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Sviluppi della disciplina europea in materia di orario di lavoro

Uno dei punti più contraddittori del testo della direttiva sull’orario di lavoro è rappresentato dalla cd. clausola opting out: introdotto come soluzione compromissoria per frenare l’opposizione britannica all’emanazione della normativa europea, l’art. 22 dell’attuale direttiva 2003/88 contiene una previsione che consente all’autonomia contrattuale individuale di disapplicare le regole in

tema di durata massima della prestazione lavorativa. Questa clausola è stata nel tempo utilizzata da parte degli Stati membri come via di fuga dall’applicazione della stessa norma e dalle interpretazioni estensive e maggiormente garantiste di volta in volta individuata dalla Corte di Giustizia. Si può dunque riassuntivamente sostenere che, nel recepire la direttiva, gli Stati membri hanno potuto conformemente inserire moduli orari medi, fare ricorso a numerose deroghe ed eccezioni e sfruttare le condizioni sostenute dalla clausola di opt-out . Per questo, la maggior parte dei Paesi che disponeva già di una normativa interna piuttosto equilibrata sull’orario ha semplicemente rimodellato la propria disciplina su quella europea, senza introdurre elementi migliorativi, ma anzi talora ricorrendo all’abrogazione di disposizioni più protettive già esistenti240.

I diversi effetti sorti in seguito all’emanazione della direttiva, vale a dire, da un lato, le pronunce interpretative ad opera della Corte di Giustizia, a scopo maggiormente protettivo, e, dall’altro, il ricorso massiccio da parte degli Stati membri alla clausola di opt out, per mantenere gli equilibri regolativi interni, hanno aumentato la tensione tra le esigenze e i contrapposti interessi in gioco che la materia del tempo di lavoro intrinsecamente sottende. Si è quindi tentato di azionare un procedimento legislativo attraverso cui rivedere la normativa esistente.

Durante i lavori di modifica del testo si sono scontrati i due opposti orientamenti: l’uno, rappresentato dal Parlamento, più sensibile all’esigenza di garantire la tutela adeguata alla salute e sicurezza dei lavoratori e l’altro, portato avanti dal Consiglio, maggiormente favorevole ad accogliere le istanze imprenditoriali di flessibilità. Apertosi con la Comunicazione della Commissione del 30 dicembre 2003241, il processo di modifica è proseguito dapprima con il

240 Cfr. su questi aspetti Fenoglio A., L’orario di lavoro tra legge e autonomia privata, Edizioni Scientifiche italiane, Napoli, 2012, pp. 16 ss., che ricostruisce i diversi modelli normativi adottati in ragione dell’adeguamento alla direttiva sull’orario da parte di Regno Unito, Germania, Spagna e Francia.

241 Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato

economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni e alle parti sociali a livello comunitario, relativa al riesame della direttiva 93/104 concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, COM, (2003) 843 def., 30 dicembre 2003.

disegno del 2004242, poi con la proposta del 2005243 in cui erano stati almeno in

parte recepiti gli emendamenti formulati dal Parlamento l’anno precedente, ma si è concluso negativamente nel 2008, quando il Parlamento europeo ha bocciato la posizione del Consiglio che escludeva dalla nozione di orario di lavoro i periodi inattivi del servizio di guardia e abbandonava la prospettiva abrogativa della clausola di opting out.

Nei lavori di dibattito sul testo da approvare erano state avanzate posizioni più progressiste: la Confederazione Europea dei Sindacati che partecipava alla discussione di approvazione riconosceva in particolare il bisogno di riorganizzare il lavoro e i suoi tempi per rispondere alla esigenze familiari dei lavoratori, ma anche al fine di assecondare gli interessi più generali della loro vita privata244. Si

iniziava a guardare oltre alla prospettiva legata unicamente alla conciliazione dei tempi con le esigenze familiari per attribuire maggiore centralità alla vita della persona nella sua totalità e al diritto al perseguimento di scelte libere e individuali. Una nuova fase di consultazione è stata successivamente aperta dalla Commissione europea245 evidenziando l’opportunità di perseguire, oltre

all’obiettivo storico e primario di tutela della salute dei lavoratori, anche le finalità lasciate fino ad allora in ombra, occupandosi della conciliazione dei tempi di lavoro e tempi di vita. Si stabiliva quindi che il testo della futura direttiva sull’orario dovesse garantire il corretto bilanciamento tra lavoro e vita privata; allo stesso tempo, però, si chiedeva anche di andare incontro alle esigenze dei datori,

242 V. la proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, recante modifica della

direttiva n. 2003/88CE concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro,

COM, (2004) 607 def., del 22 settembre 2004. Sul punto cfr. Ricci G., 2005, cit., p. 224 ss. 243 V. la proposta modificata di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, recante modifica

della direttiva n. 2003/88/CE concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, COM, (2005) 2446 def., 31 maggio 2005.

244 Il documento distribuito dalla CES durante i lavori di approvazione del testo della direttiva recitava: «L’Europa ha bisogno di un’organizzazione moderna del lavoro e del tempo di lavoro, rispondente ai bisogni dei lavoratori, quali: orari di lavoro salubri e una migliore conciliazione della vita professionale e della vita privata». Cfr. sul punto Gottardi D.,

L’affossamento della revisione della direttiva europea sull’orario di lavoro per mancato equilibrio tra esigenze delle imprese ed esigenze delle persone che lavorano, in Bavaro V.,

Veneziani B. (a cura di), cit., p. 312.

245 Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato

economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, COM (2010) 106 def., 24 marzo

permettendo loro di rendere più flessibili i tempi di produzione e gli orari di apertura, per poter reagire ai mutamenti intervenuti nel mercato.

Al di là della rilevante difficoltà nel riuscire a trovare il giusto equilibrio tra i diversi interessi nominati, è importante osservare come la Commissione apriva ad una prospettiva più ampia di considerazione del tempo della persona, riconoscendo la stretta connessione e dipendenza rispetto al tema della riduzione o del prolungamento della durata della prestazione lavorativa.

Negli ultimi anni, mentre il procedimento di revisione della direttiva sull’orario si è arenato, è invece proseguito, come descritto in precedenza, il percorso finalizzato al rafforzamento delle pratiche che rendano possibile la conciliazione tra i tempi di vita e di lavoro. Non si è quindi dato seguito ad un’operazione di raccordo e di sistematicità tra i due temi, nonostante la regolamentazione dell’orario normale e dell’orario massimo giornaliero, settimanale o annuale influisca inevitabilmente e in maniera determinante sulla vita delle persone, sulla possibilità di gestire il loro tempo e di riuscirne a bilanciare i diversi aspetti.

In tema di orario di lavoro, si è perciò assistito al trionfo delle esigenze produttive che ha visto talvolta soccombere anche la prospettiva di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, mentre il tema della valorizzazione di una diversa temporalità per la persona è rimasto in ombra. Anche in relazione alla problematica della conciliazione tra vita familiare e vita professionale, la logica sottesa ha riguardato perlopiù il fine della ridistribuzione delle responsabilità familiari e per incentivare l’occupazione femminile.

Mentre quest’ultimo aspetto, infatti, incentrato sulla programmazione di un aumento della presenza delle donne nel mondo del lavoro, trova quasi unanime consenso e approvazione, le questioni in tema di orari di lavoro restano invece ancora molto controverse e gli Stati membri hanno finora ampiamente sfruttato gli spazi di flessibilità in favore delle imprese lasciati aperti dalla direttiva.

È noto come con specifico riferimento al tempo di lavoro, gli interessi in conflitto tra le parti del rapporto emergano in relazione ai seguenti aspetti: alla possibilità per il datore di decidere la durata e la collocazione della prestazione in ragione del processo produttivo e della domanda di beni e servizi versus la tutela

del lavoratore intesa sia come capacità di resistenza rispetto alle scelte della controparte sia come fissazione di tetti legali invalicabili; alla prevedibilità dei mutamenti della collocazione e della durata delle prestazione, indispensabile per il lavoratore per contrastare le ricadute della flessibilità imprenditoriale e per organizzare la propria vita.

Rispetto a questi poteri/conflitti, è possibile osservare come i più recenti interventi in ambito europeo muovano passi in avanti nella prospettiva di attribuire maggiori garanzie all’interesse del prestatore sull’organizzazione temporale della prestazione.

Un contributo in tema di rafforzamento al limite «alla signoria creditoria sul tempo della persona che lavora»246 può essere rinvenuto nella direttiva 2019/1152/

UE. La direttiva intende «migliorare le condizioni di lavoro promuovendo un’occupazione più trasparente e prevedibile, pur garantendo nel contempo l’adattabilità del mercato del lavoro» (art. 1, par. 1). A tal fine, prevede l’obbligo per il datore di lavoro di informare i lavoratori su alcuni elementi essenziali del rapporto di lavoro (art. 4)247. In particolare, qualora l’orario di lavoro non sia

predeterminato, il datore di lavoro deve comunicare: a) il numero minimo di ore di lavoro retribuite e la retribuzione per il lavoro svolto oltre tale numero minimo (art. 4, par. 2, lett. m, punto i); b) il periodo in cui al lavoratore può essere imposto di lavorare (lett. m, punto ii); c) la durata minima del preavviso e il termine entro cui il datore di lavoro può revocare una chiamata (lett. m, punto iii). Con questa normativa, si è così avvertita l’esigenza di circoscrivere il tempo della disponibilità, con particolare riferimento alle tipologie di rapporti di lavoro come quelli a chiamata. L’art. 10 par. 1 lett. a, in caso di organizzazione del lavoro «interamente o in gran parte imprevedibile», riconosce infatti al lavoratore «il diritto di rifiutare un incarico di lavoro senza conseguenze negative» qualora la prestazione sia richiesta per delle ore o dei giorni diversi da quelli prestabiliti. La

246 Calvellini G., La funzione del part-time: tempi della persona e vincoli di sistema, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2020,p. 123.

247 Stabilisce, poi, alcuni diritti minimi – in materia di durata del periodo di prova, divieto di clausole di esclusività, prevedibilità del lavoro, transizione a un altro lavoro, formazione – che dovrebbero applicarsi a tutti «coloro che hanno un contratto o un rapporto di lavoro» (art. 1, par. 2).

direttiva afferma così in capo al datore di lavoro «un potere di variazione della durata dell’orario di lavoro concordato con il lavoratore che non ha riscontro nel nostro ordinamento»248.

In relazione, invece, alla possibilità per il lavoratore di influire direttamente sull’organizzazione temporale della sua prestazione, è necessario analizzare più approfonditamente la direttiva 2019/1158/UE sul riequilibro tra vita professionale e vita familiare.

Emerge infatti come l’art. 9, che è specificamente dedicato alle «modalità di lavoro flessibili», riporti solo alcune delle proposte che erano già state formulate da Parlamento nel 2008 per modificare la direttiva 2003/88/CE al fine di valorizzare gli interessi del lavoratore. Nella proposta del Parlamento del 2008 si chiedeva infatti agli Stati membri di spostare maggiormente il concetto di flessibilità a favore del lavoratore assicurando che ogni modifica del ritmo di lavoro dovesse essere comunicata al lavoratore con congruo anticipo e garantendo ai lavoratori il diritto di chiedere modifiche del loro orario e del loro ritmo di lavoro, fissando l’obbligo per i datori di considerare tali richieste equamente e con obbligo di motivare un eventuale diniego, ammesso, tra l’altro, soltanto se gli inconvenienti organizzativi fossero stati sproporzionalmente maggiori rispetto al beneficio per il lavoratore249.

L’art. 9.2 della direttiva 2019/1158/UE dispone che «i datori di lavoro prendono in considerazione le richieste di modalità di lavoro flessibili di cui al paragrafo 1 e vi rispondono entro un periodo di tempo ragionevole alla luce sia delle proprie esigenze sia di quelle del lavoratore. I datori di lavoro motivano l’eventuale rifiuto di una tale richiesta o l’eventuale richiesta di rinvio», con l’inciso al punto 2 dello stesso articolo secondo cui «la durata di tali modalità di lavoro flessibili può essere soggetta a una limitazione ragionevole». All’interno di questa formulazione è venuto meno un contenuto importante dell’allora proposta del Parlamento europeo, nella parte in cui si richiedeva che i datori di lavoro dovessero informare con congruo anticipo i lavoratori di ogni modifica del ritmo

248 Borelli S., Orlandini G., Appunti sulla nuova legislazione sociale europea. La direttiva sul

distacco transnazionale e la direttiva sulla trasparenza, in QG, 4, p. 54 ss.

di lavoro. Eppure, si tratta di un aspetto che ha un impatto notevole nel consentire al lavoratore di programmare le proprie scelte individuali e organizzare la propria vita.

Inoltre, l’art. 9 si riferisce pur sempre ai i lavoratori con figli fino a una determinata età e ai prestatori di assistenza, mentre la proposta di modifica della direttiva sull’orario nella formulazione descritta sarebbe stata rivolta a tutti i lavoratori.

Ad ogni modo, è importante rilevare che la direttiva 2019/1158 offra oggi un importante punto di riferimento in tema di bilanciamento tra interesse economico dell’impresa e interesse dei lavoratori alla conciliazione, che consente di rivedere anche la recente impostazione giurisprudenziale della Corte di Giustizia in riferimento a questi aspetti. Ci si riferisce, in particolare, alla sentenza Ortiz

Mesonero250, in cui alla Corte di Giustizia veniva chiesto di pronunciarsi sul

contrasto alla direttiva 2010/18 della normativa nazionale spagnola che prevedeva il diritto per un lavoratore, al fine di prendersi direttamente cura di minorenni o di familiari a carico, di ridurre il proprio orario di lavoro quotidiano, con una riduzione proporzionale della retribuzione, senza potere, quando il suo regime di lavoro normale fosse a turni con un orario variabile, beneficiare di un orario di lavoro fisso, mantenendo il proprio orario di lavoro quotidiano. In quest’occasione la Corte di Giustizia ha risposto negativamente, sostenendo che nel contesto normativo europeo vi fossero in sostanza delle «prescrizioni minime volte ad agevolare la conciliazione delle responsabilità professionali e familiari dei genitori che lavorano»(punto 45) e che «né la direttiva 2010/18 né l’accordo quadro sul congedo parentale contengono disposizioni che possono imporre agli Stati membri, nell’ambito di una domanda di congedo parentale, di accordare al richiedente il diritto di lavorare ad un orario fisso allorquando il suo regime di lavoro normale è a turni con un orario variabile» (punto 48). La direttiva 2019/1158, che ha sostituito la precedente del 2010, è invece intervenuta in maniera sicuramente più incisiva su questi aspetti, nell’attribuzione di uno specifico rilievo giuridico alla cura e al tempo da dedicare ad essa e di un vero e

proprio diritto per il lavoratore di chiedere orari di lavoro flessibili per motivi di assistenza. La fissazione di questi principi non dovrebbe perciò portare di nuovo la Corte di Giustizia ad assumere una posizione che legittimi la prevalenza delle esigenze economiche e organizzative dell’impresa sul diritto alla conciliazione familiare, sia se venga fatto valere da una lavoratrice sia, come nel caso descritto, da un lavoratore.

Al riguardo, emergono, tuttavia, anche le seguenti considerazioni. Pur attribuendo all’ultima direttiva un fondamentale impegno per il riconoscimento di politiche e istanze sociali a lungo richieste, non si può non tenere conto del fatto che fino a che l’attuale direttiva sull’orario di lavoro resti priva della fissazione di un tetto massimo giornaliero e continui a prevedere che il limite settimanale di 48 ore non vada rispettato necessariamente nella singola settimana, ma possa essere reso medio dal legislatore nazionale su di un arco quadrimestrale, persino le prospettive volte a una migliore conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro sono destinate a subire un complessivo ridimensionamento.

Nel marzo 2015 la Commissione ha avviato una nuova consultazione pubblica al fine di promuovere una revisione della direttiva n. 88. Il percorso di revisione ha tuttavia subito l’ennesimo stallo, dovuto, ancora una volta, alla mancanza di accordo su un testo condiviso in sede di procedura legislativa ordinaria tra Parlamento europeo, Consiglio e parti sociali.

Da ultimo, a fronte del fallimento del processo di revisione, la Commissione ha promosso l’adozione di una Comunicazione251, concernente taluni aspetti

dell’organizzazione dell’orario di lavoro. Lo scopo della Comunicazione è in particolare rivolto ad un’opera di sistematizzazione dell’apparato giurisprudenziale in tema di orario di lavoro, allo scopo di fornire chiarimenti e superare incertezze applicative. Si prende atto della difficoltà di trovare un equilibrio tra gli interessi coinvolti per poter procedere alla revisione della direttiva sull’orario e s’intende in parte supplire a questa carenza riconoscendo l’effettività giuridica della lunga attività interpretativa in materia ad opera della Corte di Giustizia. L’assetto regolativo in tema di orario deve quindi oggi fare

251 Comunicazione 2017/C-165/01, Comunicazioni interpretative sulla direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003.

necessario riferimento alle interpretazioni di derivazione giurisprudenziale che contribuiscono ad ampliare il quadro normativo complessivo, inserendolo in una prospettiva più organica, garantista e universalistica.

5. L’attività interpretativa della Corte di Giustizia sul tempo di lavoro