Mah, io ho imparato tante cose ma non vi dico quali. Però vorrei proporre una mia rilettura degli interventi, compreso quest’ultimo di Emanuele che condivido in pieno, il quale ha parlato di due cose che sono al cuore del lavoro che tutti noi facciamo: ci sono i dati e ci sono i modelli. E vi voglio raccontare una cosa che sta succedendo all’Ocse, di cui non ho parlato prima. Da più di un anno l’Ocse ha deciso di avviare un processo che, con un terribile acronimo inglese, si chiama Naec, “New Approaches to Economic Challenges”, il cui scopo essenzialmente è quello di rivedere tutti i modelli che l’Ocse fino adesso ha usato, per cercare di capire cosa si può tenere, cosa si deve buttare. Naturalmente questo processo è strettamente legato alla questione dei dati, e qui voglio richiamare un paradosso che aggiunge una delle tante colpe degli economisti che Domenico De Masi ci suggeriva, e a ragione. Adesso sappiamo che c’è stata la più grande crisi del Dopoguerra, forse anche per un periodo più lungo e guardiamo a tutta una serie di dati macroeconomici e microeconomici che ce lo dimostrano. Il paradosso è che quei dati noi li potevamo guardare prima della crisi e, se avessimo avuto modelli “giusti”, avremmo tratto da quei dati che già c’erano delle lezioni che forse sarebbero state utili.
Dico una cosa banale: i dati che usiamo non sono indipendenti dai modelli che abbiamo in mente, siano essi formalizzati o meno, poco conta. E, di conseguenza, se questi modelli ci portano a guardare in modo distorto i dati, dobbiamo migliorare nei due sensi: estendere i dati che abbiamo a disposizione nella loro qualità, ma anche riconoscere un fatto che oggi è ovvio, che i modelli che avevamo non funzionano. Il problema qual è? E credo che questa seduta di stasera lo dica una volta in più. Che non c’è ancora, forse non so quando ci sarà, un modello che permetta di tenere in conto tutte le interdipendenze che dobbiamo necessariamente considerare per evitare grandi crisi e fare delle politiche migliori. Quindi, per il prossimo futuro realisticamente osservabile, dobbiamo dire con molta chiarezza che c’è un insieme di modelli che rappresenta la scatola degli attrezzi degli operatori economici, che devono essere usati assieme. Il che significa che le istituzioni che li usano devono parlarsi, perché abbiamo tutti un punto di vista parziale sul mondo, nessuno ha quello complessivo e totale, e questo va detto con molta chiarezza.
E poi, e su questo secondo punto concludo, non abbiamo ancora il modello, ma possiamo pensare a ragionare su quali siano le caratteristiche essenziali di un modello che ci piacerebbe avere. E qui mi rifaccio a quello che diceva Emanuele Baldacci, che cioè ci sono forse quattro-cinque concetti chiave che abbiamo tralasciato troppo: il primo è la complessità, che non può essere analizzata mettendo solo delle grandezze macro, per intenderci da economista, e poi mettendoci delle grandezze micro che in qualche modo interagiscono con quelle macro, però non sappiamo bene come. Secondo, l’interconnesione o l’interdipendenza, gli spillover: è un concetto vecchio ma misurarlo con accuratezza è molto complicato. Terzo, la multidimensionalità: il reddito va bene ma non basta, ci sono tante altre cose che vanno viste assieme. Naturalmente in primo luogo l’ambiente. Ho molto apprezzato quella terribile frase molto vera che dice che le crisi dell’ecosistema non sono reversibili, quelle finanziarie magari sì. E questo ci dovrebbe far riflettere di più.
E infine i comportamenti: faccio di nuovo un esempio di casa Ocse e ho finito. La predica dell’Ocse, come sapete, è che bisogna fare le riforme strutturali per migliorare i risultati. Questo è vero se, una volta che si passa una legge che modifica le regole sul mercato del lavoro, il comportamento dei lavoratori e delle imprese ne viene influenzato in modo tale da produrre i risultati che ci aspettano. Quindi, bisogna capire molto meglio qual è il comportamento, la reazione degli individui alle norme e capire anche
Pier Carlo Padoan
quali sono le condizioni di contorno che permettono a un dato insieme di norme di funzionare meglio. Se non ci sono quegli elementi di contorno, possiamo disegnare la migliore riforma del mercato x che ci pare, ma poi non viene implementata e i risultati non si hanno. Grazie.
Intanto ho imparato una cosa bellissima: che il disastro ecologico ci sarà dopo il 2060 e quindi, data la mia età, sono fatti vostri. La seconda cosa, invece, riguarda i modelli. Nell’analizzarli, mi sono reso conto che alcuni di essi partono dal presupposto che la povertà sia debellabile e altri partono dal presupposto che non lo sia. Di questo secondo gruppo fanno parte sia il modello liberale, sia il modello cattolico. La “Rerum Novarum” di Leone XIII lo dice esplicitamente: il dolore e le tragedie di questa Terra non sono eliminabili a causa del peccato originale. Ci sono invece modelli, come ad esempio quelli proposti da Keynes o da Marx, per i quali la povertà è debellabile. Naturalmente, se uno imbocca l’una o l’altra corsia arriva ad esiti completamente diversi.
Qualcosa di analogo vale oggi per la crisi. Mi è parso di capire che il collega sia convinto che la crisi attuale è debellabile. Io invece sono convinto che non si tratti di una crisi passeggera ma di una ridistribuzione fatale e globale della ricchezza. Il Pil pro capite in Italia è di 34mila dollari, in Cina di 4mila dollari: vi pare che questo divario possa durare in eterno? Vi pare che noi italiani possiamo continuare a fruire delle risorse del pianeta come facevamo prima, senza che la Cina reclami la sua giusta parte? La ricchezza complessiva del mondo aumenta di 3-4 punti all’anno, ma ormai va ad arricchire i paesi Bric e Civets, mentre i Paesi tradizionalmente avanzati segnano il passo. Tutto l’Occidente, quasi senza accorgersene, sta riducendo il suo potere d’acquisto. E questa non è una crisi reversibile ma un trend irreversibile. I modelli di cui parlavo sono ovviamente complessi, però sono modelli che devono tendere alla semplicità, perché la semplicità è una complessità risolta. Quando si comprendono bene i meccanismi che regolano un sistema, quando, rovesciato l’orologio, si riesce a vedere come sono fatte le sfere e come agiscono, la complessità diventa semplicità, e in qualche modo la previsione diventa plausibile. Su questo presupposto sto conducendo da anni una ricerca previsionale su come evolvono dieci trend nel contesto internazionale: longevità, tecnologia, economia, lavoro, tempo libero, ubiquità, androginia, etica, estetica e cultura. Definendo l’iter di questi dieci trend, spero di capire un poco meglio come evolve la dinamica mondiale.
Certo, la previsione è indispensabile per progettare: quando il Giappone ha invaso negli anni Trenta gli Stati Uniti con la seta, le aziende americane, invece di inveire contro i sindacati, hanno sovvenzionato la ricerca scientifica affinché inventasse un tessuto alternativo alla seta. Furono necessari molti anni e molti soldi ma, alla fine, fu inventato un tessuto sintetico che non a caso si chiama Nylon, che in sigla significa “Now You Loose Old Nippon”, ora sei fottuto vecchio Giappone. In questa sigla si ritrovano sicurezza e semplicità: due doti indispensabili ad ogni scienza, insieme alla dote della sperimentalità. Un grande pensatore brasiliano, Gilberto Freyre, diceva: “Se dipendessi da me io non sarei mai maturo, né nello stile, né nelle idee, ma sarei sempre verde, sempre incompiuto, sempre sperimentale”. Ecco, secondo me uno scienziato statistico, uno scienziato sociologo debbono porsi in questo atteggiamento mentale. Aggiungo che le nostre discipline son discipline che oscillano tra la forma di pensiero che i greci chiamavano metis e la forma di pensiero che chiamavano thesis. I greci hanno avuto la fortuna di ereditare dalla Mesopotamia la forma di pensiero che chiamavano metis. La Mesopotamia è fatta di due fiumi, con affluenti, quindi è un
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Domenico De Masi
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tavola rotonda
labirinto di corsi d’acqua che ha fecondato negli abitanti della regione una forma di pensiero flessibile, il pensiero della trattativa, del sotterfugio, del colpo d’intuito, il pensiero che i Greci personificavano nel polipo, nel giunco, nel serpente. L’Egitto ha una situazione geografica completamente diversa: un solo fiume dritto, dalla fonte allo sbocco nel mare, e quindi ha determinato una forma di pensiero retto, preciso, sintetico, riflessivo, che i Greci chiamavano thesis e che personificavano nella freccia e nell’arco. Ecco, il problema delle nostre discipline è di mettere insieme thesis e metis. Rigore nella raccolta dei dati; immaginazione sociologica e statistica nell’elaborare le ipotesi e nel verificarle.
Durante gli anni Cinquanta c’è stato un grosso dibattito tra i due massimi architetti del Novecento, cioè tra Le Corbusier e Oscar Niemeyer. Le Corbusier diceva: “Ciò che io amo è la retta, la linea inventata dall’uomo, la linea più breve tra due punti, la linea dei boulevards”. E Niemeyer invece diceva: “Ciò che io amo non è la linea retta, dura e inflessibile, creata dall’uomo. Ciò che io amo è la linea curva, libera e sensuale. La curva che vedo nei monti e nei fiumi del mio Paese, nelle nuvole del cielo, nelle onde del mare, nel corpo della donna amata”. E poi terminava: “Di curve è fatto tutto l’universo, l’universo curvo di Einstein”. Ecco, le nostre discipline hanno questo problema: mettere insieme thesis e metis, linea curva e linea retta, emotività e razionalità. Perciò sono discipline così entusiasmanti. Perciò è un privilegio dedicare ad esse la nostra vita.
I will be very brief, I take home two messages: the first one is that I realise there are even more models than I’ve thought of before I came here and so Domenico send us an invitation to your meeting on considering different models, I think it’s a very interesting initiative, and also Pier with respect to OECD, it would be really interesting to be involved in this cleaning-up exercise that you were talking about because I think that a collaboration would be very interesting. But more models that I ever imagined. Then the second point I want to share is: listening to these discussions and listening to some of the sessions that are on, I can read Italian presentations, I’m struck that we are appreciating more and more that we’re dealing complexity, uncertainty and what future we want, yet we are trained to be looking at simplicity, reductionism, at achieving certainty and at looking backwards. And if I look at my UN organisation we spend 90 percent of our time looking backwards and 10 percent of our time looking forwards. I think in the world it may be generous to say that the proportion is 95-5, I suspect it’s 99-1. We have to find a balance which is more 50-50.
I really feel that somehow we have to think, and it’s not going to happen tomorrow, and it’s not even in five years’ time, because we have to go back to our education systems and think about how it is that we want people to consider these issues that we are confronted by because we’ve had a rather unique 200 years of industrial and economic position which may come back again, but like India and China had a rather dominant position in the 1700, it may be that they have the dominance position for the next 300 years and may be 300 years before we get it back again.
Maybe in some of that time we must spend much more time dealing with the complexity and the uncertainties and what kind of future we want and much less looking backwards. This is the reason why your initiative Enrico was really fantastic to bring into the statistical system. I’m a statistician trained in national accounting and calculating threat figures back in the 1980’s and I know that when you do statistics it’s a very particular discipline but we need to move on and think about how it is we can
Jock Martin