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TAVOLA ROTONDA – LE PAURE OGGI: NUOVI MODELLI BIOPSICOPATOLOGICI, FILOSIFICO-SOCIAL

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31 La teoria della “biological preparedness” alle paure ancestrali nella mente animale e umana

Sebbene i meccanismi biologici alla base delle paure ancestrali non siano stati tuttora completamente delucidati, e attendano futuribili intese con la genetica molecolare e l’epigenetica più avanzate, è chiaro che queste debbano sottostare a qualche forma di ereditarietà genetica della specie.

Si ipotizza, per esempio che le specie attuali abbiano mantenuto alcune delle caratteristiche che hanno permesso ai loro ancestori di sopravvivere e di riprodursi lasciando nel mondo fenocopie a loro simili. Perciò è ragionevole ipotizzare che alcune paure ancestrali, come quella dei serpenti, possano aver comportato qualche vantaggio evolutivo (legato per esempio a un ridotto rischio di predazione) e che gli attuali esponenti di una determinata specie abbiano mantenuto e sviluppato/perfezionato strategie adattive legate a risposte fisiologiche e comportamentali specie-specifiche nei confronti di situazioni potenzialmente pericolose. I mammiferi infatti sono caratterizzati da regioni cerebrali piuttosto conservate tra le diverse specie deputate al riconoscimento di stimoli potenzialmente nocivi e all’elaborazione di risposte comportamentali associate a specifiche modifiche fisiologiche adattive che implicano vigilanza, allerta nonché la capacità di apprendere e ricordare in modo selettivo stimoli e/o situazioni legati a stimoli paurosi/stressanti (“biological preparedness”) (9, 10).

La paura del predatore come fattore che dà una forma alla mente della preda

I serpenti sono stati con molta probabilità i primi predatori dei mammiferi placentati, che compaiono come piccoli esseri talpiformi che popolavano le notti del Terziario predominato dalla presenza di grandi rettili poi “repentinamente” estintisi. Un’interessante ipotesi suggerisce come una lunga storia evolutiva comune possa aver portato i serpenti a esercitare una pressione evolutiva sui primati tale che la capacità di riconoscere il pericolo legato alla potenziale predazione possa aver contribuito in modo significativo allo sviluppo del sistema visivo e delle dimensioni del cervello in questi ultimi. Questa co-evoluzione avrebbe similmente portato i rapaci, che si cibano specificamente di serpenti, ad avere occhi più grandi e una migliore visione binoculare (11).

E’ interessante notare come risposte di allerta legate al riconoscimento di un potenziale pericolo (es. serpente) siano state osservate anche in animali nati e tenuti in cattività, naïve nei confronti di stimoli salienti per le loro controparti selvatiche. Studi su marmoset in contesti sperimentali di laboratorio hanno infatti mostrato come queste scimmie siano in grado di riconoscere modelli tridimensionali e bidimensionali di serpenti pur non avendoli mai visti prima (12). Tuttavia l’intensità delle risposte comportamentali (es.: mobbing calls, richiami d’allarme sociale a valenza sovente inter-specifica) e fisiologiche di stress/paura (attivazione dell’asse neuroendocrino ipotalamo-ipofisi surrene - hypothalamic-pituitary-adrenal axis (HPA) - e secrezione di cortisolo misurato nel pelo) variavano in base alle esperienze pregresse nei diversi gruppi sperimentali (13). Ulteriori studi avrebbero mostrato come macachi rhesus nati e cresciuti in cattività siano caratterizzati da una minore paura dei serpenti qualora confrontati con conspecifici cresciuta in natura. Tuttavia queste scimmie apprendono piuttosto rapidamente a riconoscere stimoli potenzialmente pericolosi e ritengono mnemonicamente l’informazione in modo consistente (14). Questo e molti altri studi sono di supporto alla teoria della “biological preparedness” che, come precedentemente accennato, suggerirebbe che l’apprendimento nei confronti di alcuni tipi specifici di stimoli (paurosi) sia stato facilitato proprio in quanto legato a un vantaggio per la sopravvivenza della specie (9, 10).

Stimoli di paura etologicamente rilevanti in specie modello

In questo contesto è comunque importante sottolineare l’importanza dell’utilizzo di stimoli salienti ovvero eco-etologicamente rilevanti per la specie in studio. In specie macrosmatiche quali i roditori stimoli olfattivi - ma anche sonori - appaiono assai più efficaci nell’indurre risposte antipredatorie. Ad esempio, roditori esposti al richiamo di predatori aerei quali l’allocco, il gufo selvatico o il barbagianni mostrano risposte

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32 comportamentali e neuroendocrine di stress (15, 16). Ratti (cresciuti in laboratorio) esposti all’odore di feci di volpe o di urina di gatto mostrano risposte comportamentali di allarme associate a specifiche modifiche fisiologiche quali analgesia indotta da stress (17). Similmente, in seguito all’esposizione all’odore del serpente, è possibile osservare un innalzamento nella soglia nocicettiva nello Spiny mouse (Acomys) (18) ma non nel topo (19) suggerendo che, poiché questi due roditori occupano nicchie ecologiche e zoogeografiche molto differenti, predatori terrestri quale il serpente abbiano esercitato una pressione selettiva limitata sul pool genetico del topo domestico ma molto più rilevante nell’Acomys.

L’importanza dell’utilizzo di stimoli eco-etologicamente validi appare ancora più importante se inserito nel contesto della ricerca di base nel campo della neurobiologia dello stress (che implica l’utilizzo di specie modello soprattutto topi e ratti). I modelli animali infatti, rappresentano un approccio euristico di fondamentale importanza per identificare marcatori affidabili e per lo studio di aspetti fisiopatologici rilevanti nelle malattie legate allo stress, quali ad esempio ansia, depressione maggiore, disturbo post- traumatico da stress (PTSD) ecc. In questo contesto esistono una molteplicità di stress di diversa natura, entità e durata utilizzati nel tentativo di ottenere modelli di patologie psichiatriche con validità di facciata, predittiva e di costrutto affidabili. In tal senso, come molti autori hanno sottolineato, la maggior parte degli stress utilizzati in contesti sperimentali di laboratorio si discostano profondamente da situazioni che l’animale potrebbe realmente fronteggiare nella propria nicchia ecologica o che appartenenti a Homo sapiens potrebbero affrontare nella vita di tutti i giorni. Al contrario, lo stress di tipo sociale è efficace nello scatenare risposte fisiologiche, comportamentali ed emotive di rilievo che possono essere ben modellizzate in animali sociali quali il topo o il ratto, quest’ultimo connotato da uno stile di vita sociale più coloniale che di tipo gregaristico (20, 21).

In particolare, recenti evidenze hanno mostrato come topi sottoposti a diversi tipi di stress sociale siano caratterizzati da un’aumentata ansia e reattività neuroendocrina e da ridotti livelli della neurotrofina Brain- Derived Neurotrophic Factor (BDNF) in specifiche aree cerebrali (stress da isolamento sociale), comportamenti anedonici (stress da variazione della gerarchia sociale) (21) e da un consistente e prolungato aumento nella soglia nocicettiva - analgesia indotta da stress – (in topi sottoposti a stress da sconfitta sociale) (20).

Risposte fisiologiche e comportamentali individuali allo stress e alla paura e l’importanza delle esperienze precoci: i contributi seminali di Harry Harlow e Seymour “Gig” Levine

Come è ben noto, la paura che si associa a situazioni di pericolo, oggettivo o potenziale, è caratterizzata da variazioni nell’omeostasi della fisiologia dell’organismo volte a preparare l’animale a fronteggiare il pericolo o a sottrarvisi (“fight or flight” response). L’attivazione del sistema neuroendocrino, e in particolare dell’asse HPA che porta alla secrezione di ormoni glucocorticoidi (GC), svolge un ruolo chiave e profondamente adattivo in tale processo. Tuttavia tale risposta se non è efficientemente calibrata (risposta eccessiva ad uno stimolo, troppo prolungata nel tempo o non sufficientemente adeguata) può portare a conseguenze importanti per la salute e perfino per la sopravvivenza dell’individuo (22).

Come precedentemente menzionato, l’entità e la modalità (strategia) di risposta a situazioni stressanti e/o paurose potenzialmente pericolose dipende non solo da fattori esterni oggettivi ma anche e soprattutto da una componente individuale legata all’esperienza (esperienze pregresse in età adulta ma anche e soprattutto precoci-perinatali) unitamente a fattori genetici.

Le esperienze precoci quindi possono avere conseguenze di lungo termine nella vita di un individuo. Nella maggior parte dei mammiferi, lo sviluppo è un processo graduale che si verifica prima e dopo la nascita e comporta un continuo accumulo di piccoli cambiamenti. Questo processo, frutto dell'interazione tra fattori genetici individuali e l’ambiente pre- e/o post-natale, è funzionale alla generazione di una varietà di fenotipi adatti a diversi tipi di ambienti e può portare al successo nella perpetuazione di un genotipo influenzando

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33 l’esistenza del singolo o di una popolazione di individui (23-25). Durante lo sviluppo l’organismo è dotato di una elevata plasticità che gli permette di adattarsi a cambiamenti ambientali ma che, allo stesso tempo, può gettare le basi per una vulnerabilità individuale al manifestarsi di caratteristiche patologiche (psichiatriche ma non solo) in età adulta. Questa elevata flessibilità nel programma di sviluppo di un organismo può senz’altro rappresentare un’arma a doppio taglio (“trade off theory”). Il successo o il fallimento di questa strategia di adattamento individuale all’ambiente dipenderanno quindi dal proprio assetto genetico e dalla stabilità delle condizioni ambientali relativamente a quelle che hanno plasmato l’organismo durante il suo sviluppo (24).

In questo contesto possono essere inseriti il lavoro di Harry Harlow e del suo allievo Steve Suomi da un lato, e i pionieristici studi di Seymour “Gig” Levine dall’altro, che hanno enormemente contribuito alla comprensione dell’impatto delle esperienze precoci nel plasmare le specifiche competenze individuali di risposta a situazioni stressanti sia dal punto di vista comportamentale che fisiologico (reattività emozionale e funzionalità neuroendocrina) (26-29). In particolare, se da un lato Harlow e Suomi hanno fornito un importante contributo alla teoria dell'attaccamento, focalizzandosi sugli effetti duraturi di differenti stili di attaccamento - nel rapporto madre-piccolo e tra pari - in termini di competenze sociali e reattività emotiva nell’individuo adulto, dall’altro Levine ha contribuito a chiarire i meccanismi fisiologici alla base di differenti risposte a stimoli stressanti ad esso associate (30, 31).

Il lavoro di Harry Harlow e Steve Suomi sul macaco rhesus

Per il mammifero l’ambiente precoce post-natale (in questa sede ci focalizzeremo principalmente su questo aspetto) è rappresentato fondamentalmente dalle interazioni sociali con la madre, che funge da relais tra il piccolo e l’ambiente circostante, e con i fratelli (32). Gli studi di Harlow e Suomi su macachi rhesus hanno chiaramente mostrato come un ambiente sociale precoce impoverito porti a conseguenze di lungo termine. In particolare, il legame madre-piccolo appare come la più importante forma di relazione sociale nei primati e riveste un ruolo fondamentale nello sviluppo di appropriate competenze sociali in età adulta che a loro volta sono determinanti nella vita in società di questi primati non-umani organizzata secondo gerarchie precise, nella creazione di legami tra conspecifici (alleanze), nonché nella scelta del partner sessuale (33). I piccoli di macaco trascorrono le prime settimane di vita in costante contatto fisico e nelle immediate vicinanze della madre che dà sicurezza e stabilità emotiva al piccolo (“secure base”). Harlow dimostrò - con esperimenti oggi discutibili da un punto di vista etico per la sofferenza psicofisica prodotta nelle giovani scimmie - che far crescere in completo isolamento piccoli di macaco, a partire dalla nascita, conduceva a importanti alterazioni dal punto di vista fisiologico e comportamentale. Queste scimmie infatti mostravano comportamenti aggressivi e risposte inadeguate a contesti sociali e comportamenti sessuali inappropriati (34). Tuttavia far crescere piccoli di macaco insieme a conspecifici della stessa età riusciva a compensare parzialmente i deficit fisiologici e comportamentali osservati in piccoli cresciuti in isolamento. Anche in questo caso però era possibile osservare stereotipie comportamentali e un’aumentata eccitabilità/reattività nei piccoli, associata a una eccessiva risposta neuroendocrina, un aumentato turn-over monoaminergico e una funzionalità compromessa del sistema serotoninergico. Inoltre queste scimmie rivestivano un ruolo sociale di “basso livello” dal punto di vista delle gerarchie sociali (26, 29, 31, 33, 34).

I modelli sperimentali della scuola stanfordiana di Seymour “Gig” Levine

Gli studi effettuati da Levine sui roditori altriciali (in questo caso il ratto) hanno chiaramente mostrato come le cure materne svolgano un ruolo chiave nello sviluppo rappresentando la principale fonte di stimolo per il piccolo. Un aspetto importante a questo proposito è quello legato al ruolo chiave che la madre svolge nella modulazione del sistema neuroendocrino del piccolo. In particolare, gli studi di Levine hanno evidenziato come pur essendo (parzialmente) competente alla nascita, l’asse HPA del piccolo di ratto sia ipo-responsiva

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34 a stimoli stressanti di varia natura nelle prime due settimane di vita (stress hyporesponsive period, SHRP). Tuttavia, l’allontanamento dalla madre è in grado di indurre potenti risposte di stress anche nelle prime due settimane postnatali suggerendo che proprio la madre giochi un ruolo di fondamentale importanza nella soppressione del sistema neuroendocrino del piccolo (maternal mediation hypotheis) (35, 36). Lo sviluppo dell’asse HPA, calibrato sull’interazione diadica madre-piccolo, e l’instaurarsi di un SHRP nelle prime fasi della vita del roditore altriciale (cioè non a stile precoce come il pulcino o la zebra che alla nascita hanno occhi e orecchie aperte, termoregolano in proprio e sono soprattutto capaci, a poche ore dalla nascita, di locomotricità autonoma) assume un importante significato adattivo se si considera il potente e pervasivo effetto degli ormoni GC sulla fisiologia di un organismo in rapido sviluppo.

Studi di separazione materna condotti in questo modello hanno messo ulteriormente in luce come questo tipo di stress nel piccolo porti a importanti e talora assai duraturi effetti di lungo-termine nel programmare le risposte neuroendocrine e del comportamento emozionale a stimoli stressanti in età adulta (27, 28, 37). Stress, neurotrofine e plasticità del sistema nervoso centrale

Studi epidemiologici e ricerca di base sono ormai concordi sul fatto che le differenze individuali nella salute fisica e mentale possano essere anche determinate dalle caratteristiche dell’ambiente precoce cui si è stati esposti e che questo possa esercitare effetti di lungo termine nell’individuo adulto. Tali effetti coinvolgono cambiamenti nella funzionalità del sistema neuroendocrino e nei comportamenti e nelle risposte emotive a stimoli stressanti, anche se i meccanismi molecolari alla base di tali modifiche sono a tuttora solo parzialmente conosciuti. Il Nerve Growth Factor (NGF) e il BDNF sono neurotrofine che giocano un ruolo chiave nello sviluppo del sistema nervoso centrale e nella plasticità sinaptica ad esso associata (38). Per questo motivo modifiche nell’espressione di queste proteine a livello di specifiche regioni cerebrali (particolarmente di quelle coinvolte nella funzionalità dell’asse HPA es.: ipotalamo e ippocampo), ma anche perifericamente (sangue), potrebbero giocare un ruolo chiave nei meccanismi molecolari che sottendono cambiamenti di lungo termine mediati da esperienze precoci. E’ interessante notare come variazioni nell’espressione sia di BDNF che di NGF siano state riscontrate sia in roditori che in primati a seguito di eventi stressanti esperiti precocemente (4, 37, 39, 40). Inoltre, la regolazione di queste neurotrofine sembrerebbe differire in individui di sesso maschile e femminile suggerendo che anche la vulnerabilità a eventi stressanti simili possa differire nei due sessi, come la relativa loro risposta di coping (41). Ancora più interessante e degno di nota è infine la recente identificazione di un polimorfismo del gene BDNF riscontrato in macachi rhesus che suggerirebbe come variazioni genetiche nella produzione di queste neurotrofine possano contribuire a determinare le risposte adattive di lungo termine appunto indotte da esperienze precoci (40).

Ringraziamenti

Si ringrazia Stella Falsini per il suo contributo alla ricerca delle fonti bibliografiche Bibliografia

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37 TAVOLA ROTONDA – LE PAURE OGGI: NUOVI MODELLI BIOPSICOPATOLOGICI, FILOSIFICO-SOCIALI

J. E. LeDoux

NYU Langone Medical Center - Departments of Psychiatry and Child and Adolescent Psychiatry, New York – USA

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38 MECHANISMS UNDERLYING THE ENVIRONMENTAL RISK FACTORS FOR SCHIZOPHRENIA

R. Murray

Institute of Psychiatry Kings College de Crespigny Park, London - UK

Traditional psychiatric textbooks describe schizophrenia as a clinical enigma of unknown aetiology. However, this is no longer true. We now know a great deal about the risk factors, or contributory causes, of schizophrenia. These can be roughly divided into two main types; those which result in a) aberrant neurodevelopment and b) those which cause dopamine dysregulation; both characteristic abnormalities found in schizophrenia.

Genetic factors are, of course, pre-eminent. These will be discussed elsewhere. However, certain environmental factors have been consistently associated with schizophrenia. Some such as adverse obstetric events (e.g. prenatal infection, perinatal hypoxia) impair neurodevelopment. Others such as abuse of drugs such as amphetamines, cocaine and cannabis which increase striatal dopamine also increase risk.

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