intero organismo o di suoi singoli parziali di resistere alla fatica; mentre la resistenza psichica comprende la capacità dell’ atleta di riuscire a resistere il più a lungo possibile ad uno stimolo che lo porterebbe a interrompere uno sforzo. La resistenza si suddivide; in generale e locale; in resistenza aerobica e anaerobica (se si considera la trasformazione dell’ energia); in resistenza di breve, media e lunga durata; in resistenza alla forza, alla forza rapida e alla rapidità. Nello specifico la resistenza di lunga durata comprende tutti quei carichi che superano gli 8 minuti e possono essere mantenuti quasi esclusivamente attraverso la produzione di energia per via aerobica. A sua volta può essere divisa in:
Resistenza di lunga durata 1 = comprende i carichi fino a 30 minuti, dove interviene soprattutto il meccanismo glucidico.
Resistenza di lunga durata 2 = carichi da 30 a 90 minuti, in cui abbiamo il metabolismo dei grassi e degli zuccheri.
Resistenza di lunga durata 3 = carichi superiori a 90 minuti, nei quali interviene principalmente il metabolismo dei grassi.
Nella resistenza di lunga durata il fattore limitante per la prestazione è svolto soprattutto dalla capacità aerobica. Accanto alla combustione dei carboidrati, assume molta importanza l’ ossidazione degli acidi grassi liberi (Free Fat Acid, FFA). I grassi disponibili per il lavoro muscolare sono in forme diverse: FFA, trigliceridi e corpi chetonici. Gli acidi grassi negli sforzi prolungati rappresentano il substrato principale che sostiene l’ aumento del fabbisogno di energia. Un atleta ben allenato, anche in zone di intensità più elevate, può ancora bruciare grassi risparmiando così le riserve di glicogeno indispensabili per il mantenimento del tasso normale di zuccheri nel sangue. Per la resistenza di lunga durata sono necessari vari metodi e contenuti di allenamento, come il fartlek, le corse ad intervalli di lunga durata, la corsa con variazioni di ritmo, ecc. Ecco perché è importante considerare che un
57 unico metodo di allenamento non è mai in grado di contribuire da solo all’ aumento continuo della capacità di resistenza. Questo può essere garantito solo dalla pluralità di tutti i contenuti e metodi di allenamento che esistono. Nella corsa di lunga distanza, una biomeccanica più efficiente significa meno energie spese e, a parità di altre condizioni, significa migliorare la prestazione. Va perciò fatta una distinzione tra stile e tecnica di corsa. Lo stile è dato dall’ impressione visiva della corsa e chi sostiene che si debba correre in un determinato modo fornendo regole generali (le braccia, le spalle, la rullata, ecc.) è un sostenitore dello stile. La tecnica invece è data dall’ abilità di correre riutilizzando l’ energia elastica in fase di spinta e mantenendo l’ inerzia del movimento. Ogni runner tende ad avere un’ abilità di corsa che si può anche definire efficienza. Per migliorare l’ efficienza non si devono dare regole generali, ma eseguire tutta una serie di esercizi che insegneranno al corpo a correre. Ogni podista ha un suo passo che caratterizza il proprio ritmo di corsa, tecnica di corsa e falcata. La velocità di corsa di un podista si può valutare analizzando due parametri importanti: la frequenza e l’ ampiezza del passo. La frequenza non è altro che la cadenza, cioè il ritmo del passo. L’ ampiezza del passo invece è caratterizzata da entrambi gli appoggi: la distanza dagli appoggi di ambedue i piedi (dx e sx). Tuttavia va tenuto presente che sono aspetti tecnici della corsa e sono condizionati dalle caratteristiche fisiche del soggetto (la struttura fisica e le caratteristiche antropometriche). In uno studio condotto dal Prof. Piero Incalza (allenatore di alcuni maratoneti della nazionale italiana e ricercatore del centro studi di Roma), presentato sulla Rivista Atletica Studi N°3 2008, si è potuto analizzare il passo di corsa nei corridori di lunga distanza: “prendendo in esame atleti di sesso maschile e femminile, sia top runner e sia amatori, si è potuto arrivare alla conclusione pratica che l’ elemento discriminante nell’ evoluzione tecnica nella corsa prolungata è dato dalla “frequenza del movimento”, più che dall’ ampiezza”. Si è notato che i top runner rispetto agli amatori riescono ad aumentare la frequenza del passo più che l’ ampiezza, il piede è più reattivo e tocca più volte per
58 terra con una fase di volo più breve. Inoltre si è potuto verificare che diventa fondamentale per chi corre le lunghe distanze diminuire il costo energetico della corsa, quindi ridurre al massimo ogni consumo inutile e riuscire a correre per tanto tempo avendo la stessa tecnica di corsa. Valutando anche due top runner alla stessa velocità, si è notato che c’è chi riesce a consumare meno energie ed avere una falcata più economica, gli permetterà alla fine di avere energie indispensabili per cercare l’ allungo e staccare il gruppo. Da ciò si evince l’ importanza di dedicare del tempo durante la preparazione agli aspetti tecnici della falcata e rendere il gesto tecnico il più economico possibile.
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3.4 La corsa di persistenza
Gli adattamenti di ciascun individuo sono il prodotto imperfetto di una serie infinita di compromessi che oscillano di continuo. Il passato evolutivo dell’ uomo è molto importante per quanto riguarda il nostro corpo, che altro non è che un groviglio di adattamenti accumulati nel corso di milioni di anni. Theodosius Dobzhansky, uno dei più importanti genetisti afferma che “in biologia, niente ha senso se non alla luce dell’ evoluzione”. I vari adattamenti avvenuti in milioni di anni spiegano il modo in cui il nostro corpo funziona normalmente (lo vincolano a funzionare proprio così) per la digestione, il pensiero, la riproduzione, il sonno, la corsa e via dicendo. Ne consegue che, prendere in considerazione la lunga storia evolutiva del corpo umano, permette di spiegare perché ci ammaliamo o ci facciamo male quando i nostri comportamenti seguono modalità per le quali siamo adattati male o non a sufficienza. La risposta di fondo al perché così tante persone hanno patologie ed infortuni un tempo rare (es. diabete, osteoporosi, miopia, aterosclerosi, ecc.) è che molte delle funzioni corporee erano adattive negli ambienti in cui ci siamo evoluti, ma sono divenute adattamenti pessimi (o maladattamenti) negli ambienti moderni da noi stessi creati. Questa idea, nota come “ipotesi del mismatch evolutivo”, è al centro della medicina evoluzionistica, una disciplina emergente che applica la biologia evoluzionistica al campo della salute. Al giorno d’ oggi, gli uomini corrono per lunghe distanze per mantenersi in forma, per spostarsi o anche solo per divertirsi, ma all’ origine di tutto c’è la lotta per il cibo. Per i primi uomini, 2 milioni di anni fa, non era affatto semplice cacciare o andare in cerca di cibo. La maggior parte dei carnivori uccide sfruttando una combinazione di velocità e forza, mentre i primi ominini erano lenti e poco armati. Le lance senza punta non sono in grado di ferire gravemente la maggior parte degli animali a meno di venir lanciate da distanza molto ravvicinata. In aggiunta i primi cacciatori non erano abbastanza veloci per avvicinare la preda e, se anche vi riuscivano, rischiavano sempre un calcio o un’ incornata. La soluzione al problema è un’ antica tecnica di caccia
60 basata sulla corsa di resistenza, detta “caccia di persistenza” (Carrier,1984; Bramble e Lieberman 2004). Questa, come la chiamano gli antropologi, è alla base della teoria dell’ “uomo corridore”. La caccia di persistenza trae vantaggio da due caratteristiche di base della corsa umana: in primo luogo gli uomini possono correre lunghe distanze a velocità che richiedono ad un quadrupede di passare dal trotto al galoppo; in secondo luogo, gli uomini che corrono si raffreddano grazie al sudore, ma gli animali a quattro zampe si raffreddano ansimando, cosa che non possono fare quando galoppano. Pertanto anche se le zebre e gli gnu sono in grado di galoppare molto più rapidamente del miglior scattista umano, noi possiamo cacciare e uccidere queste creature veloci costringendole a galoppare al caldo per lunghi periodi, così che si surriscaldino e finiscano per collassare. Siamo dei corridori di resistenza che portano le prede all’ ipertermia. Ecco come agivano i cacciatori di persistenza: in genere uno o più cacciatori scelgono un grosso mammifero da inseguire nell’ ora più calda (questo perché la preda si surriscalda più velocemente). All’ inizio della caccia l’ animale galoppa via per trovare un posto ombreggiato per nascondersi e rinfrescarsi. I cacciatori però riescono a seguirlo rapidamente grazie alle tracce, spesso camminando e poi cominciando a correre, facendo sì che la creatura, si metta a galoppare prima di essersi rinfrescata completamente. Dopo molti cicli dove si alternano inseguimento e caccia, la temperatura dell’ animale sale a livelli letali che lo fanno collassare per infarto. A questo punto il cacciatore può uccidere l’ animale facilmente, in sicurezza e senza armi sofisticate. La caccia di persistenza logicamente si è fatta più rara dopo l’ invenzione dell’ arco e delle frecce, insieme ad altre tecnologie come le reti, il domesticamento dei cani ed i fucili. Ci sono tuttavia testimonianze di cacciatori di persistenza in molte parti del mondo, per esempio i boscimani nell’ Africa meridionale, i nativi americani nel Nord America e Sudamerica e gli aborigeni australiani (Lienberg, 2006). Le tracce di questa eredità perdurano nel corpo umano, disseminato di adattamenti che ci rendono corridori eccezionali sulle lunghe distanze.
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3.5 La forza muscolare
Premettendo che le tipologie di forza sono molteplici e contraddicendo dal concetto di forza in fisica per la complessità derivante dai suoi aspetti fisiologici e psichici, in generale la forza muscolare la possiamo definire come la capacità che permette di opporsi o vincere una resistenza tramite lo