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2.5 Introduction to A Good Sound Marriage

2.8 Ai tempi della Grande Guerra (II)

Il dono della vita

Un’altra storia, cara amica, risale alla Grande Guerra, prima dell’alba dell’Uguaglianza e della Pace, prima della Sorellanza, ai giorni in cui le donne erano in conflitto tra loro.

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La mia amica Ellen, poetessa, dichiarò semplicemente guerra alla moglie di un altro uomo, a un’artista.

“Posso portar via qualsiasi uomo a qualsiasi donna”, si vantava Ellen.

“Oh, no, non è vero”, diceva l’artista. “Non riuscirai a prenderti il mio. Ci amiamo troppo. Siamo anche sposati. E poi hai le gambe corte e le caviglie grosse.”

“Vedremo. E non sto parlando delle mie gambe e delle mie caviglie!”

Come chiameremo l’artista? Y? Perché no? Qualcosa di universale! Ellen aspettò, ci lavorò, colse l’opportunità al volo e rubò una bambina al marito di Y, o così la vide Y. Rubò il suo sperma per mettere al mondo una nuova creatura che non avrebbe dovuto avere il privilegio di starci. (Chiameremo il marito X: in quale altro modo se non come la variabile?)

Ellen chiamò Y al telefono.

“Ce l’ho fatta! Te l’avevo detto, io! Lui ama me”, esclamò, “non te. Me l’ha detto lui. E qui ne ho la prova: sono incinta! E, per di più, ricambio il suo amore.”

“Preferisco lei a te,” disse X, “adesso è successo.”

Y si suicidò. X era dispiaciuto, ma non se ne fece una colpa. Gli uomini, al tempo della Grande Guerra, non si biasimavano per queste cose. X diventò freddo e crudele nei confronti di Ellen e della bambina che aveva messo al mondo. “Colpa tua!” diceva. “Adesso non riesco più ad amare per davvero né te né nessun altra.”

Oggi un fantasma implora vendetta. Lo sento ogni tanto la notte, decine di anni più tardi. “Scrivimi,” urla. “Scrivi a me, non a loro.” Cerco di capire. La voce non è quella di Y, Y riposa in pace, credo. No, è Ellen che grida. Anche Ellen morì, si suicidò. Y allungò le mani dalla tomba, la pugnalò alla schiena e la trascinò giù e X non fece alcun tentativo per fermare Y o salvare Ellen, anche se avrebbe potuto farlo sorridendo, perdonando, cancellando il danno che Y aveva arrecato con il suo orribile atto di autodistruzione.

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E’ vero che fu Ellen ad iniziarla. Una guerra spietata, senza regole. Ellen se la meritò: perché dovrebbe riposare in pace? Che vaghi e si lamenti nell’oscurità. E’ solo che nelle notti peggiori, sento due voci, che sospirano. Vedo persino due spettri. Uno è quello di Ellen: loquace e fiero nella morte così come in vita, curiosamente corposo. Non mi turba vederlo: anzi, sono contenta che sia qui in giro, a portare testimonianza di questo e di quello. Ma ce n’è un altro, piccolo, un’ombra spettrale, che balla e sgambetta alle calcagna di sua madre Ellen. Provo a chiudere gli occhi ma la pallida immagine rimane impressa, oltre le palpebre. Orchis aveva sei anni quando Ellen la uccise. Sei anni; un’età particolare: tutto spirito e non abbastanza solidità. Orchis non vuole tranquillizzarsi, ovviamente. Perché dovrebbe farlo?

Le notizie di morte per suicidio viaggiano veloci, per telefono, contatti che si congiungono, si intrecciano! Oddio, oddio, pessime notizie! Le notizie di morte per omicidio giungono ancora più rapide, si trasmettono oralmente di casa in casa. Persone che bussano alle porte balbettando. Aggiungi il suicidio all’omicidio e tutto il quartiere ne parlerà atterrito entro un’ora. Chi è stato l’ultimo a vederli? Di chi è la colpa? Oh, se solo questo, se solo quello! Lo abbiamo sempre saputo, non lo abbiamo mai saputo, di certo non lo avremmo mai pensato! Oh, terribile! Terribile! Come ha potuto, quella? come ha osato? Anche nel lutto, la rabbia non può che esplodere. Tutti soffriamo, d’altronde! Cosa aveva di così speciale lei per non farcela più? Cosa aveva di così speciale lei per farci questo?

L’amicizia pretende più di quanto mai credereste. Se ne sta il più vicino possibile all’orlo spaventoso del precipizio, a fissare il pozzo nero della riprovazione, prima di ritrarsi verso il mondo della razionalità e della guarigione. Ma non è mai finita. Decine di anni più tardi il dolore ritorna ancora, e con questo la rabbia.

La Grande Guerra risale a decine di anni fa, agli anni sessanta: quelli erano i giorni in cui le donne combattevano contro gli uomini e morivano per amore o per mancanza di amore: ma suppongo che le guerre non finiranno mai davvero, e nemmeno dovrebbero, fintanto che ne ricordiamo le vittime.

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Beh, pensaci. Bella immagine questa per un Artista di Guerra. La bimba, la piccola Orchis, che giace sveglia, suo padre lontano, arrabbiato, che la disconosce. La madre arriva con del whisky nel latte e cacao della buonanotte: porta con sé una manciata di pillole. Prendine solo un’altra, mio tesoro, solo un’altra, ancora. Le mamme dicono queste cose! Per il taglietto sul dito, il bernoccolo in testa…vedi, presto andrà tutto a posto: problema risolto.

Non meravigliamoci se i nostri bambini vedono le pillole con sospetto: le sputano fuori; non mangeranno mai la mela verde-e-rossa, sanno che il pezzo tinto è avvelenato. Non c’è bisogno di una matrigna per questo. Le madri sono qualcosa di pericoloso, sono tutte streghe in fondo: datemi una mela di un colore solo.

Come ha potuto Ellen? Come può una donna fare una cosa del genere? Uccidere suo figlio e poi se stessa? Con più competenza nella morte di quanta non ne avesse mai avuta in vita? Nessuna richiesta velata d’aiuto qui, solo assicurazione, certezza, che la morte sia la giusta risposta alla vita.

Ma senti, ti dirò, amica mia, Ellen fece la cosa giusta. A posteriori lo capisco chiaramente. Allora no. Adesso ne so di più. Se una madre si suicida deve prendere i suoi bambini con sé: trascinarli scalcianti ed urlanti verso le inferriate dell’eternità. Che questo sia il tuo deterrente, amica, se mai hai pensato al suicidio. Hai un’aria un po’ troppo triste, sei un po’ troppo silenziosa, per il tuo bene. Ti è forse successo? Il bambino che rimane deve affrontare la condanna a vita impostagli dalla madre. Pochi bambini sopravvivono davvero al suicidio delle madri: il corpo continua a vivere, ma la mamma ha portato loro via il dono della vita.

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