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Community Development n.19-20 1968. International issue of Centro Sociale (ed. italiana: Centro sociale A.15 n.81-84)

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new series

19*20

community development

international issue of

(2)

International Review of Community Development

International Edition of « Centro Sociale »

Sponsored by the «Adriano Olivetti» Foundation

Advisory Board

A. Ardlgò, Istituto di Sociologia, Università di Bologna - W. Baker, Center for Community

Stu-dies, University of Saskatchewan - G . Balandier, Sorbonne, Ecole Pratique des Hautes Etudes, Paris - R. Bauer, Società Umanitaria, Milano - L. Benevolo, Facoltà di Architettura, Università di Venezia - M. Berry, International Federatlon of Settlements, New York - F. Botts, FAO, Roma - G. Calogero, Istituto di Filosofia, Università di Roma - M. Calogero Comandini, CEPAS, Roma - V. Casaro, Ministero Pubblica Istruzione, Roma - G . Cigliano, Istituto Sviluppo Edilizia Sociale, Roma - E. Clunies-Ross. Institute of Education, University of London - H. Desroche, Sorbonne, Ecole Pratique des Hautes Etudes, Paris - J. Dumazedier, Centre National de la Recherche Sclentlfique, Paris - A. Dunham, School of Social Work (Emeritus), University of Michigan M. Ficheto, Fondazione « A. Olivetti », Roma E. Hylten, Stockholm University

-F. Lombardi, Istituto di Filosofia, Università di Roma - E. Lopes Cardozo, State University of

Utrecht - A. Meister, Sorbonne, Ecole Pratique des Hautes Etudes, Paris - L. Miniclier, Inter-national Cooperation Administration, Washington - G. Molino, Amministrazione Attività Assi-stenziali Italiane e Internazionali, Roma — G. Molla, Fondazione « A. Olivetti », Ivrea - R. Nisbet, Dept. of Sociology, University of California - C. Pelllzzi, Istituto di Sociologia, Università di Firenze - E. Pusic, Faculty of Law, University of Zagreb - L. Quaronl, Facoltà di Architet-tura, Università di Roma - M.G, Ross, University of Toronto - M. Rossi-Doria, Osservato-rio di Economia Agraria, Università di Napoli - U. Serafini, Presidenza Consiglio Comuni d'Europa, Roma - M. Smith, London Councìl of Social Service - / . Spencer, Dept. of Social Work, University of Edinburgh - A. Todisco, Fondazione « A. Olivetti », Ivrea - A. Visalberghi, Istituto di Filosofia, Università di Roma P. Volponi, Fondazione « A. Olivetti », Ivrea -E. de Vries, Institute of Social Studies (Emeritus), The Hague - A. Zucconi, CEPAS, Roma.

Publisher: Centro di Educazione Professionale per Assistenti Sociali (CEPAS) - Università di Roma

Editor : Anna M. Levi - Editorial Assistant : Ernesta Roger» Vacca Editing and Management Offices: Piasse Cavalieri di Malta, 2 - 00153 Roma

Manuscripts, books and bulletins f o r review, announcements and communications should b e addressed to the Editor. The annual double-issue subscription rate — 3 6.00 o r equivalent in natio-nal currency — may be paid by cheque, through the Exchange Office, and o n Postai Account 1/20100, Roma.

Les manuscrits, livres et revues pour recension, informations et communications doivent ètre adressés au directeur. L'abonnement annuel (un volume doublé) — 3 6.00 ou équivalent en mon-naie nationale — peut Étre réglé par chèque bancaire, remise de l'Office des changes, et vire-ment au C.C. postai, Rome, 1/20100.

Manoscritti, libri e riviste per recensione, notizie e informazioni devono essere indirizzati al direttore. Questo fascicolo internazionale è spedito in conto abbonamento agli abbonati di Centro

Sooiale.

AH Rights Reserved

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International Review

of Community Development, n. 19-20, 1968

International Issue of « Centro Sociale », a. XV, n. 81-84

Contenta - Sommaire - Indice

M. Fichera G. A. Morselli E. Hytten G. Mottura E. Rogers e J. Mawas G. A. Morselli 123 E. Hytten G. Mottura

Sviluppo di comunità in Italia Community Development in Italy III Introduzione - Foreword

1 Clima storico e prospettive dello sviluppo di comunità in Italia

31 Gli insegnamenti dei progetti: sviluppo

comuni-tario e sviluppo della società

47 Localizzazione geografica dei nove progetti

considerati

49 Profili dei progetti considerati

67 Sintesi valutativa di nove progetti italiani di

sviluppo comunitario

115 Sommario del dibattito al Convegno di Sorrento

English Translations (by E. Rogers):

Historical Framework and Perspectives of Com-munity Development in Italy

143 Community Development and Social Development 159 Descriptive Summaries of the Projects Considered 177 A Comparative Study on Some Italian Community

Development Projects

H. P. Saksena 221 A. Mollet 231 E. Cohen and E. Leshem 251

(Leinman)

W. G. Lyfield 271

Speciflc Problema

Evaluation in Adult Literacy

Animation rurale et exécution régionale du pian à Madagascar

Public Participation in Collective Settlements in Israel

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S. Dasgupta 285 K. D. Cangrade 309 A. P. Brier ZZI and R. E. Dowse D. f . Rowe 341 351

Community Factors in Agricultural Development: A Case Study of Six Indian Villages

The Change Agent in Community Development: India's Village Level Worker

Politicai Mobilisation: A Case Study

Industriai Revolution: Past, Present and Future

Riassunti italiani

La valutazione nell'alfabetizzazione degli adulti (H P

Saksena) - Animazione e attuazione regionale del Piano

nel Madagascar (A. Mollet) - Partecipazione pubblica nei Kibbutzim israeliani (E. Cohen e E. Leshem) - Sviluppo comunitario in Israele (W. C. Lyfield) - Fattori comu-nitari nello sviluppo agricolo: studio di sei villaggi indiani (6. Dasgupta) - L'operatore sociale nello sviluppo comu-nitario in India (A. D. Gangrade) - Mobilitazione politica: studio di un caso (A. P. Brier e R. E. Dowse) -Rivoluzione industriale: passato, presente e futuro (D

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Introduzione

Tecnica avanzata per la democratizzazione degli interventi di sviluppo 01 ripe-tizione, sia pure aggiornata, di tradizionali moduli di intervento assistenziale? Proposta innovativa per una moderna e democratica articolazione dei piani economici o riverniciatura delle nostalgie localistiche e comunalistiche? Chiun-que abbia partecipato, studiato, o anche soltanto osservato dall'esterno, gli espe-rimenti di sviluppo comunitario svoltisi nel nostro Paese nel dopoguerra, si è certo poste simili domande ed ha oscillato tra queste risposte estreme e le infinite possibili variazioni intermedie.

In modo particolare, sia consentito dirlo, queste domande non poteva non porsele la Fondazione Adriano Olivetti, impegnata a un ripensamento critico e, quando occorra, severo — e certo mai celebrativo o agiografico — di quelle esperienze di sviluppo comunitario che rappresentano una parte così impor-tante del background culturale da cui la Fondazione stessa ha preso l'avvio.

E' sembrato giusto nel riprendere questo discorso, ricordare che, per generale riconoscimento, una parte delle esperienze di sviluppo comunitario realizzate in Italia, sia pure nella loro diversità, autonomia e originalità, tenevano conto nelle premesse culturali — quanto non vi facevano riferimento esplicitamente — delle riflessioni e dei progetti che Adriano Olivetti aveva messo a punto negli anni a cavallo dell'ultima guerra: dal piano regolatore della Val d'Aosta, alle prime formulazioni di piani di sviluppo economico-sociale, alle iniziali espe-rienze di organizzazione dell'urbanistica.

Ma accanto a questa motivazione " storica " vi è, a nostro parere, una seconda e più attuale motivazione che induce al riesame di quelle esperienze e delle premesse teoriche da cui muovevano. Anche se è presto per tentare non diciamo una valutazione ma neppure una sistemazione provvisoria nell'intricata foresta di problemi, conflitti, aspirazioni, velleità che sommuovono e rime-scolano il panorama politico e sociale dei nostri giorni, alcuni grandi temi pos-sono fin d'ora essere riconosciuti come fondamentali senza rischio di cadere in errori di prospettiva: la concezione dell'impegno politico come impegno glo-bale; l'esigenza di studiare forme nuove di partecipazione democratica; la ne-cessità di superare il conflitto tra intervento e strumentazione tecnica e

inter-vento politico (ove per politica si intenda il sistema della libertà).

Ora credo si possa affermare che questi temi (che — sia detto tra parentesi, e accennando appeena un discorso che va svolto in altra sede — sono quelli che riaffiorano come esigenze centrali da una rilettura non formalistica e

attua-lizzata delle opere di Olivetti) erano certamente presenti, o come cosciente dato di esperienza culturale o come esigenza morale, nell'impegno e nella

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pro-tica di chi promuoveva e operava nei progetti di sviluppo comunitario: si par-lava in essi di un intervento globale che non era certo un espediente tecnico, bensì una precisa affermazione della contestualità e della compresenza di tutti i diversi piani in cui l'intervento politico si attua; si parlava in essi, ed era anzi per molti il tema centrale, di una esigenza di partecipazione dal basso, arrivando, in alcuni progetti, alla formulazione di precise proposte istituzionali; si poneva, infine, l'esigenza di un lavoro.di équipe di operatori tecnici, operatori sociali e quindi anche operatori politici, trovandone la premessa in un linguag-gio comune e in una nuova formulazione, funzionalizzata a questo obiettivo, dei piani di sviluppo. Crediamo che non sia in nessun modo un cedere alla moda, constatare la singolare modernità di questa tematica e riproporsi alla luce di essa il tema dell'attualità e inattualità del community development per

valutare quanto e cosa di quelle esperienze possa essere utilizzato oggi per un discorso culturale, ed anche operativo, sul problema dello sviluppo, che pure si pone secondo parametri e suggestioni assai diverse.

E' stato per avviare questo tentativo di valutazione che la Fondazione Adriano Olivetti promosse due anni fa la costituzione di un gruppo di lavoro, che affidò poi a Emma Morin la stesura, sulla base di uno schema comune, di un gruppo di monografie su alcuni progetti di sviluppo comunitario, scelti in base alla loro significatività e alla esigenza di dare un panorama completo delle tecniche di approccio e di lavoro adoperate. Ad essi si è aggiunto un nono studio mono-grafico sul « progetto pilota per gli Abruzzi » in cui Angela Zucconi ha tentato — secondo uno schema parzialmente diverso — accanto a una cronaca del progetto, una elencazione sistematica, che è spesso una scoperta, dei problemi metodologici, e qualche volta ideologici, posti dallo sviluppo comunitario. Questi studi (che per ovvie esigenze di spazio sono qui appena sintetizzati), costitui-scono un fondamento indispensabile di conoscenza per chiunque vorrà occu-parsi di questo problema.

Le nove monografie — di cui Giovanni Mottura ha fatto una rigorosa e stimolante sintesi critica — assieme allò due relazioni di Gilberto Morselli e di Eyvind Hytten pubblicate in questo fascicolo, e ad una serie di comunicazioni su problemi di settore, hanno rappresentato la base del Convegno svoltosi a Sorrento nel marzo del 1968, sul tema Attualità e inattualità dei progetti di svi-luppo comunitario, cui sono stati invitati operatori della politica di svisvi-luppo, studiosi, amministratori locali.

Un Convegno che, come speriamo mostri la sintesi ragionata del dibattito pure pubblicata in questo volume, non aveva e, si può dire, non voleva avere nessuna preteseti di organicità e di completezza — perché disorganica e incom-pleta è stata l'esperienza comunitaria nel nostro Paese e il Convegno non poteva non rappresentarla (fino al limite, a volte toccato, della confusione e della querelle).

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Ma un Convegno che « riletto » a distanza appare ricco di una infinità di spunti e possibilità. Soprattutto perché, concludendo una prima fase di lavoro ricognitivo, ha posto le premesse per una seconda fase che la Fondazione Adriano Olivetti si sente impegnata a portare avanti: quella della scelta e dell'approfondimento, tra i temi comunitari discussi a Sorrento, di quelli che appaiono, oggi più di ieri, condizione e mezzo per fare della politica di svi-luppo una politica di promozione sociale di cui l'uomo sia il soggetto, la misu-ra umana il metodo permanente, l'uguaglianza tmisu-ra gli uomini, l'obiettivo.

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Foreword

Is community development an advanced technique for the democratization of development intervenlions, or is it a 'repetition, brought up to date, of the traditional modes of welfare interventions? Does it imply new suggestions for a modem and democratic structure of economie plans, or is it simply a reha-shing of old parochialism? Whoever has participated in the community deve-lopment experiments that took place in our country after the war, or has simply studied them and observed them from the outside, has certainly put these

questions to himself, and probably has wavered between these extreme answers, and many intermediate variations.

These questions, of course, had a particular interest for the Adriano Olivetti Foundation, which is committed to a criticai reassessment of thosà experiences of community development, representing such an important part of that same cultural background in which the Foundation has, its roots:

In fact, we feel it only righi to recali that — as it is generally recognized — part of the community development experiences in Italy, though different, independent and originai, took into account in their theoretical assumptions the thought and projects developed by Adriano Olivetti before and after the last war, and often explicitly referred to them; from the regional pian for the

Aosta Volley to his first formulations of socio-economic development plans and his initial experiences of organized urban planning.

However, this " historical " motivations is not our only motive for trying to reassess those experiences and their theoretical background: we have a second

and more compelling one. Even if it may be too soon to try at least a provi-sionai systematization of the problems and conflicts that beset and confuse us in the politicai and social scene — there are at least same main themes that can be recognized as basic: the conception of politicai commitment as a global commitment; the need for creating new forms of democratici participation; the need to resolve the conflict between technical interventions and instruments and politicai intervention (where by politicai we mean pertaining to the system of freedom).

I think that these themes (and they are in fact the same themes that emerge from re-reading Olivetti's works with an eye to his more significant and modem intuitions) were definitely present either as a conscious awareness on a cultural

basis, or as an ethical need in the minds of ali those that operated in, or spon-sored the community development projects. They spoke of global intervention,

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statement concerning the timing and the range of the interrelated politicai interventions; they spoke of the need for a participation from the base, and for many of them this was a centrai issue, on which they arrived at definite institutional proposals and suggestions; they spoke of the need for team work of different operators in the technical and social fields, and therefore also of politicai operators, and they found the basis of such a team work in a common language and in a new formulation of the development plans in view of this objective.

We feel that when we state that ali these themes are in fact singularly modem and up-to-date issues, we are not following a fashion; and therefore we think that this is the moment for thinking again about the problem of the relevance or irrelevance to our present conditions of community development. Even if development problems are presented today in a different form, we stili think it is important to evaluate how much of those experiences can be utilized nowadays, both in a cultural and in an operational sense.

An attempt to evaluate this point was begun by the Adriano Olivetti Foun-dation two yearsi ago, by setting up a working group of experts, which in the end asked Dr. Emma Morin to produce — according to a scheme that had been discussed and agreed upon by the group — a series of monographs on some community development projects. The projects had been chosen either because they ivere particularly significant or because they contributed to com-plete the picture of the various approaches and methodologies used in Italy in this field. To these eight studies, Dr. Angela Zucconi added a ninth one on the pilot project in the Abruzzi, based on a slightly different scheme where, together with a chronological descriptiori of the project, a systematic list of the methodological problems met with, and sometimes of the theoretical problems set by community development was attempted and carried out. These studies, for obvious reasons of space, have been summarized in this volume, but they

constìtute a necessary basis of knowledge for anybody wanting to deal with this problem.

These nine monographs — of which Dr. Giovanni Mottura has given a rigo-rous and stimulating criticai synthesis — together with the two papers by Prof. Gilberto Morselli and Dr. Eyvind Hytten published in this volume (plus a number of papers dealing with sectorial problems) were the basis for a Con-ference wich took place in Sorrento in March 1968, on the issue " Relevance and irrelevance of the community development projects in our time ". A num-ber of development policy experts, researchers, locai administrators were invited and took part in the debates during the Conference.

As may be seen from the summary of the debates that took place during the Conference, published in the Italian section of this volume, we did not hope for and indeed we did not reach any general consensus of opinion, nor did we

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deal systematically and completely with the issues raised, just because the community experiences in our country had been far from systematic or com-plete, and the Conference could only reflect this fact.

However, thè Conference material, read again, and at a distance, appears to us rich in interest'ing points and possible indications. It has ended a first stage for our work, the reconnaissance stage, and it has laid the basis for a second stage that the Adriano Olivetti Foundhtìon intends to continue: the selection and further study of those themes discussed in Sorrento, that appear — now more than ever — to constitute the means and the condition for making the develop-ment policy a policy of social promotion — where man be the subject, the human measure be the permanent method, equality between men be the objective.

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Clima storico e prospettive dello sviluppo

di comunità in Italia

di Gilberto A. Mar selli

Premessa

Desidero innanzitutto chiarire che non intendo affatto presentare in questa sede una relazione che, secondo le intenzioni degli amici organizzatori del Convegno, avrebbe dovuto svolgere il ruolo di una « nota storica ».

Cercherò piuttosto di dare un mio personale contributo, svolgendo alcune considerazioni in margine al tema propostoci. Tema destinato a suscitare non poco interesse, se è vero, come credo, che vi è un punto sul quale è pensabile di trovare il più ampio accordo di molte persone, almeno della nostra genera-zione: che cioè, se vi è stato qualcosa che ha determinato reazioni ed atteggia-menti decisamente contrastanti, e che forse proprio per questo ha suscitato un certo interesse, davvero insospettabile, nella società italiana del dopoguerra, questo qualcosa è indubbiamente stato ciò che, sia pure per comodità di espres-sione, viene generalmente indicato come « sviluppo di comunità ».

Un'espressione, cioè, capace di assumere, a seconda dei casi, maggiori o mi-nori implicazioni; di presupporre, sia pure in grado diverso, una certa inter-pretazione della nostra società e delle sue tendenze, e, contemporaneamente, di richiedere un sia pur minimo impegno. Ma che, d'altra parte, si prestava anche a tutta una serie di equivoci, i cui effetti sono stati più perniciosi del prevedibile. E' più che evidente, quindi, che un Convegno di studio, che si ponga come tema l'esame dell'Attualità e inattualità dei progetti di sviluppo comunitario rivendichi a ragione il diritto di richiamare l'attenzione di una parte dell'opinione pubblica su alcuni specifici aspetti di questa problematica, sia per quanto ri-guarda la rimeditazione delle esperienze passate, sia, soprattutto, per quanto più strettamente attiene ai suoi possibili sviluppi nelle mutate condizioni della realtà italiana.

In altri termini, i destinari di questo discorso possono essere più agevolmente individuati nelle seguenti categorie di persone:

— coloro che, come noi, hanno avuto la ventura e la fortuna di partecipare più o meno attivamente ad una certa vicenda della cultura e della società italiane;

— coloro — ossia i più giovani — che legittimamente chiedono di essere documentati su questa problematica, sorta intorno ad un particolare aspetto dell'intervento economico e sociale nella nostra realtà storica, culturale ed istituzionale;

— coloro che sono preposti — in un modo o nell'altro — alla formazione degli operatori da impiegare in interventi di sviluppo;

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— coloro che, sia pure a titolo diverso, rappresentano i vari enti e le istituzioni interessate agli interventi stessi;

— i policy makers, infine, ai quali — in ultima analisi — spetta pur sempre la responsabilità dell'adozione di determinate scelte politiche per l'impostazione degli interventi e la loro operatività.

D'altra parte, ritengo possano individuarsi i seguenti atteggiamenti di fondo in quanti — direttamente od indirettamente — si sono, sia pure per motivi profondamente diversi, interessati al problema dello « sviluppo comunitario » in questi ultimi anni:

— quello proprio a quanti gli attribuivano, più o meno gratuita-mente, una sorta di capacità taumaturgica, secondo la quale sarebbe stato sufficiente avviare un qualsiasi intervento di tal natura per ottenere la soluzione di ogni problema; — quello attribuibile a quanti lo accettavano — sia pure con

qualche riserva, specie nei confronti del sistema economico, politico, sociale e culturale nel quale si doveva operare — nella speranza che, per suo tramite, fosse possibile mettere in moto un più ampio processo di revisione e di modifica del sistema stesso;

— quello di coloro che, invece, aderivano, con motivazioni diverse, al suggerimento proposto da altri in favore, appunto, di un simile intervento, nel dubbio di non aver saputo far ricorso ad un utile mezzo per modificare la realtà;

— quello di quanti lo subivano o per incapacità ad opporsi o per tradizionale abitudine ad adeguarsi alla volontà altrui; — quello, infine, di esplicita e coraggiosa avversione,

riscontra-bile in quanti ne paventavano i pericoli, in quanto intervento che poteva presentarsi anche con un carattere decisamente innovatore, e forse rivoluzionario, avente, per lo più, la « pre-tesa » di dar voce ai cittadini non più sudditi di uno Stato dittatoriale — o, quanto meno, lo ritenevano fondamental-mente inutile, conoscendo le capacità proprie di resistenza, presenti nel nostro sistema.

Naturalmente tutti questi elementi giocano un loro ruolo particolare princi-palmente in sede di valutazione degli interventi di « sviluppo comunitario » e, quindi, di analisi degli insegnamenti, dei miti e dei pregiudizi, che ad essi possono essere riferiti: il che non è, certo, compito di questa nota. Mi è stato richiesto, infatti, solo di contribuire a fornire un'interpretazione dell'inquadra-mento storico dei progetti di sviluppo comunitario perché fosse più chiaro, a ciascuno di noi, in quale contesto essi sono sorti, si sono maturati e, purtroppo, si sono conclusi, almeno nella maggioranza dei casi. La mia sarà, quindi, non una relazione vera e propria, ma, piuttosto, una « nota informativa », che possa, semmai, essere successivamente ampliata e completata anche con l'aiuto di altri.

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Mi. sono, in altre parole, convinto che la strada migliore e più onesta da sce-gliere non poteva che essere quella di dar luogo ad un primo contributo prov-visorio, concepito sostanzialmente come un insieme di considerazioni su un « progetto di ricerca », che meriterebbe la pena di essere tentato.

Esso, infatti, potrebbe condurci a risultati di estrema utilità non solo e non tanto per meglio intendere il clima nel quale si sono realizzati, appunto, i pro-getti di sviluppo comunitario, ma, anche e soprattutto, per meglio chiarire molti dei fatti più importanti, che si riferiscono alla problematica dello sviluppo eco-nomico e sociale della società italiana e, quindi, al ruolo svolto in esso dai vari interventi nonché dalle politiche che li hanno ispirati.

E' come è d'obbligo per ogni progetto di ricerca, anche in questo caso si dovrà cercare, innanzitutto, di compiere lo sforzo di individuazione delle ipotesi di fondo da verificare in seguito.

Naturalmente, questo processo di individuazione e formulazione delle ipotesi non può non risentire della soggettività del ricercatore: da ciò l'interesse al successivo confronto tra diversi modelli, proposti da differenti ricercatori, tanto meglio se aventi posizioni ideologiche diverse, se appartenenti a diverse genera-zioni e, quindi, con differenti esperienze nel proprio passato.

Per quanto riguarda il mio personale punto di vista — ossia l'angolo visuale dal quale ho ritenuto fosse più opportuno affrontare il problema sì da tener conto delle mie convinzioni nonché della mia posizione ideologica — devo innanzi-tutto chiarire di èssermi rifatto a quelle più profonde divisioni e differenze individuali, che possono essere ritrovate a monte degli atteggiamenti prima indicati.

Le divisioni, cioè, tra i fautori ad oltranza dell'intervento dal basso e quanti, invece, riconoscevano validità solo all'intervento dall'alto e centralizzato; tra diverse interpretazioni del senso dello Stato, da una parte, e della democrazia, dall'altro; tra differenti posizioni nei confronti dei principi, che avevano dato luogo alla nostra Costituzione democratica e repubblicana, e, quindi, tra i diversi gradi di consapevolezza negli obiettivi prepostisi; tra coloro che ac-cettavano o meno l'articolazione della nostra realtà nelle sue diverse compo-nenti e, ancor più, l'esistenza di problemi nuovi che la società italiana aveva ereditato dal suo recente passato e di quelli che il futuro avrebbe sapute inevi-tabilmente proporre in termini assai drammatici: queste, almeno nelle loro linee generali e come un primo tentativo, le posizioni individuali alle quali ho ritenuto fosse doveroso dedicare una certa maggiore attenzione per meglio inquadrare il tema affidatomi.

Senza contare che queste contrapposizioni hanno finito, il più delle volte, con il determinare una situazione quanto meno anacronistica e paradossale il cui unico sbocco non poteva che essere una sorta di improduttivo « braccio di ferro»: ciascun gruppo, infatti, si sentiva implicitamente impegnato più che

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altro in una battaglia ideologica, quasi che si trattasse di difendere una posi-zione ereditata e non già di intervenire, comunque, in una società, che a viva voce richiedeva ci si occupasse di essa: non a caso, a molti di noi fece un indubbio effetto — ed eravamo già nel 1954! — il disperato grido di allarme lanciato da Danilo Dolci quando pubblicò il suo primo « rapporto dalla

Sici-lia » con l'espressivo e significativo titolo di Fare presto e bene perché si muore.1

Ma credo sempre più che un tentativi di chiarimento sulle ragioni che erano all'origine di quelle diverse posizioni — sempre ammesso che fossero state assunte in buona fede e non già con il riposto o esplicito disegno di impedire il naturale corso della storia — non debba avvenire sulla base di elementi con-tingenti o, peggio, delle posizioni politiche assunte da ciascuno, quanto invece, cercando di interpretare la cultura dominante della nostra società, che, in ultima analisi, aveva determinata una particolare Weltanschauung nell'Italia degli anni '50.

Nel desiderio, anzi, di rendere il più esplicito possibile il mio pensiero — e, quindi, la mia posizione —, non ritengo sia opportuno insistere troppo nella spiegazione che spesso è stata data — ed anche giustamente, del favore che, almeno in un certo ambiente, ha saputo riscuotere, proprio in quegli anni, lo sviluppo di comunità. E' verissimo, infatti, che quanti di noi non esitarono a dichiararvisi favorevoli sin dagli inizi provenivano da una vissuta esperienza della lotta antifascista e, quindi, da una dichiarata opposizione ad una certa società, ma è anche vero che non tutti eravamo ugualmente d'accordo sul tipo di società, che avremmo voluto contribuire ad edificare. Le ragioni intime di questo disaccordo non possono, ovviamente, essere rintracciate solo nel diverso atteggiamento politico ed ideologico degli italiani di quegli anni — sarebbe, anzi, molto interessante cercare di ricostruire a posteriori i motivi, che portarono molti di noi a militare ufficialmente in questo o quel partito o, quanto meno, ad aderire idealmente, pur senza dar luogo ad un'attiva milizia negli stessi —, ma, piuttosto, nel differente grado di immedesimazione di ciascuno di noi con la cultura italiana e, ancor più, nella maggiore o minore capacità di contestarne quei valori, che non potevano più oltre essere ritenuti validi.

Ed ecco, quindi, che i motivi e gli obiettivi di questa « ricerca » — che sarebbe tempo di impostare — si arricchiscono e richiamano maggiormente il nostro interesse. Il che è tanto più vero quanto profonde e radicali sono state le tra-sformazioni subite, nel frattempo, dalla nostra società. E' evidente, infatti, che una simile analisi, fatta oggi, a più di venti anni di distanza, non potrebbe che acquistare un diverso valore e significato: l'essenziale, comunque, consiste sem-pre nel ricordare, il più esattamente possibile, cosa e chi eravamo nonché quale era la nostra « cultura » di quegli anni.

D'altra parte, non può essere nemmeno dimenticato che, prevalentemente per queste condizioni, fu proprio intorno al concetto di « sviluppo comunitario » che venne a costituirsi, in quel periodo della nostra storia, quanto, in altra

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sede,2 non ho esitato a definire come un « movimento di opinione » o,

addi-rittura, un « movimento culturale ».

Da ciò, ancora, un ulteriore elemento a favore di una « ricerca », che intenda, con il distacco proprio dovuto alle analisi scientifiche — tanto più se riferite al passato —, chiarire le condizioni che resero possibile il sorgere, il manifestarsi ed il perdurare di quel movimento culturale nonché il ruolo da esso svolto nella nostra storia più recente.

Fin dall'inizio, quando si cercò di impostare la trattazione di questa « nota storica » apparve possibile affrontare il tema seguendo un duplice taglio: quello, per intenderci, dei « problemi » e quello, se si vuole, « cronologico ». Seguendo il primo, infatti, ci sarebbe stato più facile enucleare, nella realtà italiana, alcuni fatti più importanti, che, secondo noi, avevano avuta non poca influenza nel determinare gli avvenimenti successivi. Del resto, è fuor di dubbio che questi « problemi » si sono manifestati molto spesso successivamente, in-terpretando le singole situazioni nonché gli stati d'animo ed il rapporto di forze ad esse conseguenti: il che — come è facile prevedere — introduce e giustifica ampiamente anche l'altro taglio.

Una loro grossolana e generica individuazione potrebbe, forse, essere cosi schematizzata:

(a) la presa di coscienza di un'articolazione della nostra realtà, e quindi la necessità di procedere ad una più esatta indivi-duazione delle diverse componenti al fine di mettere in risalto le relative problematiche;

(b) le diverse esperienze, più o meno esplicite, dei primi tenta-tivi di pianificazione come premessa all'attuale politica di piano;

(c) l'attuazione di interventi straordinari, in particolare nel Mezzo-giorno, ed il loro rapporto con quelli ordinari;

(d) la partecipazione delle iniziative private, in particolare attra-verso i progetti di sviluppo comunitario, e dei gruppi di opinione al processo di trasformazione della nostra società; (e) il manifestarsi di alcune modifiche strutturali e le loro

impli-cazioni;

(/) le diagnosi e la loro non utilizzazione, come effetto dell'ina-deguatezza della ricerca, ma anche del mancato rapporto tra ricercatori e policy makers;

(g) l'aggravamento della non comunicazione tra questi, che rende sempre più difficile valersi delle diagnosi e, comunque, un coordinamento dell'azione;

(h) il sorgere della necessità di una più specifica formazione del personale a diversi livelli e con diverse finalità;

(t) il concretizzarsi di alcuni provvedimenti legislativi ed il loro porsi nei confronti delle situazioni reali fino all'adozione del

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L'altro approccio, a sua volta, — quello, cioè, definito « cronologico » —• potrebbe, grosso modo, articolarsi in cinque periodi sufficientemente caratte-ristici e caratterizzanti:

(a) quello della ripresa di un discorso democratico e del compi-mento dell'opera di ricostruzione: ossia il periodo delle spe-ranze e delle buone intenzioni, dal 1945 fino alle soglie degli anni '50; »

(b) quello dei primi interventi straordinari mentre continuavano ancora gli studi ed i tentativi di diagnosi (1950-55);

(c) quello nel quale più massicciamente si è delineato il processo di trasformazione della società italiana, rendendo, contempo-, raneamente, più palese e manifesto il conflitto in atto tra la società reale e quella ufficiale (1955-1962);

(d) quello che coincide con l'andamento sfavorevole della nostra congiuntura e con il conseguente arresto nello sviluppo eco-nomico ed i relativi ripensamenti (1962-1964);

(e) quello, infine, nel quale si è realizzato più concretamente, un nuovo indirizzo politico e nel quale i policy makers fini-scono con l'accettare l'impostazione data dai tecnici, adottando i criteri di una politica di piano (dal 1964-65 in poi). Naturalmente, come ho già detto, è fin troppo chiaro che i due modi di af-frontare il tema tendono, molto spesso, con il convergere: infatti, non vi è alcun dubbio che anche l'individuazione successiva dei problemi finisce, in sostanza, con il coincidere con la seriazione cronologica, tanto che, forse, potrebbe ten-tarsi perfino una fusione di questi due schemi di ricerca.

Allo stato attuale, comunque, ritengo di dover lasciare ad altri questo com-pito — il cui risultato potrebbe essere rappresentato proprio da un quadro di sintesi di questi anni così come si sono manifestati nella nostra realtà — e di potermi limitare all'indicazione più particolareggiata di alcuni degli elementi, che ho creduto opportuno individuare come caratterizzanti, conservando, al tempo stesso, la duplice classificazione.

Alcuni dei problemi da tenere presenti

L'articolazione della realtà italiana e il caso particolare del Mezzogiorno. Uno degli aspetti di gran lunga più importanti, mi sembra sia quello della necessità di articolare la realtà italiana nelle sue diverse componenti territo-riali, settoterrito-riali, culturali e politiche.

E' indubbio, infatti, che l'avventura fascista ha colpito il nostro Paese in uno dei momenti più delicati della sua storia e della evoluzione europea, ed ha interrotto un processo di integrazione delle sue diverse realtà — e di queste con il resto del mondo —, che, sola, avrebbe potuto portare a quella

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costruzione di una società e di uno Stato unitari, che in realtà è mancata: da ciò l'aggravarsi delle tradizionali dicotomie, presenti nel nostro sistema, nonché il progressivo incancrenirsi di particolari situazioni patologiche.

Troppo spesso siamo portati a dimenticare che, sancita formalmente, nel 1861, l'unificazione politica dello Stato italiano, la nostra società ha dovuto, succes-sivamente, subire tutta una serie di eventi che non possono non aver influito negativamente su di essa: dalla « grande emigrazione » degli ultimi anni del secolo scorso alla guerra di Libia, al conflitto del 1915-18 e, infine, alla parentesi ventennale del fascismo con tutte le sue implicazioni sia sul piano interno che su quello internazionale. E non a caso, del resto, molti hanno creduto di poter spiegare lo stesso avvento del fascismo, tra l'altro, anche come la conseguenza più o meno diretta di una più vasta crisi nella quale era caduta, nel primo dopoguerra, la società italiana con tutte le sue istitu-zioni, a partire, si intende, dal suo regime parlamentare.

Fu, quindi, inevitabile che venissero soffocate o, quanto meno, disattese le voci di quanti, tesi a conseguire l'obiettivo di costruire una Italia civile e moderna, avevano, appunto, sottolineata l'esigenza di tener conto delle sue diverse realtà perché il nuovo Stato potesse superare le sue tradizionali e persistenti differenze e darsi una diversa e più solida consistenza.

Ciò è stato tanto più vero proprio per la più evidente delle nostre dico-tomie — il contrasto tra Nord e Sud — e per la sorte toccata ai nostri « meri-dionalisti », visto che il fascismo non esitò a dichiarare ormai chiusa e supe-rata ogni e qualsiasi questione meridionale. E per meglio valutare la gravità del clima venutosi a creare a tal riguardo, basterà ricordare che perfino autori non certo tra i più sospetti non esitarono ad esprimersi in tal senso, seguendo le suggestioni del regime dell'epoca: «Tuttavia, di una "questione meridionale" non si può più, oggi, legittimamente parlare: e perché tante differenze sono scomparse e perché ormai sono in piena attuazione i prov-vedimenti del governo fascista che mirano, intenzionalmente, a elevare il tono dell'Italia agricola specialmente meridionale. Ma più ancora, perché ogni traccia di contrasto, di antagonismo, ogni senso di interessi diversi, sono scomparsi dagli animi per la fusione operata dalla guerra mondiale e

dal fascismo ».3

E' un dato di fatto, dunque, che nonostante le retoriche affermazioni in contrario, gli eventi che venivano svolgendosi nel nostro Paese, anzicché favorire, attraverso una realistica e responsabile presa di coscienza delle dif-ferenze esistenti, il processo di unificazione, fecero sì che il solco si appro-fondisse sempre più e che i problemi si aggravassero oltremodo. Ne è deri-vato, allora, che l'evidenza di questo nuovo approccio r.el considerare la realtà italiana venne maggiormente messa in rilievo proprio dal riproporsi, nella nostra cultura e nella vita politica, della questione meridionale,

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pre-sentata non già come un problema regionale, ma piuttosto come il più impor-tante dei problemi del secondo dopoguerra.

Non a caso, infatti, i venti anni esatti che intercorrono tra 1'« Appello ai meridionali », apparso in Rivoluzione liberale (2 dicembre 1924), ed il / Convegno di studi sui problemi del Mezzogiorno (Bari, 3 dicembre 1944) coincidono quasi esattamente con la parentesi nera del fascismo: il che sembra voglia sottolineare il collegaménto ideale tra l'Italia democratica pre-fascista e quella risorta attraverso la lotta antipre-fascista e la resistenza parti-giana in una continuità di pensiero e di azione. L'azione meridionalista, appunto.

Poiché sono fermamente convinto — e non solo per essere io stesso dionale e, se non altro per appartenenza ad una « scuola », anche « meri-dionalista » — che il problema « Mezzogiorno » ha avuto, tuttora conserva, un'estrema importanza, è fin troppo ovvio che consideri come punto di par-tenza di questa mia analisi proprio il Convegno di Bari del 1944.

L'importanza della questione meridionale, infatti, non va ritrovata solo e tanto nel fatto di aver saputo proporre all'opinione pubblica italiana ed agli studiosi, in genere, l'urgenza di affrontare con mentalità e responsabilità moderne la tematica degli squilibri territoriali e delle aree sottosviluppate — che, del resto, costituisce uno dei capitoli più impegnativi dello sviluppo economico e sociale in ogni parte del mondo — e, quindi, dei nuovi rap-porti da istituire tra l'agricoltura e gli altri settori di attività economica (superamento, cioè, degli squilibri settoriali), quanto, invece, e soprattutto perché è proprio al Mezzogiorno, ed a tutte le realtà ad esso assimilabili, che meglio può adattarsi l'intervento, appunto, dello « sviluppo comunitario ».

Al Convegno di Bari, dunque, oltre a riprendersi un vecchio discorso — portato coraggiosamente avanti, nel tempo, da quelle che Manlio Rossi-Doria individuò, in quell'occasione, come le tre successive generazioni di meridionalisti, facenti rispettivamente capo a Giustino Fortunato, a Gaetano Salvemini ed a Guido Dorso — si ebbe anche l'inizio della « quarta gene-razione » — quella, appunto, di Rossi-Doria — che sarebbe stata la prota-gonista degli anni '50 e che avrebbe avuto il compito di formare i meridio-nalisti di oggi e degli anni '70.

Gli elementi concreti di questo rilancio della questione meridionale pos-sono essere ampiamente ritrovati nelle due relazioni presentate a quel Con-vegno, quella, cioè, su « La classe dirigente dell'Italia meridionale », dovuta

a Guido Dorso,4 e quella di Rossi-Doria su « La terra, il frazionamento

e il latifondo ».5 E gli obiettivi di quell'impresa, che si muoveva all'insegna

della « rivoluzione meridionale » di Dorso, furono esemplarmente indicati dallo stesso Rossi-Doria nella premessa alla sua relazione, quando disse che « Per giungere al fondo dei problemi economici e tecnici del Mezzogiorno, bisogna, quindi, fare lo stesso passo che Guido Dorso ha fatto nella analisi

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dei suoi aspetti storici, politici e sociali: bisogna, cioè, analizzare le ragioni profonde di quel circolo vizioso (del sistema politico italiano), cercandole nella struttura sociale del Mezzogiorno, nella struttura della sua agricoltura ».

In altri termini, per quanto riguarda l'articolazione della realtà meridio-nale — che, come si è visto, sembra possa essere assunta come riferimento territoriale, economico, politico e sociale per questa ricerca — sarà bene Cominciare proprio da quella prima classificazione — che individuava un Mezzogiorno latifondistico, sia contadino che capitalistico, ed un Mezzo-giorno « alberato » o ad agricoltura intensiva — per passare, poi, alle suc-cessive, che non contraddicono affatto questa, ma, anzi, la specificano meglio alla luce di più approfondite analisi e prendendo atto del mutare delle situazioni oggettive fino ad arrivare a quella, ormai più famosa, della con-trapposizione tra « osso » — ossia il Mezzogiorno interno e povero — e « polpa », cioè le aree di agricoltura intensiva ed irrigua dove possono aversi anche manifestazioni di sviluppo extra-agricolo.

Disaggregazione del Mezzogiorno, che, con diverse motivazioni e partendo da un diverso angolo visuale, portò Giorgio Ceriani-Sebregondi ed i suoi collaboratori della SVIMEZ ad individuarvi tre fondamentali tipi di aree: di

«sviluppo integrale», di « sviluppo ulteriore » e di «sistemazione».6 Laddove

con queste espressioni si tendeva, grosso modo, ad indicare rispettivamente le seguenti realtà:

— quella delle aree aventi un rapporto tra popolazione e risorse potenzialmente favorevole all'avvio di un processo di svi-luppo;

— quella delle aree caratterizzate, invece, da un'alta densità di popolazione accompagnata, però, da « una dotazione di risorse tecniche relativamente elevata e concentrata » tale da rendere possibile, appunto, uno « sviluppo ulteriore » ;

— quella, infine, comprendente tutta la rimanente parte del ter-ritorio meridionale per la quale non sembra sussistano pro-spettive di sostanziale sviluppo.

Quest'ultima realtà, a sua volta, fu, sulla base di ulteriori studi, ancora distinta in aree di « sistemazione vera e propria » — cioè per le quali era pensabile che si potesse conseguire, con modesti interventi, un nuovo equi-librio, principalmente per quanto riguarda il rapporto tra popolazione e risorse, sì da aversi le condizioni per lo svolgersi di una vita civile — ed aree di « ricostituzione », ossia nelle quali — soprattutto per effetto della emigrazione — si sarebbero resi necessari più radicali interventi tecnico-culturali, sì da consentire la creazione ex novo di un nuovo sistema di vita e l'affermarsi di strutture sociali ed economiche profondamente diverse.

In ogni modo — ed indipendentemente dalle differenti classificazioni alle quali si può far ricorso — siamo, ormai, pervenuti a disporre di elementi

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diagnostici più che sufficienti per poter interpretare le numerose diversifi-cazioni, rilevabili nel nostro Mezzogiorno, anche e soprattutto in funzione di una politica di intervento. Ma non vi è alcun dubbio che resta pur sempre di gran lunga più importante la contrapposizione di fondo tra « zone

interne povere » — l'ampio « osso » di cui alla classifica di Rossi-Doria o(

se si vuole, le « aree di sistemazione » di cui alla tipologia della SVIMEZ — e « zone litoranee di sviluppo » — la « polpa » di Rossi-Doria e le due aree di sviluppo « integrale » ed « ulteriore » della SVIMEZ — per indicare sche-maticamente la problematica che ancora si presenta nelle regioni meridionali: interventi prevalentemente socio-culturali e di sostegno, nelle prime, tendenti a favorire il ristabilirsi di una vita civile, laddove, invece, nelle seconde dovrebbero essere preferiti processi più complessi di intervento che integrino sia gli aspetti tecnico-economici che quelli socio-culturali.

E' un dato di fatto, comunque, che, proprio grazie a questa maggiore e più aderente conoscenza della realtà meridionale, la discussione sui diversi tipi di intervento può oggi svolgersi su di un piano più concreto e maggior-mente documentato. Senza contare che, in qualche caso, ciò potrebbe anche agevolare non poco il trasferimento di queste esperienze in altri ambienti, in qualche modo assimilabili al nostro Mezzogiorno: il che rappresenta un ulteriore elemento di interesse di questa problematica.

Alcune considerazioni sulle diverse politiche di intervento.

In questo secondo paragrafo, credo possano essere raggruppati alcuni degli aspetti problematici prima indicati, che potrebbero — se non altro per como-dità di comprensione — essere individuati come i problemi attinenti alle diverse politiche di intervento.

Il primo, perlomeno in ordine logico, di questi problemi, mi pare sia quello relativo al momento conoscitivo della nostra realtà e dei suoi rapporti con i centri decisionali.

Trattasi, in altri termini, di un tentativo di tracciare la storia delle nume-rose iniziative — sia pubbliche che private — nel campo degli studi per la pianificazione di una politica di intervento: dalle prime esperienze dei « piani territoriali», curati dalla SVIMEZ, a quelli «regionali di coordinamento», promossi dal Ministero dei Lavori Pubblici, a quelli « comunitari », voluti da Adriano Olivetti, od a quelli più dichiaratamente « economici », organiz-zati dal Ministero dell'Industria e del Commercio.

Il filo conduttore di tutti gli esempi, avutisi nel corso di un arco di tempo suffi-cientemente ampio, potrebbe forse essere individuato in alcuni pochi elementi di un certo interesse, tra i quali ritengo di dover sottolineare almeno questi:

(a) l'aspirazione, in alcuni, — sia singoli studiosi che enti o, ma in misura minore, gli stessi policy makers — di avviare un processo per cui fosse, al tempo stesso, resa più possibile

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una maggiore conoscenza delle nostre diverse realtà, predi-sporre degli strumenti istituzionali, o, quanto meno, istituzio-nalizzabili entro breve termine, da poter utilizzare per orga-nizzare le necessarie attività di studio ed analisi e, non ultimo, agevolare la messa a punto di più idonee e congrue meto-dologie di indagine;

(b) la costante e crescente pressione, esercitata in particolare su alcuni centri decisionali, da specifiche categorie di tecnici e studiosi, sia tradizionali ed ormai affermati, come gli econo-misti, che, ancor più e con maggior aggressività, di recente comparsi nel nostro ambiente accademico e scientifico, quali gli urbanisti ed i sociologi, perché si venissero a determinare le condizioni idonee per promuovere e finanziare tutta una serie di ricerche ed analisi, alcune delle quali del tutto nuove rispetto alla nostra tradizione culturale;

(c) la posizione interlocutrice — anche se, talvolta, sospettabile di strumentalizzazione — assunta da una parte, almeno, della classe politica e dirigente nei confronti di questi strumenti di indagine e dei relativi organismi di studio;

(d) la non sempre chiara ed organica visione del quadro d'insieme, con il negativo effetto di dar luogo, il più delle volte, ad un disordinato proliferare di iniziative anche molto simili tra loro, sì da determinare un ingiustificato dispendio di mezzi e di energie: in questa prospettiva vanno viste, per esempio, le duplicazioni dovute, molto spesso, a conflitti di competenza tra differenti ministeri o, in misura minore, tra diversi enti ed istituzioni.

Per quanto negativo possa essere il giudizio da esprimersi a posteriori su queste prime esperienze, ritengo non debbano essere del tutto ignorati o sottovalutati alcuni aspetti indubbiamente positivi: primo tra tutti, il merito di aver molti-plicato le occasioni di una più diretta presa di contatto con almeno i maggiori problemi della nostra realtà (quali, per esempio, l'utilizzazione delle risorse, l'assetto territoriale, gli aspetti demografico-sociali e di habitat delle diverse aree, le condizioni esistenti per le strutture produttive e le infrastrutture nonché le loro prospettive, ecc.); quindi l'avvio di un maggior coordinamento e di una più proficua integrazione tra i differenti approcci allo studio della società ita-liana e delle sue componenti, che ha contribuito non poco nel favorire la ricerca

interdisciplinare ed il lavoro d'équipe in contrapposizione alla precedente pre-valenza di studi individuali e monografici; nonché, infine, l'opportunità offerta a tecnici e studiosi di iniziare, anche in Italia, la sperimentazione di nuove tecniche di indagine e, al tempo stesso, di continuare a lavorare intorno alla elaborazione teorica dei modelli di sviluppo, che, in ultima analisi ed a lungo termine, avrebbero finito con l'agevolare l'accettazione, anche da noi, dell'ap-proccio della programmazione per pervenire alla formulazione di « piani quin-quennali ».

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L'esame di queste iniziative e delle relative esperienze andrebbe opportuna-mente approfondito, cercando di mettere nel giusto risalto i legami esistenti tra i vari esempi e riferendo questi sempre allo specifico momento politico nel quale si venivano verificando. In molti casi sarà facile far risalire la loro origine all'esplicita volontà di un ministro, di un determinato uomo politico di un gruppo, laddove, in altri, potrà aver maggiormente giocato l'influenza dell'ambiente accademico e professionale o, ancor più, quella di particolari condizioni ambientali.

Nello sfondo di una simile analisi, d'altra parte, dovrà sempre essere tenuto presente il ruolo giocato, spesso, dal conflitto di competenza — talvolta latente e all'altra manifesto — esistente, per esempio, tra il Ministero dei Lavori Pub-blici (ed i Provveditorati regionali alle opere pubbliche, suoi organi periferici) e quello dell'Industria, Artigianato e Commercio (con le provinciali Camere di commercio e le relative unioni regionali ed inter-regionali) nonché quello che veniva a determinarsi tra le rispettive Commissioni di studio, nonostante che di queste facessero parte, molte volte, le stesse persone.

Un primo quadro della situazione — almeno per quanto riguarda più diret-tamente il lavoro compiuto dai Comitati regionali per il piano di coordinamento territoriale — fu presentato al Congresso di urbanistica, promosso dall'INU a

Venezia nel 1952.7 Da esso, infatti, risultarono alcuni punti essenziali che non

andrebbero sottovalutati, quali, per esempio, l'estrema differenza qualitativa tra gli studi compiuti nelle regioni più sviluppate e quelli, invece, relativi a realtà territoriali meno favorite; l'adozione di procedimenti e di metodologie difficilmente confrontabili, sì da rendere quasi impossibile un coordinamento su scala nazionale o, quanto meno, inter-regionale; l'accentuazione dell'aspetto urbanistico, economico o sociologico in funzione della composizione dei Comi-tati di studio e, in particolare, dell'esistenza o meno di specifiche personalità nel gruppo; la consistenza della tradizionale impostazione degli studi a fianco, invece, a tentativi estremamente arditi di innovazione: il che, certo, non fa-vorì l'accettazione di questo strumento da parte della burocrazia ministeriale, delle organizzazioni locali o della stessa opinione pubblica; la tendenza a fa-vorire il sorgere di gruppi professionali « commercialmente » orientati, con il conseguente pericolo di studi prodotti in serie, sempre più scarsi di riferimenti alle realtà concrete; non ultimo, il protrarsi delle fasi di rilevazione ed elabora-zione dei dati sì da aversi i risultati quando la situaelabora-zione reale era sostanzial-mente mutata o, peggio, sì da non pervenire affatto alla fase conclusiva.

Un quadro, come si vede, alquanto contraddittorio: se, da una parte, questo periodo è valso a far accettare il principio che era necessario impostare una seria attività di ricerca e di studio delle differenti realtà e, contemporaneamente, ha stimolato gli studiosi ad interessarsi dei problemi della pianificazione, dall'al-tra, ha comportato una mobilitazione di forze ed un dispendio di mezzi e di energie, che. oggi, possono senz'altro essere giudicati come sproporzionati

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ri-spetto ai risultati concreti conseguiti. Troppo spesso, infatti, perfino nelle re-gioni maggiormente studiate ci si è venuti a trovare di fronte ad un'impressio-nante carenza di studi e piani prontamente utilizzabili per dar corso ad interventi operativi.

L'altro problema, che meriterebbe una maggiore attenzione, potrebbe essere indicato nel ruolo svolto nell'Italia degli anni '50 da alcuni interventi straor-dinari e dal loro rapporto con l'attività orstraor-dinaria dell'amministrazione statale.

L'aspetto centrale di questo problema, ovviamente, è rappresentato dalla isti-tuzione di un organismo speciale per l'esecuzione, appunto, di interventi straor-dinari nel Mezzogiorno, la Cassa per il Mezzogiorno, prevista dalla Legge n. 646 del 10 agosto 1950, nonché dalle provvidenze di cui alla Legge n. 647, sempre del 10 agosto 1950, che estendeva l'attività di questo ente anche alle aree depres-se del Centro-Nord, e dalla costituzione di uno specifico Comitato dei Ministri.

Non è certo questa la sede per riesaminare criticamente i precedenti di questa scelta politica nè i risultati avutisi finora: basterà, forse, notare che la serie successiva dei rilanci dei programmi di attività della Cassa hanno fatto registrare anche dei sensibili mutamenti nella sua impostazione, man mano che da un generico e diffuso intervento di pre-industrializzazione ci si veniva orientando verso iniziative più specifiche e concentrate, dirette prevalentemente alla tra-sformazione irrigua dell'agricoltura, all'apprestamento delle necessarie strutture per rendere più efficiente la commercializzazione e distribuzione dei prodotti agricoli, all'industrializzazione (con la creazione di « poli » e « nuclei » da dotare convenientemente di tutte le infrastrutture indispensabili per rendere possibile l'auspicato insediamento di nuove attività produttive), alla valorizza-zione delle zone turistiche e, più genericamente, di tutte le risorse esistenti nel Mezzogiorno nonché, infine, alla formazione del «fattore u m a n o » .

E' un dato di fatto, del resto, che, qualunque possa essere il giudizio da for-mulare su questo Ente e sulla sua attività si devono obiettivamente riconoscere, in questa esperienza, alcuni elementi di indubbia validità:

(a) la realizzazione, per la prima volta nella storia del nostro Paese, di una scelta politica che avesse il coraggio di porsi come obiettivo principale l'intervento coordinato in un'area così vasta per accelerare lo sviluppo e, in tal modo, creare le premesse per la soluzione dell'annosa questione meridionale, previo il superamento dei noti squilibri nei confronti delle regioni più favorite del Nord: in altri termini, si abbandonava il criterio tradizionale degli interventi particolari — promossi da specifiche leggi speciali per lo più a carattere regionale — e si decideva, invece, di dar luogo ad un intervento globale ed unitario, che per le sue dimensioni, e ancor più per 1 suoi criteri ispiratori, avrebbe dovuto costituire un efficace strumento di rottura;

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(b) l'accettazione, da parte dei policy makers, del principio innova-tore dell'impossibilità di provvedere ad interventi straordinari, che avrebbero dovuto sottolineare questo carattere di rottura, da una parte, e, al tempo stesso, rappresentare un avvio alla modifica dell'atteggiamento dello Stato nei confronti di alcuni problemi del Paese, dall'altra;

(c) l'impostazione — nel rispetto di una maggiore efficienza e ricorrendo a tecniche più moderne — di una più accurata attività di analisi delle diverse situazioni sì da poter fornire ai funzionari preposti quanto necessario per dar luogo ad interventi operativi sufficientemente diversi da quelli tradi-zionali;

(d.) l'adozione di più agili criteri nell'istruttoria dei singoli pro-getti, nella loro attuazione e collaudo nell'intento di ovviare i normali inconvenienti procedurali, propri dell'amministra-zione ordinaria dello Stato;

(e) l'assicurazione di un più diretto ed immediato controllo del-l'attività svolta valendosi di un Consiglio di amministrazione a base sufficientemente rappresentativa sia degli interessi locali che delle diverse posizioni politiche.

Ma l'elemento di gran lunga più importante credo sia costituito proprio dal fatto che l'esistenza della Cassa per il Mezzogiorno — e, ancor più, le discus-sioni che ne hanno preceduto la istituzione — ha rappresentato, e tuttora rap-presenta, il più valido strumento per il rilancio della questione meridionale nella politica e nella cultura italiana, imponendo a ciascuno di partecipare al dibat-tito — politico e tecnico — che si è venuto a determinare e che, di volta in volta, ha finito con il toccare i problemi cruciali della società italiana.

Laddove, invece, l'esperienza della Cassa ha fatto registrare le maggiori perplessità è stato proprio nella constatazione che, per una serie di motivi e cir-costanze, con l'andare del tempo l'intervento straordinario ha finito, molto spesso, con il diventare sostitutivo di quello ordinario, e non già integrativo, come era nelle intenzioni del legislatore e di quanti avevano sostenuto questa politica. Secondo alcuni ciò andrebbe imputato ad un non sufficiente impegno della classe politica nel proseguire l'obiettivo dello sviluppo del Mezzogiorno e, quindi, nel difendere quanto vi era di peculiare, originale ed interessante in questo primo esperimento di intervento programmato; secondo altri, il tutto dovrebbe ricondursi ad un prevedibile atteggiamento dell'amministrazione ordi-naria dello Stato, ovviamente resistente alle innovazioni, in genere, ed ancor più a quelle che potevano interferire con la sua attività.

Un terzo problema — che a molti può apparire, oggi, alquanto marginale al tema di questa « nota », ma che mi sembra, nonostante tutto, conservi ancora un suo significato — è quello dell'intervento di riforma fondiaria, le cui leggi — rispettivamente del 12 maggio 1950, n. 230 (Legge Sila) e del 21 ottobre 1950,

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n. 841; (Legge stralcio) — sono contemporanee a quella dell'agosto dello stesso anno, che istituiva la Cassa per il Mezzogiorno.

Il significato, infatti, di quest'altro intervento può, se non altro, essere ritro-vato almeno in questi elementi:

(a) l'ulteriore riprova dell'esistenza, agli inizi degli anni '50, di un determinato clima politico, che favoriva l'impostazione di questi provvedimenti, manifestando in forme legislative un certo orientamento sicuramente coraggioso ed interessante; (b) le implicazioni di rottura rispetto al passato, rinvenibili in

esso, indipendentemente da un'analisi più attenta delle diverse motivazioni che avevano portato all'approvazione delle leggi

relative;

(c) la possibilità di avviare una serie di altri interventi nell'agri-coltura italiana — ed in modo più che prevalente proprio

nelle regioni meridionali — sì da mettere in moto quello che, successivamente, verrà definito come il più profondo e radicale « processo di trasformazioni economico-sociali » avutosi nella società italiana: in questo senso vanno visti, soprattutto, gli aiuti offerti alla bonifica e trasformazione fondiaria, alle modifiche negli insediamenti della popolazione rurale (con gli interventi di colonizzazione e la costruzione di numerosi bor-ghi) e, ancor più, al momentaneo soddisfacimento — anche se parziale — di quella tradizionale « fame di terra » che aveva rappresentato la caratteristica dominante di gran parte della nostra società rurale;

(d) l'impostazione di un più organico e capillare programma di assistenza tecnica e creditizia alle nuove aziende, soprattutto ponendo a disposizione delle zone interessate — per la prima volta — un ingente numero di tecnici e di mezzi quali mai erano stati disponibili in altri periodi.

Ovviamente, anche altri elementi potrebbero essere considerati, con altrettanta legittimità e con non minore interesse per l'esame critico di questa particolare esperienza. A me, in questa sede, interessa sottolineare l'importanza avuta nel concorrere a determinare quell'azione meridionale che, più realisticamente, avrebbe dovuto sostituirsi all'utopistica « rivoluzione meridionale » di Dorso e, quindi, creare un particolare clima nel quale riproporre la questione meridiona-le, accentuandone, semmai, alcuni termini fondamentali più strettamente col-legati alla struttura stessa della nostra società. Clima che, comunque lo si voglia giudicare, specie nei risultati conseguiti, ha senza alcun dubbio avuto il merito di avviare un processo di rinnovamento e di modernizzazione della società ita-liana — e di quella meridionale, in particolare; ha saputo mobilitare delle forze politiche e delle energie e, in sostanza, ha conferito un certo carattere agli anni '50, che non potrà essere mai dimenticato da quanti hanno avuto la

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ventura di trovarsi coinvolti. Se non altro, ha aiutato molti di noi a meglio digerire la delusione derivante dall'impossibilità — o dall'incapacità, — di perpetuare i « sogni » della Resistenza alla ricerca di soluzioni assai più radicali.

Un quarto problema — che, però, sfiorerò appena, solo per indicare le sue correlazioni con gli ultimi due — è costituito dalla tremenda esperienza del-l'emigrazione. »

Anche qui, lasciando ad altri il compito di esprimere un giudizio di sintesi che tenga nel giusto conto tutti indistintamente i fattori in gioco, credo che vada particolarmente sottolineata la sua funzione di rottura nei confronti di una situazione, che appariva patologicamente cristallizzata e senza alcuna speranza di soluzione. E' un dato di fatto che, grazie ad essa, si è cominciata a delineare, anche per le zone più arretrate del nostro paese, una realistica possibilità di ristabilire un efficiente equilibrio tra popolazione e risorse, di conseguire con-dizioni di vita più civili, di por mano alla ricostruzione di una società moder-namente civile e, non ultimo, di richiamare l'intero paese alla responsabilità di preoccuparsi dello sviluppo equilibrato di tutte le sue regioni {prime tra tutte quelle meridionali) con un diverso rapporto tra i differenti settori di attività produttiva.

Non è a caso che questa vicenda si è manifestata, nelle sue dimensioni più importanti, proprio negli ultimi anni di questo periodo '50; è infatti con il 1956-57 che i movimenti di popolazione verso altre regioni più sviluppate e, perfino, verso altri paesi assumono una particolare evidenza tra i nostri problemi.

Siamo, così, arrivati agli ultimi due gruppi di problemi — tra i tanti che avrei potuto disordinatamente ricordare in questa sorta di « memorandum per il futuro ricercatore » —, non meno importanti dei precedenti: quelli, cioè, degli interventi più specificamente di carattere socio-culturale e, infine, quelli relativi alla concretizzazione di una politica programmata per lo sviluppo eco-nomico-sociale del paese.

Per quanto riguarda il primo di questi gruppi, credo di potermi limitare ad alcune brevissime considerazioni, che però presuppongono a monte tutta una problematica assai più vasta e complessa, le cui radici vanno ancora una volta ricercate nelle condizioni preesistenti della nostra società.

Una prima considerazione, che ritengo sostanziale, è quella relativa ad una sorta di prevalente sordità — quando non addirittura di diffidenza — delle nostre istituzioni nei confronti di questo tipo di interventi: nel migliore dei casi, infatti, si pensava di poterli affidare al verificarsi spontaneo di iniziative pubbliche e private, non certo inquadrato in una coerente politica e senza alcun rispetto per le evidenti esigenze di una società, che, uscita da un conflitto e da

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un regime dittatoriale, voleva e doveva « ricostruirsi » sotto tutti i punti di vi-sta e, in più, doveva attuare un radicale processo di sviluppo.

Per lungo tempo, infatti, si è vissuti nella convinzione che tutti gli sforzi e tutte le attenzioni dovessero piuttosto essere rivolte alle strutture ed alle infra-strutture: il fattore umano — per usare una bruttissima terminologia, entrata in uso successivamente — avrebbe seguito, adeguandosi ed adattandosi alle esi-genze del sistema.

Da ciò deriva — e potrebbe essere la seconda considerazione — che scarsa cura e limitatissimi mezzi sono stati dedicati alla creazione di strumenti idonei per poter attuare questi interventi: individuazione delle istituzioni da mobilitare e delle correzioni da apportare a quelle già esistenti, formazione ad hoc degli operatori sociali (a tal proposito basterebbe ricordare l'ambigua posizione nella quale sono state lasciate, per esempio, le stesse scuole di servizio sociale ed il mai ottenuto riconoscimento ufficiale della figura dell'assistente sociale), nonché integrazione degli aspetti socio-culturali con quelli tecnico-economici nel quadro di una specifica politica.

Molto probabilmente, una più attenta e critica analisi di questo problema potrà anche portarci a concludere che, tra tutti, questi interventi erano consi-derati come i più scomodi e pericolosi: infatti, se non altro per definizione, essi avrebbero dovuto proporsi di accrescere la partecipazione del cittadino alla vita delle diverse comunità (dal piccolo Comune allo Stato), e ciò avrebbe potuto disturbare oltre misura il sistema. In sostanza, si sarebbe spinti a pen-sare che la società ufficiale accettava solo formalmente il principio di rendere possibile un cambiamento, preferendo la possibilità di avere uno sviluppo — e quindi una trasformazione — più graduale, più controllabile, più raziona-lizzabile, non importa se più costosa — anche e soprattutto in termini di costi umani e sociali —, meno sicura e con un netto carattere paternalistico.

Un'ultima considerazione, infine, cui accennerò di sfuggita, riguarda più direttamente le Vicende dello «sviluppo comunitario» in Italia.

Innanzi tutto non si può negare che, sia pure in assoluta buona fede, è stato frequentissimo l'equivoco di voler includere sotto questa etichetta inter-venti ed intenzioni anche assai diverse tra di loro: con il che non si è certo aiutata quella opera di chiarificazione che pur sarebbe stata indispensabile visto che dalla formulazione teorica si voleva passare all'attuazione. In ciò ha gio-cato un ruolo più che determinante l'averne dovuto mutuare gran parte degli elementi (a partire dalla stessa definizione fino agli obiettivi, le tecniche, la strategia, gli operatori, ecc.) da esperienze straniere, verificatesi in contesti so-cio-culturali e politico-istituzionali sostanzialmente diversi dal nostro, senza aver avuto il tempo necessario per meglio assimilarlo alla nostra cultura e per pro-cedere ad un'opportuna sperimentazione.

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, A conclusione di questo paragrafo, mi corre l'obbligo di soffermarmi lo stretto indispensabile sull'ultimo gruppo dei problemi prescelti: quelli, in altri termini, che confluiscono nel filone generale della programmazione.

Innanzi tutto vorrei ribadire quanto già detto in precedenza: uno degli aspetti più importanti da rilevare mi sembra sia quello del faticoso avvio di un dialogo tra studiosi e tecnici da una parte, policy makers dall'altra.

E' chiaro, infatti, che all'origine di' questa scelta politica — accettazione di impostare lo sviluppo del paese sulla base di un programma, articolantesi in piani quinquennali — è da riconoscersi tutta un'attività di studio e di ricerca avvenuta ai più diversi livelli che non può affatto essere disconosciuta: se non altro essa è stato uno dei contributi più validi che una parte del mondo della cultura ha voluto offrire per affrontare più realisticamente il problema italiano. L'iter di questo processo — e, ancor più, del dialogo con la classe politica — è stato, naturalmente, difficile e discontinuo, non senza esitazioni e ripensa-inenti, con un'inevitabile parte di errori, nonché falsato anche dalla persistenza di alcuni miti e pregiudizi: molto probabilmente poteva essere diverso, ma è un dato di fatto da registrare che esso si è verificato in tal modo e non in un àltrò, tra i tanti possibili. A ciò non è estraneo il contesto nel quale esso si è svolto: e di ciò non si può che prenderne atto.

E' certo, però, che dai primi timidi passi intrapresi dagli esperti della SVIMEZ — molti dei quali furono investiti da più dirette responsabilità in fase di elaboraziotìe dello Schema di sviluppo del reddito e dell'occupazione nel de-cennio 1955-1964, anche conosciuto come « Piano Vanoni » —, dagli studi frammentari nel campo della pianificazione territoriale, dall'avvio dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno e dalla realizzazione della riforma fondiaria fino a giungere al Programma di sviluppo economico per il quinquennio 1966-70, recentemente approvato dal Parlamento, di cammino ne è stato percorso abba-stanza e credo possa registrarsi una maggiore maturità, nell'intera società, a tal riguardo.

In questo caso la futura ricerca potrebbe soffermarsi ad analizzare più atten-tamente i diversi apporti culturali, scientifici, ideologici e politici che hanno finito con il confluire in questo filone e, contemporaneamente, mettere mag-giormente in risalto la natura di ciascuna fase nonché il ruolo da essa giocato Basterebbe, per esempio, nel corso di questa analisi riconsiderare quanto scri-veva Ferrari-Aggradi in una pubblicazione curata dalla Segreteria Generale del

CIR nel 19588 per individuare facilmente una tematica ricca di stimoli. Né

dovrà meravigliare se a dieci anni di distanza si ritrovano, nei due programmi — quello « Vanoni » e quello « Pieraccini » —, sostanzialmente gli stessi obiet-tivi: pieno assorbimento dell'offerta di lavoro, progressiva eliminazione dello squilibrio tra Nord e Mezzogiorno, pareggio della bilancia dei pagamenti; nel secondo, semmai, si possono reperire maggiori accentuazioni in favore di una

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