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Tempo di bilanci (1907-1917)

Nel documento Enrico Thovez (1869-1925). Critico d'arte (pagine 147-200)

Impressionismo e dintorni

Sin dagli albori dell’attività critica di Enrico Thovez, la marcata diffidenza verso le espressioni figurative provenienti dal territorio francese sembrò contraddistinguere gli esiti del suo impegno di commentatore, più propenso ad accogliere positivamente le esperienze che arrivavano dai paesi anglofoni e germanici piuttosto che dalla vicina Francia. Una cautela verso quanto veniva prodotto al di là delle Alpi che, fatte le dovute eccezioni (che riguardavano soprattutto artisti quali Lucien Lévy-Dhurmer, Auguste Rodin, Jules Bastien-Lepage, Pascal Dagnan-Bouveret), nasceva da un forte pregiudizio verso un paese che considerava, ingiustificatamente, troppo sicuro del suo ruolo di portavoce della modernità e del gusto europeo. Le tensioni sia politiche che economiche attive da parecchio tempo tra Francia e Italia non aiutavano certo lo sviluppo di un clima sereno e disinteressato di scambio culturale, riverberandosi – almeno per Thovez, sino a quel momento sostenitore “triplicista” – nello stesso giudizio sulle arti figurative.

La complessa veicolazione della pittura impressionista in Italia, tra la fine dell’Ottocento e l’avvio del nuovo secolo,1 non trovò certo nel critico torinese uno degli apostoli della sua divulgazione, ma piuttosto uno dei suoi più accaniti e convinti oppositori. Già alla mostra veneziana del 1897, commentando la proposta della sezione francese che in quell’anno mostrava come trionfatori indiscussi Carolus Duran e Leon Bonnat, non mancò di commentare ironicamente la Veduta di Ventimiglia di Claude Monet, definendola “visione fantastica a base di azzurro, con frasche informi e colline di pasta molle”, così come pure il

1 Sempre valido, per una ricostruzione generale sul problema italiano, R. Longhi, Prefazione con un ragguaglio su L’impressionismo e il gusto degli italiani, in J. Rewald, Storia dell’impressionismo, Sansoni editore, Firenze 1949, pp. VII-XXIX. Per un punto di vista più europeo, F. Benzi (a cura di), Eredità dell’impressionismo 1900-1945. La realtà interiore, catalogo della mostra (Roma, Palazzo delle Esposizioni, 15 dicembre 1994 - 28 febbraio 1995), Electa, Milano 1994.

suo Paesaggio di primavera, descritto alla stregua di un’“alta visione informe chiarissima di giallo, di azzurro e di rosa, entro cui dovrebbero trovarsi un prato, un bosco e dei fiori”. Un commento negativo che si estese anche ad un altro esponente del movimento francese, Jean-François Raffaëlli, presente con “Due impressioni di Parigi […], disegnate nel solito modo meschino”.2

Nel 1899, sempre a Venezia, evitò addirittura di segnalare la partecipazione di Raffaëlli, presente con la tela Contadini di Plougasnou e con ben venticinque puntesecche, preferendo esaltare il realismo raffinato di Dagnan-Bouveret o quello più austero di Charles Cottet.

Certo la stessa proposta di pittura impressionista offerta in Italia in quel momento doveva scoraggiare non poco una lettura organica ed esaustiva del movimento. L’esposizione veneziana, nonostante gli sforzi compiuti dagli organizzatori – o da individualità chiamate a coadiuvare il difficile reperimento delle opere in Francia –3 ospitava perlopiù saggi di seconda scelta o comunque dipinti non recenti. Una carenza dovuta soprattutto dalla reticenza degli stessi artisti, più propensi a presenziare con opere maggiori in altre occasioni di confronto europeo.4 Al di là del critico Vittorio Pica, smaccatamente filofrancese, che nonostante l’assenza dalla rassegna degli artisti interessati già nel 1895 aveva destinato un capitolo intero del suo volume sulla biennale agli Impressionisti,

divisionisti, sintetisti, affermando la loro centralità nel contesto europeo,5 il giudizio della critica italiana sembrava fluttuare in un terreno di ambiguità e di incoerenza di opinioni, che mostrava tutta la difficoltà nel comprendere un movimento ancora molto poco conosciuto nel paese.6

Nemmeno l’incontro con un’ampia rassegna di opere di Claude Monet, Camille Pissarro, Alfred Sisley, Pierre-Auguste Renoir, Edgar Degas, Paul Cézanne e Berthe Morisot, esaminate alla mostra Centennale di Parigi del 1900 – era, questa, l’occasione nella quale

2 E. Thovez, L’arte mondiale a Venezia, in “Corriere della Sera”, 12-13 maggio 1897, pp. 1-2 (2).

3 Sul ruolo di Vittorio Pica - e marginalmente anche di Ugo Ojetti - all’interno dell’esposizione, soprattutto nel loro rapporto con la Francia, si veda L. Lecci, Un tamborineur per la Biennale. Vittorio Pica e gli artisti francesi alle prime esposizioni internazionali di Venezia (1895-1914), in D. Lacagnina (a cura di), Vittorio Pica e la ricerca della modernità. Critica artistica e cultura internazionale, Mimesis, Milano-Udine 2016, pp. 171-193.

4 Cfr. Ivi.

5 Sul ruolo di Pica si veda M. M. Lamberti, Vittorio Pica e l’impressionismo in Italia, “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, serie III, vol. 5, n. 3, 1975, pp. 1149-1201.

6 Significativa, in questo senso la posizione di Ojetti, che dalle prime opinioni molto severe sull’impressionismo (cfr. U. Ojetti, Cent’anni di pittura francese, in “Nuova antologia”, vol. CLXVI, n. 176, fasc. 704, 16 aprile 1901, pp. 639-653) si distinguerà negli anni successivi come uno dei maggiori sostenitori del movimento. Su Ojetti, cfr. G. De Lorenzi, Ugo Ojetti critico d’arte. Dal “Marzocco” a Dedalo”, Le Lettere, Firenze 2004 e M. Nezzo, Ugo Ojetti. Critica, azione, ideologia. Dalle biennali d'arte antica al Premio Cremona, Il poligrafo, Padova 2016.

aveva invece scoperto, con grande e positivo stupore, Édouard Manet –7 permetteva a Thovez di cambiare idea rispetto a quella schiera di pittori ormai ampiamente celebrata in Francia. Piuttosto, serviva ad acuire la sua avversione verso una pittura considerata da tempo come “incompleta” ed errata (sia da un punto di vista tecnico che compositivo), non priva – a suo dire – di una deleteria influenza sullo sviluppo delle più recenti arti francesi. Proprio nel 1901, commentando la gloriosa tradizione dei paesaggisti francesi del Trenta esposta a Venezia (rappresentata nell’occasione da Camille Corot, Charles-François Daubigny e Jean-François Millet), Thovez vi contrapponeva le prove del più recente impressionismo, colpevole, secondo lui, di aver determinato un’involuzione rispetto ad un genere pittorico da sempre considerato come un’eccellenza del paese: “La Francia non brilla presentemente nel campo del paesaggio moderno; si direbbe che l’errore unilaterale degli impressionisti l’abbia fuorviata”.8

Lo scarto, a quel punto, si rendeva evidente nello stesso confronto con gli altri critici italiani, come dimostra il giudizio diametralmente opposto fornito da Pica, che indicava invece nel movimento francese l’esempio più alto e rivoluzionario della recente modernità: “evidente appare oggidì, a chiunque non abbia la mente ottenebrata da inguaribili pregiudizii – qui il riferimento sembrava essere diretto proprio a Thovez –, che l'evoluzione da loro [gli impressionisti] fatta fare alla pittura negli ultimi 40 anni, col luminismo nell'ordine formale e col modernismo nell'ordine sostanziale, è la più importante, la più essenziale e la più salutare dell'arte moderna”.9

Scorrendo le recensioni thoveziane per le mostre veneziane, l’unica pacata apertura verso il movimento francese sarebbe arrivata soltanto nel 1903, destinata puntualmente al caso di uno specifico dipinto, nulla di più. Accanto alle proposte di Monet e Sisley presenti alla quinta esposizione – giudicate irrimediabilmente “mediocri” e “incomplete” –, Thovez si abbandonava ad un commento pienamente positivo per la tela La Place du Théâtre

Français di Pissarro (“una delle sue cose più complete per finezza di toni chiari,

luminosità, vivacità di rappresentazione della folla”),10 nella quale ritrovava quei caratteri di trascrizione genuina della modernità da tempo ricercata, che difficilmente poteva individuare nella retorica della pittura idealista, diversamente sostenuta.

7 Cfr. supra, cap. II, Parigi 1900.

8 E. Thovez, L’arte a Venezia. Il paesaggio, in “La Stampa”, 24 settembre 1901, pp. 1-2 (1).

9 V. Pica, La pittura all’Esposizione di Parigi. II, in “Emporium”, vol. XIII, n. 73, gennaio 1901, pp. 27-44 (37).

Se per Pica la lettura dei contributi critici di Joris-Karl Huysmans, Gustave Geffroy e Camille Mauclair lo portava a formulare una disamina tutto sommato corretta del movimento francese (ma sicuramente poco innovativa e battagliera, che tradiva spesso l’uso – dichiarato o meno – delle sue fonti),11 Thovez – a conoscenza, verosimilmente, degli stessi testi – preferiva appoggiarsi ad un autore discusso e discutibile come Robert De la Sizeranne, certamente meno indulgente nel giudizio rispetto ai nomi poc’anzi citati. Lo scrittore e giornalista francese, punto di riferimento imprescindibile per il critico italiano – tanto nella comprensione del pensiero di Ruskin quanto per la conoscenza dei preraffaelliti inglesi –,12 sentenziava nel 1900 il fallimento del movimento impressionista, ponendosi su quella linea già tracciata vent’anni prima dallo stesso Émile Zola.13 Thovez non doveva poi essere a digiuno, tra l’altro, dei contributi del tanto ammirato Joséphin Peladan (“che in mezzo a molte bizzarrie ha scritto verità estetiche profonde”),14 anch’egli tra i più fervidi oppositori in Francia del movimento impressionista.

11 Oltre al citato contributo di Lamberti (M. M. Lamberti, Vittorio Pica e l’impressionismo in Italia, “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, cit.), si veda inoltre G. Villani, Un atlante della cultura europea. Vittorio Pica. Il metodo e le fonti, Olschki editore, Firenze 2018. La pacatezza di Pica e la sua tendenza a non fornire mai giudizi taglienti era da tempo riconosciuta; già nel 1888 Felix Fénéon lo tratteggiava con le parole: “Pica …ne dogmatise pas; in n’est pas le pédagogue qui dispense les approbations et les châtiments. Il sait bien que le critique doit être une intelligence perspicace et compréhensive, pénétrant dans l'âme de l’artiste, surprenant sa personalié esthétique, considérant l’œuvre d’art qu point de vue de l’auteur et au point de vue du public, - canal de l’un et de l’autre” (F. Fénéon, Le Pica, “La Cravache parisienne”, vol. VIII, n. 386, 14 juillet 1888, ora in Id., Au-delà de l’impressionisme, a cura di F. Cachin, Hermann, Paris 1966, pp. 135-137).

12 In particolare, ci si riferisce ai volumi R. De la Sizeranne, La Peinture anglaise contemporaine, Librairie Hachette et C., Paris 1895; id., Ruskin et la religion de la beauté, Librairie Hachette, Paris 1897. Rispetto all’interesse per il critico francese si veda inoltre la lettera di E. Thovez ad A. Torasso, Torino, 17, 21, 26 giugno 1898, in Diario e lettere, pp. 792-793. Relativamente al critico francese si veda S. Bann, Analogie et Anachronisme dans l'œuvre critique de Robert de la Sizeranne, in R. Recht, P. Sénéchal, C. Barbillon, F-R. Martin (a cura di), Histoire de l'Histoire de l'art en France au XIXe siècle La Documentation française, Paris 2008, pp. 291-310. Per l’importanza di Sizeranne nel ragionamento di Thovez sulla fotografia, cfr. supra, cap. II, Poesia fotografica.

13 “Le grand malheur, c'est que pas un artiste de ce groupe n'a réalisé puissamment et définitivement la formule nouvelle qu'ils apportent tous, éparse dans leurs oeuvres. La formule est là, divisée à l'infini; mais nulle part, dans aucun d'eux, on ne la trouve appliquée par un maître. Ce sont tous des précurseurs, l'homme de génie n'est pas né. On voit bien ce qu'ils veulent, on leur donne raison; mais on cherche en vain le chef-d'œuvre qui doit imposer la formule et faire courber toutes les têtes. Voilà pourquoi la lutte des impressionnistes n'a pas encore abouti; ils restent inférieurs à l'oeuvre qu'ils tentent, ils bégayent sans pouvoir trouver le mot” (É. Zola, Le Naturalisme au Salon, in “Le Voltaire”, 18-22 giugno 1880; ora in id., Écrits sur l'art, a cura di J.-P. Leduc-Adine, Gallimard, Paris 1991, pp. 422-423). Sizeranne, infatti scriveva: “Le maître impressioniste n’a pas paru. Cette révolution, si révolution il y a, fut faite par beacoup de pygmées et non par un géant. C’est la grande différence, en art, entre les révolutions d’autrefois et celles d’aujourd’hui. […] Il en résulte parfois des tentatives curiuses, intéressantes pour le progrès d’une technique, mais point assez compltès pour la réalisation d’une œuvre et, au bout de quelques années, le mouvement avorte ou se perd en excentricités, pour avoir été entrepris trop tôt, par des bras trop faibles et dans un sentiment trop éntroit” (R. De la Sizeranne, L’Art a l’Exposition de 1900. II. Le bilan de l’impressionnisme, in “Revue des deux mondes”, vol. CLIX, 1° maggio 1900, pp. 628-651 [645-646]).

Il giudizio più esteso di Thovez sull’impressionismo, fornito a partire dal 1905, si può infatti leggere in continuità con l’articolo Le bilan de l’impressionnisme di Sizeranne, apparso all’inizio del secolo sulla “Revue des Deux Mondes”, ripubblicato nel 1904 all’interno della raccolta Les Questions Esthétiques Contemporaines edita a Parigi da Hachette.15 Un contributo che ridimensionò fortemente l’apporto del movimento, tanto nel giudizio sui suoi maestri che nell’eredità che avrebbe lasciato al futuro della pittura, relegandolo ad un fatto occasionale: “l’impressionnisme est une découverte: ce n’est pas une peinture”.16

A quella data, Thovez, considerava l’impressionismo come sintomo di una degenerazione di tecnicismi in atto, che aveva indiscriminatamente colpito l’intera Europa, dalla Germania (Max Slevogt, Ludwig Dettmann, Max Liebermann) all’Italia (Emma Ciardi, Leonardo Bazzaro, Emilio Gola) sino ad approdare alla Scozia, dove aveva però assunto un carattere di ricerca atmosferica del tutto autonomo e personale. Deriva che, pur avendo il merito iniziale di essersi posta contro l’accademismo ufficiale,17 era ben presto rientrata in quelle forme di manierismo “morbose”, sicuramente “rispettabili come tentativi” ma “assurde come risultato”, sostenute grazie al proselitismo “spesso funesto dei critici d’avanguardia […] indotti a gabellare i tentativi per risultati ed a confondere i mezzi con lo scopo”.18

Le principali accuse mosse alla fase storica del movimento francese rimproveravano all’impressionismo di aver rotto quel rapporto intuitivo e mimetico con la natura, adottando una tecnica pretestuosa, finalizzata a sortire un effetto unicamente ambientale, poco rispondente alla realtà:

L’aver ripulito le tavolozze dalle salse bituminose. L’aver iniziato l’apoteosi del grigio parve un grande trionfo, ma quante doti necessarie e capitali andarono perdute! Il quadro che era stato fin allora, come dev’esser, composizione decorativa, divenne un angolo squilibrato di realtà purchessia: ogni criterio di scelta, di nobiltà, di poesia, andò perduto. La forma, vale a dire il nucleo stesso della rappresentazione artistica, fu strapazzata ignobilmente, il carattere, l’espressione, la linea furono giocondamente sacrificati all’idolo della tonalità ariosa. […] Non mai la mobilità della natura fu più

15 R. De la Sizeranne, L’Art a l’Exposition…, in “Revue des deux mondes”, cit.; id., Les Questions Esthétiques Contemporaines, Librairie Hachette et C., Paris 1904, pp. 51-103.

16 Id., L’Art a l’Exposition…, in “Revue des deux mondes”, cit., p. 651.

17 “L’impressionismo ebbe grandi meriti, ma il non vedere quanto vi sia in esso di incompleto, di puerile, l’accettare un così barbaro abbandono d’ogni qualità di disegno, di composizione, di poesia è snobismo pericoloso” (E. Thovez, L’arte a Venezia. Il paesaggio straniero, in “La Stampa”, 27 ottobre 1903, pp. 1-2 [2]).

18 E. Thovez, L’arte Venezia. Le degenerazioni del tecnicismo. Il fallimento delle tecniche moderne, in “La Stampa”, 29 maggio 1905, pp. 2-3 (2).

calunniata e tradita, e qual lungo e faticoso cammino non ha dovuto compier l’arte per redimersi da quell’aberrazione e per ripescare le tradizioni con tanta inconsapevolezza immolate!19

Al di là delle tangenze con l’articolo di Sizeranne,20 l’unico campo in cui Thovez accoglieva le peculiarità della tecnica si limitava agli studi dal vero, nei quali la rapidità di esecuzione permetteva di “scusare qualche eccesso” della pittura impressionista, altrimenti improrogabilmente contestata (non poteva infatti sfuggirgli un certo legame con gli studi di paesaggio di Antonio Fontanesi o Lorenzo Delleani, caratterizzati proprio da un’esecuzione corsiva e abbozzata del motivo pittorico).21

L’avversione più eclatante verso le proposte transalpine si sarebbe manifestata soltanto due anni più tardi, nel 1907, per riproporsi rinnovata nelle stagioni successive, sotto forma di una serie di articoli destinati a “La Stampa”. Oltre al consueto appuntamento veneziano, che nell’occasione non riservava alcuna sorpresa particolare rispetto al passato (“L’arte europea attraversa un periodo di stasi. Nessuna personalità possente è sorta a sostituire quelle scomparse, nessun nuovo indirizzo è venuto a sconvolgere quelli universalmente coltivati”),22 Thovez si recava a Parigi – dopo sette anni di assenza –, mentre era di ritorno da un viaggio compiuto in Inghilterra durante il periodo estivo.

La pittura impressionista, ormai musealizzata nella capitale francese (nel 1894 il Musée du Luxembourg acquisì – non senza polemiche – la collezione Caillebotte, accogliendo le opere dei pittori Manet, Cézanne, Pissarro, Sisley, Redon, Degas e Renoir), trovava proprio in quel momento una celebrazione significativa e molto attesa, quella della figura di Cézanne, destinata a far parlare di sé per molto tempo. L’ampia rassegna retrospettiva, organizzata nel contesto dell’annuale Salon d'Automne (il pittore di Aix en Provence era morto soltanto da un anno), richiamava inevitabilmente anche l’attenzione del critico torinese, non totalmente a digiuno della sua fama, ormai diffusasi da tempo anche al di fuori del territorio francese:

19 Ibidem.

20 Si legga in rapporto a Thovez il passaggio: “Ce n’est donc pas, dans une œuvre d’art, en supprimant les qualités reconnues comme nécessaires: la composition, le dessin, le côté substantiel des choses, qu’on réalisera l’originalité de la coleur. C’est en les gardant toutes, en les cultivant soigneusement, qu’éclatera, parmi elle, celle qui est destinée à les faire oublier, presque à l’insu de l’artiste qui n’a cherché rien autre chose que la puissance. Pour être elle-même, l’originalité doit être non pas volue, mais subie” (R. De la Sizeranne, L’Art a l’Exposition…, in “Revue des deux mondes”, cit., p. 649).

21 Non a caso, Roberto Longhi, rileggerà proprio quella stagione dell’arte piemontese come esperienza parallela a quella francese; cfr. R. Longhi, Paesisti piemontesi dell’Ottocento, in XXVI Biennale Internazionale d’Arte, catalogo della mostra (Venezia, 14 giugno – 19 ottobre 1952), Alfieri, Venezia 1952, pp. 33-36.

22 E. Thovez, Il “vernissage” della VII Esposizione Internazionale di Arte a Venezia, in “La Stampa”, 27 aprile 1907, pp. 1-2 (1).

Da tre anni Cézanne trionfa; ma non mai come in quest’anno deve trionfare, poiché dagli sparsi saggi si è giunti ad una esposizione ciclica. Che non ho letto sulle novità, robustezza, freschezza dell’arte sua! La descrizione di certe nature morte mi destava in gola dolcezze di deglutizione estetica. L’ansia di una rivelazione mi incalzava verso il Grand Palais, dove la mostra ha luogo […]: dò appena uno sguardo alla mostra di Carpeaux, largisco appena un’occhiata alle sale della sezione belga […]: è arte bella, ma la conosco: c’è tempo per essa: è l’ignoto che mi attira: è Cézanne che voglio vedere.23

La reazione violenta, avuta dinnanzi ai pittori più giovani, ormai impadronitisi deliberatamente della lezione cezanniana,24 lasciava spazio ad una valutazione più meditata sul maestro, nella quale il critico torinese faticava a rintracciare quei pregi tanto decantati dai commentatori francesi, vedendovi solamente inutili e dannose deformazioni, imputabili ad una mancanza di tecnica piuttosto che ad una licenza di poetica. A differenza dei suoi epigoni, Cézanne appariva a Thovez come un pittore sincero ed onesto (“Il maestro mi disarma. Cézanne non è, come i suoi imitatori, un fumiste, un ciarlatano. Non vi è ombra di affettazione e di bluff nella sua opera: è un ingenuo e un sincero: egli non ha avuto che un solo torto: dipingere”), portato alla ribalta da un gruppo di mercanti e critici in malafede, non rispettosi delle limitazioni che, in vita, egli stesso aveva apertamente dichiarato: “L’austero e sincero Cézanne ebbe la coscienza della propria inettitudine. ‘Ce qui me

manque c’est la réalisation’, diceva con amarezza: in un arte figurativa è detto tutto”.25

Le considerazioni di Thovez avrebbero sollecitato reazioni immediate. Tre giorni dopo l’uscita dell’elzeviro su “La Stampa”, pubblicato il 30 novembre, Giovanni Papini, reduce dalla recente avventura di direttore della rivista “Leonardo” (conclusasi soltanto nel mese di agosto) indirizzava all’amico Ardengo Soffici le seguenti parole: “Ti mando uno stupido articolo su Cézanne di Thovez e t’invito, a nome della nuova rivista Vita d’Arte che uscirà a Siena in gennaio a scrivere un articolo su Cézanne (bisogna, però, che ti procuri le fotografie)”.26

23 Id., L’ultimo genio, in “La Stampa”, 30 novembre 1907, p. 3.

24 “Il caso mi porta dapprima in una sala di allievi, allievi, si intende, lontani nel tempo e nello spazio, come ne hanno solo i geni […]. Ho visto centinaia di esposizioni, sotto ogni cielo e latitudine, sono indurato nelle avventure del mestiere, sono avvezzo in fatto di pittura a non stupirmi di nulla, l’abito critico mi ha corazzato contro ogni sensibilità individuale, ma questa volta mi trovo di fronte all’inimmaginabile. Mi domando se per uno sbaglio di scala non sono entrato in un’esposizione umoristica: attonito, mi guardo attorno per schiarimenti ed aiuto” (ibidem).

25 Ibidem.

26 Lettera di G. Papini ad A. Soffici, 3 dicembre 1907, in G. Papini, A. Soffici, Carteggio, a cura di M.

Nel documento Enrico Thovez (1869-1925). Critico d'arte (pagine 147-200)

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