• Non ci sono risultati.

SVILUPPO E PROMOZIONE DELL’ARTIGIANATO TESSILE TRA ASSOCIAZIONISMO

Nel documento Mani italiane (pagine 188-200)

PARTE II: DALLA PROMOZIONE ALLA PRODUZIONE LA RIQUALIFICAZIONE DEI

2. SVILUPPO E PROMOZIONE DELL’ARTIGIANATO TESSILE TRA ASSOCIAZIONISMO

Già durante la prima metà dell’Ottocento in Italia la partecipazione delle donne alla vita della comunità, e il loro conseguente impegno sociale, culturale e politico, sferzato dalle vicende risorgimentali e dagli ideali mazziniani, vanno incrementandosi1. I mutamenti sociali indotti dal diffondersi dell’industrializzazione porteranno allo sviluppo in Italia di una diffusa attività filantropica svolta dalle donne delle classi agiate a favore di quelle appartenenti alle classi popolari, le quali, con l’ingresso in fabbrica, spesso vedono peggiorare la propria condizione, subordinata in casa e fuori all’autorità maschile. La donna è infatti sempre più impegnata a causa del lavoro esterno che sottrae energie e tempo alla cura dei figli e della casa dove nessuno la sostituisce, ma che pure le permette un maggior contatto con le altre donne e quindi una maggior consapevolezza della propria condizione. Non si tratta di un fenomeno marginale: il fatto che il settore tessile sia tra quelli che in Italia subiscono il maggiore sviluppo2, e che in questo settore, anche grazie ad una più precoce meccanizzazione, sia possibile impiegare manodopera femminile3, più economica, determina a fine secolo una quota di occupati di sesso

1 Cfr. Dora Melegari, La donna italiana, in Operosità femminile… cit., pp. 16-27, dove si traccia dall’interno del nascente femminismo italiano un quadro delle circostanze risorgimentali che portarono alla presa di posizione della donna della vita pubblica, dopo secoli di ritiro domestico. Per un excursus sulle tendenze emancipatrici che si muovono in Italia nel corso dell’Ottocento cfr.

Eugenio Garin, La questione femminile nelle varie correnti ideologiche negli ultimi cento anni, in L’emancipazione femminile in Italia... cit., pp. 19-44.

2 Cfr. Michele Tronconi, Il tessile e abbigliamento nella storia d’Italia, tra preminenza e ricorsività in L’industria nei 150 anni dell’Unità d’Italia. Paradigmi e protagonisti, a cura di Alberto Quadrio Curzio e Marco Fortis, Il Mulino, 201, pp. 443-470: “Parlare di industria italiana significa parlare di industria tessile. Ciò, per lo meno, all’avvio della nostra storia...”. I dati proposti da questo recente studio parlano di una quota di assorbimento occupazionale nel settore tessile pari al 45,7% del totale nel 1871, e del 38,3% nel 1911 (dati tratti da S. Fenoaltea, Peeking Backward: Regional Aspects of Industrial Growth in Post Unification Italy, in “The Journal of Economic History”, n. 4, vol. 63, 2003). Le ragioni della contrazione di questo dato andrebbero ricercate sia nella meccanizzazione sia nella diversificazione delle attività industriali italiane nell’arco di questo quarantennio.

3 Sull’argomento cfr. Roberto Tremelloni, Storia dell’industria italiana contemporanea. Dalla fine del Settecento all’Unità italiana, Torino, Einaudi Editore, 1947, pp. 146 e segg., Simonetta Ortaggi Cammarosano, Condizione femminile e industrializzazione tra Otto e Novecento, in Tra fabbrica e società. Mondi operai nell’Italia del Novecento, a cura di Stefano Musso Milano, Feltrinelli, 1999, pp. 109 e segg., dove peraltro si evidenzia come in realtà le donne operassero nei settori più disparati, addette in genere a mansioni ausiliarie e di minore strategicità, e come fosse difficile per gli studi statistici del tempo giungere ad una cifra attendibile che descrivesse la quota di popolazione femminile che,addetta alle cure domestiche, svolgeva anche lavori di filatura, tessitura, confezione;

Simonetta Ortaggi Cammarosano, Continuità e mutamenti nelle forme del lavoro femminile tra XIX e

184

femminile in questo campo pari a circa la metà del totale4 (fig.1). In questo contesto vanno inseriti gli appelli e l’impegno a riqualificare il lavoro femminile attraverso il recupero delle tradizioni regionali che si succederanno nella seconda metà del secolo;

proporre un’attività che si può svolgere a domicilio non vuole essere strumento di segregazione ulteriore, ma un modo per alleviare le fatiche delle donne delle classi popolari, che pure vanno istruite, messe sempre più in grado di sostenersi e di provvedere ai bisogni della famiglia anche dal punto di vista dell’economia domestica e dell’igiene; una soluzione comunque conservatrice, dettata da fattori culturali5, alla quale si affiancano anche azioni di segno opposto, inserite nel contesto del movimento operaio, che mira invece principalmente a migliorare la condizione di vita in fabbrica e a creare le condizioni per una maggiore consapevolezza dei propri diritti e delle proprie potenzialità attraverso l’istruzione, la partecipazione alla vita associativa, i viaggi6.

XX secolo in M. Antonioli, M. Bergamaschi, L. Ganapini, Milano operaia dall’800 ad oggi, Bari, 1992, 2 voll., p. 45 e n. 28.

4 Secondo i dati del censimento della popolazione effettuato nel 1881, l’occupazione femminile in Italia risultava più alta che in paesi molto più avanzati dal punto di vista industriale ed economico.

Cfr. Nora Federici, L’inserimento della donna nel mondo del lavoro (aspetti economici e sociali) in L’emancipazione femminile in Italia... cit., pp. 93 e segg. Interessanti a questo proposito anche i dati riportati da Anna Maria Mozzoni, provenienti dall’Annuario Statistico (cfr. Operosità femminile…

cit., p. 198):

“Fin dal 1880 nella industria serica lavoravano 15,692 uomini e 120,428 donne.

Nel cotonificio 15,558 uomini e 27,309 donne. Nl lanificio 12,544 uomini e 7765 donne [che secondo il dato proposto poche righe più avanti giungono a 15,081 nel 1894]. Nel linificio e nel canapificio 4578 uomini e 5959 donne. Nella tessitura in materie miste 2185 uomini e 2580 donne...

Né questo fatto fu circoscritto all’Italia – ma lo si constatò in Inghilterra, in Irlanda ed in Francia, dove le donne aumentarono nelle industrie in soli dieci anni del 60%.

In molte industrie anzi la sostituzione delle donne agli uomini fu tale – che le proporzioni numeriche fra gli operai e le operaie ne furono invertite. Nella produzione delle materie prime, ad esempio, gli uomini erano nel 1880 un mezzo milione, cifra tonda, e le donne erano 300 mila. Sette anni soli bastarono perché queste cifre si invertissero, superando anzi le donne il mezzo milione.”

Dati che confortano la predominante presenza delle donne in certi settori industriali, come quello tessile si trovano anche in Vittorio Ellena, Notizie statistiche sopra alcune industrie italiane, Roma, Bertero, 1878, e in Idem, La statistica di alcune industrie italiane, in “Annali di statistica”, s. II, vol.

13, 1880, pp. 1-142.

5 Nel 1891, del resto, Leone XIII afferma nell’enciclica Rerum Novarum che “certe specie di lavoro non si confanno alle donne, fatte da natura per i lavori domestici”.

6 Anche nel contesto socialista la condizione della donna operaia viene stigmatizzata nei termini già enunciati sopra da Anna Kulishoff: da ambo i lati si denuncia la situazione di una donna doppiamente schiava, della famiglia e del capitale (cfr. Anna Kulishoff, Il monopolio dell’uomo, Milano, 1890);

anni dopo rimarcherà tale convinzione, parlando di una donna proletaria “tre volte schiava: nella famiglia, nell’officina, nella società, che le nega ogni diritto politico e la pienezza anche dei diritti civili” (cfr. Anna Kulishoff, Augusto Bebel nel suo settantennio, in “Critica Sociale”, XX, 1910, p.

51). Eppure, il lavoro fuori casa è sentito come un’esigenza imprescindibile già da Anna Maria Mozzoni: “non chiamate lavoro la insignificante direzione di una casa o le industrie di Aracne; le son queste manualità, e dettagli opportuni, e necessari eziandio, ma che non costituiranno mai un essere utile per la società; parlo a voi, donne ricche e colte” (cfr. Anna Maria Mozzoni, La donna nei

185

La connessione tra la vita sociale, la politica femminile e la produzione tessile nell’Italia tra Ottocento e Novecento è dunque piuttosto forte, e non è un caso che il primo Congresso Nazionale delle Donne Italiane, tenutosi nel 19087, ospiti tra gli altri interventi, come vedremo, la proposta di moda italiana di Rosa Genoni. La moda italiana significa in questo contesto prima di tutto lavoro, e non deve dunque apparire come una nota di frivolezza.

Il primo cinquantennio unitario del resto è, per l’industria tessile italiana, un periodo di forte crescita, nonostante un cospicuo ritardo iniziale8, anche grazie alla politica protezionista adottata a partire dal 1887 dallo Stato italiano. Il settore era pervenuto nei periodi medievale e moderno a grandi successi specialmente nell’ambito della produzione di pannilana, sete decorate e velluti, ma anche di merletti, che ne facevano la più naturale area di possibile espansione industriale per l’Italia, ma aveva poi registrato diverse battute d’arresto nello sviluppo di queste produzioni. La supremazia italiana fu infatti scalzata nel XVII secolo dall’impegno della giovane nazione francese a favorire le proprie manifatture, che determinò lo sviluppo delle seterie lionesi e di vari centri che si dedicano alla produzione del merletto. In seguito, a determinare un mutamento dei rapporti di forza fu la meccanizzazione decretata dalla prima rivoluzione industriale, che coinvolse tutte le fasi della filiera produttiva a partire dalla filatura9 fino

suoi rapporti sociali, Milano, 1864, p. 142).

7 Il Congresso, del quale nel corso di questa trattazione si analizzeranno in particolare gli interventi legati al tessile, si tiene nel marzo del 1908 e prevede sei sezioni: Educazione e Istruzione; Assistenza e Previdenza; Condizione morale e giuridica della donna; Igiene; Arte e Letteratura femminile;

Emigrazione.

8 Una visione d’insieme del settore nel primo cinquantennio unitario viene delineata in Elisabetta Merlo, Moda italiana… cit., pp. 13-49. Il ritardo fu in parte dovuto anche al fatto che, nella fase postunitaria, parte della classe politica, costituita in larga misura da proprietari terrieri, fosse più propensa a puntare sullo sfruttamento delle risorse naturali italiane, in particolare sull’agricoltura; un vero decollo si ebbe nel primo decennio del secolo, quando diversi fattori concomitanti resero possibile lo sviluppo di una società industriale, tra i quali l’avvento di una nuova generazione di imprenditori forti di una fitta rete di contatti che coinvolgeva anche l’aristocrazia, sempre più spesso direttamente impegnata in campo industriale, e di una serie di valenti tecnici e scienziati, l’appoggio di alcune banche e quello statale (cfr. Valerio Castronovo, Grandi e piccoli borghesi. La via italiana al capitalismo, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 3-28).

9 La filatura meccanica, applicata in particolare al cotone, divenne realtà quando alla fine degli anni Sessanta del Settecento venne brevettata da James Hargreaves la Spinnig Jenny o “Giannetta” (1764), il primo filatoio meccanico che imitava tutti i movimenti della filatura manuale, adottata per il cotone e la lana, al quale nel giro di pochi anni venne applicata la forza idraulica e poi quella del vapore. Nel 1769 venne perfezionato da Richard Arkwright, che si era già dedicato alla macchina per cardare; le due tecnologie vennero riunite da Samuel Crompton nella Mule Jenny (1779). Essa giunse in Italia nei primi decenni dell’Ottocento. La filatura meccanica attecchì in particolare tra Lombardia e Piemonte, con una vasta concentrazione nella zona di Intra, definita la “Manchester italiana”, dove venne impiantato il primo filatoio meccanico nel 1808; nel 1812 i Ponti fondarono uno stabilimento dotato di “Giannette” a Gallarate, dove nel 1820 anche Costanzo Cantoni fonderà il suo cotonificio, e

186

ad arrivare, con l’invenzione del telaio Jacquard10, ai tessuti operati. In Italia i primi telai meccanici apparvero negli anni Venti in Lombardia, dove il loro uso fu applicato alla lavorazione cotoniera per poi estendersi progressivamente (fig.2 e fig.3).

L’innovazione, non solo tecnologica ed economica ma anche culturale, che tale dispositivo indusse è ben riassunta da un’affermazione espressa da un cronista italiano durante l’Esposizione di Philadelphia del 1876: “Ciò che l’oleografia ha fatto per la pittura, Jacquard...l’ha realizzato per la tappezzeria”11.

Da paese esportatore di prodotti finiti che svolgeva un ruolo trainante nel gusto europeo l’Italia era divenuta nel tempo un esportatore di materie prime e semilavorati. Uno slittamento evidente soprattutto in campo serico, dove la penisola, caratterizzata da un clima particolarmente adatto alla bachicoltura, conta una lunga tradizione di lavoro femminile in filanda12, che si estende fino ai primi decenni del Novecento, ed esporta soprattutto semilavorati. In quest’attività la Lombardia detiene una posizione quasi monopolistica, e la tessitura serica continua a rimanere un’attività vitale nell’area comasca e bergamasca, dove però si pongono in opera di preferenza lavorazioni molto semplici. In questo stesso periodo lo scenario italiano muta anche grazie alla comparsa di un’ulteriore variabile, cioè lo sviluppo dell’industria cotoniera, reso possibile dalla diminuzione dei costi dei filati grazie agli effetti in area inglese della prima rivoluzione industriale. Sarà appunto soprattutto l’industria cotoniera, dove è possibile applicare le conquiste della meccanica, a registrare la crescita più impressionante, a discapito della tradizionale produzione di lino; una crescita tale da indurre il tentativo di una

nel 1821 proprio i Cantoni portarono a Solbiate Olona le Mule-Jenny; nel 1819 adottarono filatoi meccanici anche i Borghi a Varano (Varese). Cfr. La cultura del cotone in Italia e fuori in “Il Politecnico” n. 17, 1863, pp. 261-306; Roberto Tremelloni, Storia dell’industria... cit., pp. 188 e segg.; Tessile e macchina per cucire, a cura di Orazio Curti, Museo nazionale della scienza e della tecnica Leonardo Da Vinci, Milano, 1968, pp. 12 e segg.

10 Il primo telaio meccanico, azionato da energia idraulica, venne brevettato in Inghilterra da Edmund Cartwrigt nel 1785; nel 1890 si giungerà, grazia all’americano John Howard Northrop, al telaio automatico. In Italia le prime importazioni di macchinari, seppure isolate, si ebbero a cavallo tra i due secoli, ma l’applicazione del vapore fu tarda, probabilmente anche a causa della carenza di combustibili fossili (cfr. Roberto Tremelloni, Storia dell’industria... cit., pp. 30 e segg.). Per quanto riguarda i tessuti operati, nonostante innovazioni fossero state introdotte già durante il Settecento, la vera rivoluzione sarà il telaio di Jacquard (1808). Cfr. Tessile e macchina per cucire... cit., pp. 17 e segg.

11 Cfr. “L’Esposizione Universale di Filadelfia illustrata”, Sonzogno, Milano, 1876, pp. 420, 422.

12 Nonostante questo non si può dire che le filande italiane siano tecnologicamente avanzate. Nel 1815 viene infatti messo a punto il procedimento per l’applicazione del vapore alla trattura serica, ma a metà del secolo meno di un ventesimo delle filande lombarde se ne avvalgono (144 su 3088, secondo dati pubblicati in Roberto Tremelloni, Storia dell’industria... cit., pp. 183 e segg.) pur avendo le stesse quadruplicato le esportazioni. Eppure questa innovazione permettebbe di estendere il lavoro anche durante l’inverno, rendendo la produzione continua.

187

coltivazione della materia prima al sud. L’arrivo nella penisola delle macchine non è alieno dal generare, peraltro, diffidenze verso il modello inglese, che, pur rappresentando un’ammirevole “sforzo dell’arte” (Romagnosi) ha generato ricchezza nella nazione dove ha avuto origine, ma anche enormi problemi sociali. Il modello inglese, secondo quanto viene proposto dagli “Annali di statistica”, non va emulato in quanto tale ma innestato sull’industria nazionale, quella serica, più adatta al nostro territorio e alla nostra società. Anche l’imprenditore laniero veneto Alessandro Rossi proporrà la fabbrica come soluzione ai problemi sociali generati dal pauperismo, fondando egli stesso villaggi operai che dovevano fungere da modello13.

Non bisogna dimenticare che, oltre a filatura e tessitura, la meccanizzazione investe anche la produzione di pizzi14 e ricami. Le prime reti per merletto erano state prodotte già al limitare del Settecento: esse venivano poi ricamate, inizialmente a mano, per imitare l’aspetto dei merletti a fuselli, con una tecnica che ebbe un largo impulso proprio grazie a questa produzione. Il telaio per il tulle meccanico venne perfezionato nel 1809 da Heathcoat e Lurdley, quello di Leavers entrò in funzione nel 1814 in Inghilterra, e nel 1833 in Francia viene abbinato ad esso un meccanismo Jacquard che permette di produrre tulles operati. Nei decenni successivi alla sua nascita il merletto a macchina conquista un’eco così vasta che nel 1840 la regina Vittoria si reca all’altare vestendo merletti meccanici inglesi.

Intorno al 1880 si diffonde inoltre un procedimento chimico che permette di riprodurre i merletti ad ago, mediante il trattamento di tessuti molto leggeri precedentemente ricamati con solventi chimici che sciolgono la base d’appoggio.

Per quanto riguarda il ricamo, nel 1847 è il francese Barthelemy Thimonnier, già inventore di un apparecchio per la cucitura meccanica molto avanzato, a brevettare un apparecchio “cousu-brodeur”, destinato cioè alla cucitura e al ricamo, che vince la medaglia d’oro all’Esposizione Universale di Parigi del 1855. Nel 1865 viene introdotta la macchina Cornély, poi, grazie a quella di Hugan, si meccanizza il Lunéville (1867), ricamo che permette la posa di perle attraverso l’utilizzo di un ago ad uncino ed è molto utilizzato per l’abbigliamento. Nel frattempo Bonnaz realizza una macchina per il ricamo a punto catenella, presentata invece all’esposizione del 1878. La

13 Cfr. Lucio Avagliano, Alessandro Rossi. Fondare l’Italia industriale, Roma, Studium, 1998.

14 Cfr. Marianne Stang, Pizzi Chantilly in AA.VV., Il Merletto nel costume e nella moda, catalogo della mostra tenuta a Gorizia, 13-22 settembre 2002, Regione autonoma Friuli Venezia Giulia-Scuola Merletti di Gorizia, Edizioni della Laguna, 2002, p. 30.

188

meccanizzazione si diffonde intanto a San Gallo, in Svizzera, tra i maggiori centri europei per la produzione di ricami, dove Isaac Groebli inventa la macchina Schiffli, che si basa sull’utilizzo di una navetta. Il ricamo a macchina si diffonde così in Francia, Svizzera, Inghilterra, Stati Uniti. Successivamente a dominare il mercato saranno però le macchine di Cornély, che riusciranno a realizzare gran parte delle tecniche tipiche del ricamo manuale15. In Italia macchine da ricamo sono certamente utilizzate a partire dagli anni Settanta16 (fig.4), quando anche le macchine da cucire compaiono ormai regolarmente tra le pagine delle riviste femminili.

Grazie a questi procedimenti, ricami e merletti, un tempo potenti simboli di status, talmente preziosi da divenire oggetto di leggi suntuarie, invadono il mercato, finalmente alla portata di molti. La produzione su vasta scala determina un involgarimento, che induce le classi più elevate, inizialmente incuriosite dal nuovo prodotto, a ricercare la produzione artigianale e i manufatti antichi. In poco tempo infatti la situazione appare chiara: il ricamo a mano, della cui sopravvivenza inizialmente si dubitava, si sarebbe ritagliato uno spazio all’interno del dominio più ampio del ricamo a macchina, che semplicemente allarga il pubblico di una produzione prima essenzialmente di lusso, che continuerà ad esserlo nelle sue componenti artigianali più pregiate17. Ben presto emerge una linea di pensiero che definisce i prodotti industriali come “merletto falso”18, se non come “scipitezze volgari”19. La questione può essere posta da un altro punto di vista, ad esempio quello di Melani, che identifica il merletto industriale con la possibilità per le donne meno agiate di aspirare all’ornamento20.

La meccanizzazione infine influirà anche sulle pratiche di confezione e, con l’introduzione di macchine da cucire21 per l’uso domestico, sugli usi familiari. Sebbene

15 Cfr. Alfred Picard, Le bilan d’un siècle (1801-1900), vol. IV, Paris, Le Soudier, 1906, pp. 301 e segg.

16 Cfr. Ricami a macchina della ditta F. Reiser e Comp. Di Gallarate in “L’esposizione nazionale del 1881…” cit, p. 312, dove si ricordava Reiser di Gallarate per i suoi ricami a macchina, realizzati con una tecnologia operante in Italia dal 1871 (ma già in uso in Svizzera almeno dal 1830), per la quale si sottolineava la necessità di una manodopera “intelligente”, che possedesse cioè qualifiche tecniche ed estetiche che si possono apprendere solo con un’istruzione specifica. Alfredo Galassini, nel suo manuale Hoepli del 1894, riferisce che il ricamo industriale è diffuso su vasta scala nel nord dell’Italia. Cfr. Idem, Macchine da cucire e da ricamare, Milano, Hoepli, 1894, p. 208.

17 Cfr. Italo Ghersi, Piccole industrie… cit., pp. 225-233.

18 Cfr. ad esempio Donna Clara, Eleganza femminile, Torino, Lattes, 1907.

19 Cfr. Camillo Boito, Le industrie artistiche... cit., p. 201.

20 Cfr. Alfredo Melani, Pizzi moderni, in “La lettura”. n. 3, 1 marzo 1904, pp. 232-242.

21 Cfr. G. Bardin, Machines servants à la confection des vetements in “Études sur l’Exposition de 1867”, 8ièm série, Paris, Lacroix, 1869, Alfredo Galassini, Macchine da cucire e da ricamare... cit.; La macchina per cucire, Museo della scienza e della tecnica, Milano, 1962, Tessile e macchina per

189

già a partire dalla metà del Settecento fossero stati operati diversi tentativi in area tedesca e inglese, inerenti soprattutto all’attività di produzione di vele e calzature, la prima macchina per cucire22 destinata ad influire davvero sulla produzione industriale viene messa a punto dal sarto francese Barthélemy Thimonnier nel 1830 (fig.5), che come abbiamo visto avrà un ruolo anche nell’invenzione delle macchine per ricamo, e viene spesso indicato anche come l’inventore della macchina da cucire. L’apparecchio si basa su una cucitura a punto catenella con filo continuo e verrà utilizzata dal suo inventore a partire dal ‘31 per la produzione di uniformi militari (quello militare fu tra i primi campi dove si diffuse l’uso di abbigliamento preconfezionato sulla base di misure standard23). La sua diffusione viene in realtà accolta da sentimenti contrastanti, legati anche, evidentemente, alla spersonalizzazione del lavoro causata dal mezzo meccanico, oltre che dal più pragmatico timore di sarti e cucitrici di rimanere senza ordinazioni, tanto che il laboratorio di Thimonnier fu oggetto di violenti attacchi da parte di artigiani che temevano di rimanere senza lavoro24. Approdata in America, la tecnologia subisce diversi perfezionamenti, tra i quali si ricordano in particolare quelli operati da Walter Hunt nel 1834 e in seguito da Elias Howe nel 1846 (fig.6), che per primo porta a

cucire... cit., pp. 29 e segg.; Antonio Cantagallo, Duecento anni di storia della macchina per cucire, in In viaggio con Penelope. Percorsi di ricamo e volute di merletto dal XVI al XX secolo, catalogo della mostra tenuta a Perugia nel 1989, a cura di Maria Luciana Buseghin, Perugia, Electa-Editori Umbri Associati, 1989, pp. 69-74; Sebastiano Di Rienzo, Macchine per la moda. Dalla preistoria al Novecento, Roma, De Luca Editori, 2009.

22 La prima fu brevettata nel 1755 dal tedesco Karl Friedrick Wiesenthal. I primi tentativi furono legati soprattutto alla cucitura di materiali resistenti e difficili da cucire a mano come calzature, vele per imbarcazioni, uniformi militari, tra questi ricordiamo il prototipo di Thomas Saint, inglese, del 1790.

23 Fino all’Ottocento la vestibilità degli abiti era totalmente affidata alla maestria dei sarti, che rilevavano le varie misure sul corpo dei clienti tramite strisce di carta. Il primo tentativo di elaborare strumenti per lo sviluppo di taglie fu compiuto da Johannes Samuel Bernhardt, di Dresda, che pubblicò due volumi dove comparivano tavole sinottiche dove si elabora uno schema basato sulla geometria analitica, dove i punti fondamentali sono ottenuti attraverso l’incrocio di ordinate e ascisse atto a permettere appunto lo sviluppo di taglie. Tra 1818 e 1820 i sarti inglesi Williamo Hearn e Edward Minister, che mise a punto un sistema su cui si basa ancor oggi la fabbricazione dei calzoni, diedero altri contributi. Nello stesso periodo il tedesco Henry F. Wampen elaborò il principio secondo il quale il taglio sartoriale è indipendente dall’evoluzione delle mode, perché basato sull’osservazione scientifica e la rilevazione delle misure del corpo, che iniziò a rilevare attraverso nastri graduati, partendo da una divisione in fasce orizzontali del corpo umano. Nel 1855 il sarto napoletano Basile Scariano realizzò un metodo basato sulla triangolazione, cioè la suddivisione del corpo in un determinato numero di triangoli Cfr. Angelo Magnano, Il commercio di abiti “pronti” nella secolare evoluzione dell’arte sartoria, in “Economia e Storia”, n. I, 1972, pp. 125 e segg.; Luigi Magnano, Brevi cenni sulla storia del taglio degli abiti e considerazioni sul suo stato attuale, in AA.VV., I tessuti a mano e la sartoria veronese, catalogo della mostra tenuta a Verona, Casa di Giulietta, 9 giugno-24 luglio 1983, Comune di Verona, Verona, 1983, pp. 25-31; Doretta Davanzo Poli, Il sarto, in Storia d’Italia. Annali 19... cit., pp. 550 e segg. Più in generale, sul problema dell’ascesa dell’abito confezionato, cfr. Carlo Marco Belfanti, Civiltà della moda... cit., pp. 183-196.

24 Anche in seguito del resto Thimonnier non riusci a tesaurizzare le proprie invenzioni, dato che la fabbrica di macchine per cucire da lui impiantata fallì.

Nel documento Mani italiane (pagine 188-200)

Documenti correlati