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di Eyvind Hytten

Capita spesso, a chi ha condiviso una parte della esperienza dei progetti comu-nitari, di riflettere sul significato di questa partecipazione che, per i più, ha comportato un particolare impegno morale e professionale, e che per molti è stato un momento de-terminante nella propria formazione.

Vi è qualcosa di ambivalente in questa riflessione, perché la storia dei prcr getti non è tale da creare un senso di soddisfazione in chi cerca di formularne un bilancio di risultati e di fallimenti; ma allo stesso tempo, anche il più cri-tico rimane con l'impressione che, nonostante tutto, sia valsa la pena e che qualcosa di utile ci sia ancora da imparare dalle esperienze comunitarie.

Sotto questo atteggiamento, evidentemente, può nascondersi soltanto la na-turale tendenza a voler giustificare il proprio passato con un generico quand mème. Ma ci sono dei motivi più obiettivi per cui anche l'osservatore estraneo e neutrale potrebbe trovare nella storia dei progetti degli insegnamenti concreti per là problematica dello sviluppo sociale, la cui portata va al di là dell'apologia e anche della semplice giustificazione dell'esistenza e delle vicende dei progetti. Uno degli scopi principali dì questo Convegno, e più in particolare delle pa-gine che seguono, è di definire i termini per una valutazione obiettiva e realL stica di ciò che i progetti comunitari hanno lasciato; dei loro insegnamenti sia positivi che negativi. Va precisato in partenza che il proposito di dare un con-tenuto più concreto all'idea che i progetti, dopo tutto, conservano una loro validità, non è affatto ispirato dalla nostalgia di chi vorrebbe ripetere oggi le atesse esperienze nelle medesime forme.

Se questo riesame non viene fatto nella prospettiva di un eventuale rilanciò dello sviluppo comunitario a livello locale, quale interesse rimane nei progetti qui considerati, che non sia puramente storico? Per rispondere, bisogna rifarsi alla bèn nota situazione di disorientamento in cui si trova attualmente la tè matica dello sviluppo socio-economico delle zone depresse, in Italia e altrove.

L'empirismo tecnocratico che caratterizza gran parte degli interventi per lo sviluppo, la carenza di guide ideologiche, l'ottimismo obbligatorio dei respon-sabili, fanno sì che, mentre i dislivelli tra le zone ricche e le zone povere riman-gono statici o si vanno addirittura accentuando, si sta creando un diffuso senso d'impazienza e di disinteresse verso questi problemi che persistono, malgrado quanto viene fatto per eliminarli. Questa impazienza dell'opinione pubblica e disimpegno dei politici, andrebbe superato non con richiami all'amore fraterno, ma con un'opera di sensibilizzazione affinché si arrivi a vedere che l'arretrar

tezza non è un tumore nel corpo sociale che va eliminato con un colpo di bi-sturi, ma piuttosto il segno di una disfunzione dell'intero organismo, che richiede interventi « straordinari » non solo come mezzi materiali, ma soprattutto nel senso di una nuova chiarezza di propositi e di maggior precisione di metodi. L'esempio a noi più vicino, quello del Mezzogiorno, dimostra come l'ansia di far continuamente credere che la soluzione dei problemi rimasti sia immi-nente, abbia creato una esasperazione che si manifesta come sfiducia nelle istituzioni preposte e, peggio, in un ritorno al fatalismo in chiave razzista. Tendenze di questo genere minacciano di togliere il terreno sotto ai piedi agli interventi per lo sviluppo nelle zone arretrate, prima ancora che abbiano trovato la loro strada. Di fronte a questa situazione, diventa urgente valorizzare ogni esperienza nel campo che possa offrire, anche se in scala ridotta, degli orientamenti per una concezione più approfondita dei problemi dello sviluppo. Questa sensibilizzazione dell'opinione pubblica non costituisce però un motivo sufficiente per riconsiderare le esperienze comunitarie. Nel particolare clima del dopoguerra e degli anni '50, era un auspicato punto d'arrivo che lo Stato, dietro la spinta dell'opinione pubblica più qualificata, assumesse degli impegni particolari per il riscatto delle zone arretrate. Oggi, si tratta non di sollecitare, ma di affiancare e qualificare un intervento pubblico che è già in atto nei vari settori che interessano lo sviluppo socio-economico; principalmente allo scopo di evitare che questi sforzi si snaturino per causa dei condizionamenti burocratici e tecnocratici a cui sono sottoposti.

Solo una permanente discussione sui metodi e gli scopi dello sviluppo socio-economico può garantire che il faticoso processo di trasformazione della società, non vada avanti a caso, come facilmente tende a fare.

Gli insegnamenti

Siamo arrivati ad un punto in cui una delle premesse fondamentali di ogni pro-getto di sviluppo comunitario viene generalmente accettata: il riconoscimento del ruolo essenziale che hanno gli aspetti sociali sia dell'arretratezza che dei processi di sviluppo. Lo stesso legislatore, sempre più esplicitamente, ne riconosce l'importanza e prevede degli interventi specifici per condizionare lo sviluppo della società anche in questo settore.

Così, parecchi dei temi che i progetti comunitari hanno affrontato in via sperimentale nelle loro limitate zone d'operazione, si trovano oggi ripresi a livello nazionale, come oggetti di riforme e di provvedimenti legislativi di grande portata: l'istruzione e la formazione professionale, il funzionamento degli enti pubblici nel campo sociale e formativo, il decentramento amministrativo, l'ur-banistica, la previdenza sociale, i mezzi di comunicazione di massa come stru-menti educativi, ecc. Ciò che ancora manca, per cui questi vari provvedistru-menti assumono carattere dispersivo, è la necessaria visione d'insieme degli scopi per

cui i servizi e le istituzioni sociali vanno perfezionate: in breve, una politica di sviluppo sociale.

Sia il Programma economico nazionale che la nuova legge per l'intervento straordinario nel Mezzogiorno, pur contenendo delle generiche affermazioni sulle finalità sociali dell'intero intervento, finiscono con il tradurre questi propositi generali in direttive operative estremamente ristrette (provvedimenti nel campo previdenziale e assistenziale; interventi di punta nel campo culturale e for-mativo, ecc.), mentre è venuto a mancare il coordinamento con altri provve-dimenti più sostanziali, in cui questi propositi di progresso civile della società avrebbero trovato un sbocco operativo più concreto: riforma della scuola, della pubblica amministrazione, istituzione delle regioni, ecc.

Intanto, questa maggiore presenza dello Stato anche nell'area dei problemi sociali, a prima vista appare tale da rendere inutile qualsiasi discorso sui pro-getti comunitari e su altri esperimenti di sviluppo non direttamente connessi con l'attività pubblica nel campo. Al massimo, si direbbe che certe impostazioni comunitarie potrebbero interessare l'intervento pubblico nelle zone depresse del Meridione, come orientamento nella fase esecutiva dei programmi socio-educativi in atto.

Ma questo è solo uno dei livelli, e certamente non il più importante, su cui è possibile trarre degli insegnamenti dalle esperienze comunitarie: si tratterebbe quasi di una semplice ripresa di approcci e metodi di intervento sociale a li-vello locale, già ampiamente sperimentati dai progetti e da parecchi altri enti nel campo socio-educativo, e abbastanza facilmente riproducibili nelle mede-sime forme. Specialmente se ci si accontenterà di un'azione limitatamente cul-turale nelle zone depresse, le esperienze accumulate dagli enti privati avranno un certo valore di guida per gli interventi pubblici, ma forse solo come indi-cazioni della scarsa utilità di azioni del genere, quando non siano abbinate ad interventi diversi e più direttamente incisivi.

Più urgente sarebbe, però, un tentativo di trarre dalle esperienze precedenti, non solo degli orientamenti di tipo metodologico, ma anche una serie di chia-rimenti e di precauzioni relativamente al problema che è sempre stato pregiu-diziale per la riuscita di iniziative del genere nel paese: l'inquadramento delle attività di sviluppo nel contesto politico-amministrativo a livello locale e re-gionale. L'isolamento in cui, per varie ragioni, si sono trovati a lavorare i pro-getti comunitari, non può essere copiato dall'intervento pubblico: bisogna pre-vedere che, per quanto più autorevole dei progetti privati e libero dalle loro preoccupazioni materiali, anche l'intervento pubblico si urterà contro le normali tendenze di certi ambienti locali a rigettare o per lo meno a non accettare senza difficoltà i nuovi contenuti dei discorsi socio-educativi. Queste resistenze più o meno aperte vanno previste e affrontate come ostacoli normali a qualsiasi inno-vazione valida. Soprattutto non vanno aggirate, rendendo il contenuto dello intervento quanto più innocuo è possibile.

Di questo problema e dei modi in cui esso ha condizionato anche l'operato dei progetti comunitari, ci occuperemo in termini più concreti verso la fine della presente relazione. E' infatti un tema che, per quanto pregiudiziale per la riuscita degli interventi nella fase pratica, costituisce solo uno fra tanti esempi di ciò che, in senso positivo o negativo, ci sarebbe da imparare dalle vicende dei progetti privati: l'assoluta necessità che qualsiasi intervento rivolto allo svi-luppo sociale non resti un fatto a se» stante, ma sia invece programmato e por-tato avanti in un contesto organico. Prima di tutto occorre una chiara perce-zione dell'ampiezza e complessità dei problemi da affrontare, e una visione altrettanto chiara di dove si vuole arrivare, con quali mezzi, e a quali costi: in breve, una politica di sviluppo.

I grandi lineamenti di questa problematica, le questioni che riguardano non i dettagli dell'intervento in un settore o in una zona specifica, ma gli scopi e le prospettive dello sviluppo sociale, la possibilità di sollecitarlo con inter-venti particolari, questi temi di fondo si presentano a chiunque voglia contri-buire allo sviluppo, indipendentemente dai metodi e dalle forme organizzative con cui l'intervento viene svolto. Il nostro scopo è di indicare come anche l'esperienza dei progetti comunitari, per quanto legati a un periodo storico pas-sato e a forme operative che oggi possono dirsi superate, conservi la sua va-lidità relativamente a questo ordine di problemi.

Per quanto possa sembrare una conclusione paradossale (e anche amara, per chi ha creduto nell'utilità diretta dei progetti), si può suggerire che la loro attualità è più grande oggi che durante gli anni della loro maggiore fioritura. Forse esistono oggi le premesse per fare accogliere alcuni dei loro insegnamenti nelle sedi decisionali dei grandi interventi pubblici per lo sviluppo del Paese — come moniti a non sottovalutare la complessità dei problemi, e come illu-strazione di quanto sia facile « fare », e difficile fare bene, in questo campo.

Si aprirebbe così una prospettiva che i progetti si vedevano sempre preclusa, e cioè quella di trovare un innesto dei principi dello sviluppo comunitario su interventi più massicci e incisivi di quanto fossero i progetti stessi. E' una pro-spettiva ancora lontana, ma la tardiva confluenza di idee sull'importanza dei fattori sociali nei processi di sviluppo, dà qualche speranza di poter avviare un dialogo, allo scopo di valorizzare le esperienze private nell'ambito degli in-terventi pubblici per lo sviluppo socio-economico.

Cambiamento e sviluppo

Negli ultimi tempi — soprattutto in occasione del rilancio della Cassa per il Mezzogiorno e nelle conseguenti discussioni su; risultati del primo quindicen-nio d'intervento straordinario — è stato più volte sottolineato come, grazie sia a questo intervento stesso, sia ad alcuni fenomeni autonomi verificatisi nel frattempo (per esempio l'emigrazione), la realtà sociale del Meridione e in

ge-nere delle zone depresse si è andata trasformando. « La crescita economica con i suoi fenomeni di industrializzazione e di esodo », dice in proposito il « Piano di coordinamento » della Cassa, « hanno indotto, nella struttura sociale e culturale del Mezzogiorno, una serie di elementi di carattere innovativo, talora contraddittori, che si sono comunque rivelati tutti fattori di rottura del costume e delle relazioni sociali e tradizionali ».

Non vi è niente da obiettare a questa affermazione di per sé: non è neanche necessario conoscere direttamente la realtà di cui si parla per intuire che vent'anni di storia non passano senza lasciare il segno, soprattutto in una zona molto complessa che fa parte di una nazione in rapido sviluppo economico. Le per-plessità vengono piuttosto dall'uso che di questo tipo di affermazione si può fare, e talvolta si è fatto, specialmente a proposito del problema di ulteriori interventi diretti sulla realtà sociale.

Bisogna distinguere tra i due elementi di cui è composto questo ragionamento. Il primo è l'affermazione che certe trasformazioni socio-culturali sono effetti-vamente in atto anche nelle zone più arretrate del paese; il secondo consiste invece nell'attribuzione di un valore positivo agli effetti di queste trasforma-zioni, le quali perciò assumono carattere di « progresso » anziché semplice-mente di « cambiamento ».

Per quanto riguarda la prima affermazione, la sua banalità suggerisce che nessuno avrebbe sentito il bisogno di sottolinearla se non per uno scopo preciso. Potremmo immaginare che questo scopo sia soltanto quello di smentire altre in-terpretazioni, che invece presuppongono una tale staticità del sistema sociale e culturale nelle zone depresse, che ogni cambiamento registrato appare come un fatto notevole. E' innegabile che tendenze interpretative di questo tipo nei riguardi del Mezzogiorno ve ne sono state, in specie da parte sociologica e antropologica.

E' poco probabile, d'altro canto, che l'accento sul fatto delle trasformazioni in corso sia motivato solo dal desiderio di controbattere delle interpretazioni di carattere così marginale. Piuttosto l'insistenza che « qualcosa » è cambiato, va vista in relazione al secondo elemento: facendo apparire degno di nota un fatto di per sé ovvio, questa interpretazione devia l'attenzione della questione che invece è altamente controversa, cioè se questi cambiamenti avvenuti siano da considerarsi positivi o negativi, fattori di ulteriore progresso sociale o di disgregazione.

Da questa interpretazione — che troviamo espressa con un certo compiaci-mento dovunque si parla degli interventi socio-educativi nelle zone depresse — è molto breve il passo alla conclusione che, essendo un processo di « sviluppo sociale » già in atto per conto proprio, l'intervento pubblico non deve fare altro che seguirne la corrente, senza particolari preoccupazioni di guidare il processo o di definire le finalità. Si tratta, insomma, di una interpretazione liberistica dello sviluppo sociale, basata sull'idea della « mano invisibile » che guida le trasformazioni spontanee e indotte nella direzione giusta.

Sono i ragionamenti di questo tipo che mantengono in forza il pericoloso otti-mismo sugli effetti benefici e garantiti degli interventi; atteggiamento che non può mancare di rivelarsi controproducente man mano che la non automaticità di tali effetti diventa sempre più palese. Allo stesso tempo, questo modo di considerare i problemi, preclude un confronto obiettivo tra ciò che lo Stato si propone di attuare nelle zone depresse, e ciò che altri hanno già sperimen-tato in situazioni simili. «

L'intervento pubblico sembra innestarsi su una serie di processi di trasfor-mazione sociale già in atto, di cui è conosciuta la direzione e garantita la desi-derabilità: con una modesta spinta da parte dello Stato e molta pazienza da parte degli interessati, tutto si risolverà in modo naturale. Invece i progetti comunitari e altri interventi non governativi nel campo — utopistici, prote-statari e velleitari — sono andati contro corrente, per cui, anche se avessero avuto quelle risorse, la cui mancanza è loro servita per spiegare gli insuccessi, non avrebbero combinato nulla di valido. Si tratterebbe perciò di approcci diversi non solo nella forma e nelle dimensioni, ma anche nella sostanza.

La verità, ovviamente, è molto diversa. La conoscenza di ciò che sono stati e come hanno agito i progetti, è sempre stata scarsa, al di fuori di gruppi abba-stanza ristretti di sostenitori. Delle loro vicende, molte volte si conoscono sol-tanto i fatti più pittoreschi e in alcuni casi clamorosi: naturalmente, essi hanno fatto parlare di sè soprattutto quando, per varie ragioni, si sono trovati a dover andare contro corrente. Ma nessun progetto, dal più « protestatario » al più convenzionale nei suoi approcci, ha mai voluto attribuire un valore assoluto al fatto di seguire la corrente o di andarci contro. Si trattava — come sempre si tratta per chi pensa di sapere dove vuole arrivare — di agire secondo i casi, in base ad una realistica valutazione dei fatti a disposizione, pronti ad andare « contro » gli avvenimenti se così era il caso, o di seguirli se la situazione si presentava diversamente. Qualsiasi formula schematica, come quella di « affian-care i processi in atto », non farebbe altro che condannare l'intervento ad una permanente marginalità, perché fondata sull'idea utopistica che il progresso

inteso in senso qualitativo, sia in qualche modo garantito dalla natura delle cose.

La non automaticità del progresso

Sono quindi gli stessi problemi affrontati dai progetti che, in dimensione più grande, si presentano all'intervento pubblico; e non esistono formule magiche per evitare le difficoltà intrinseche dello sviluppo sociale. La tendenza dei pro-getti di non accontentarsi di affiancare certi processi sociali spontanei, e al limite di andare contro corrente piuttosto che sostenere dei processi non ritenuti validi ai fini dello sviluppo, in fondo non era altro che la preoccupazione di fare dei « cambiamenti » uno « sviluppo », intervenendo qualitativamente sui problemi sociali.

Il tema della « partecipazione » offre la migliore dimostrazione di quanto siano state giustificate queste preoccupazioni. Si trattava, per i progetti, non di creare fatti sociali nuovi nella sostanza, ma di qualificare il graduale inseri-mento della popolazione nella vita sociale, in modo che gli schemi della con-vivenza tradizionale nelle zone in via di sviluppo — clientelismo, « famili-smo », il giuoco degli appoggi e delle amicizie — non continuassero a corrom-pere anche la vita pubblica. La partecipazione non doveva essere fine a se stessa, da concepirsi come un valore assoluto, ma avrebbe dovuto servire ad instaurare nuove forme di convivenza sociale, la cui validità sarebbe dipesa dal come la gente partecipava, e soprattutto per quale scopo prendeva parte alla vita delle società.

Gli avvenimenti degli ultimi anni dimostrano che, per quanto siano risultati vani i tentativi dei progetti di instaurare nuovi modi di partecipazione, il tema mantiene tutta la sua attualità. Il fatto che oggi la gente partecipi più estesa-mente alla vita della nazione di quanto facesse dieci anni fa, sembra derivare più dal crescente bisogno che hanno i centri di potere di far avallare le proprie decisioni, che non da una maggiore sensibilità delle persone ai propri doveri e diritti alla partecipazione. Basta considerare la graduale involuzione che si è andata creando nei rapporti tra l'elettorato e i centri di potere politico, anche all'interno dei partiti con una tradizionale vocazione democratica: un processo forse inevitabile, ma che difficilmente si può considerare un fattore di « pro-gresso » nella vita civile.

La mancanza di fiducia nella automaticità del progresso, la conseguente ten-sione verso metodi e contenuti dell'intervento che garantissero una « qualità » ai cambiamenti indotti, sono due elementi di fondo nella « politica » di sviluppo adottata dai progetti comunitari. Talvolta, è vero, questa tensione ha rischiato di trasformarsi in una involuzione contemplativa, quasi paralizzando l'impegno di agire in modo concreto. Ci sono anche stati dei momenti, in certi progetti, in cui l'urgenza di « fare » ha travolto ogni preoccupazione sulle finalità degli interventi, e ci si è temporaneamente abbandonati ad un frenetico attivismo, a tutto scapito del senso di qualità che è indispensabile in attività del genere. Questi due estremi, che per fortuna non si sono verificati che in alcuni casi, illustrano i rischi cui sono esposti tutti gli interventi nelle zone depresse.

Per quanto riguarda le attività pubbliche nel campo dello sviluppo, però, è più dal secondo caso che dal primo che bisogna trarre degli insegnamenti. La scarsezza di elaborazioni teoriche e ideologiche intorno alla problematica dello sviluppo in un paese come l'Italia, e la mancanza di apposite strutture ammi-nistrative, abbastanza libere da condizionamenti politici e burocratici da poter pianificare i loro interventi con esclusivo riguardo alle necessità obiettive della società, comportano un rischio permanente che le varie iniziative socio-econo-miche, malgrado le apparenze, non siano sufficientemente indirizzate ai fini