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Tipologia edilizia

I modelli per la casa veneziana medievale, elencati da Dorigo sulla base dei dati documentali, emergono con difficoltà dal palinsesto dei fabbricati attuali, soprattutto quando ci si rivolga all’edilizia minore. Un tipo di edilizia in un certo senso effimera, per definizione soggetta a continui rifacimenti, ricostruzioni e cambiamenti, in gran parte dovuta a ragioni meramente economiche. Durante la Serenissima lo sfruttamento della rendita delle case d’affitto di ragione privata pare molto accentuato. Tendenzialmente i proprietari non investivano nella loro manutenzione preferendo rifarle quando fossero sul punto di crollare, in questo modo ottenevano il massimo profitto dall’affitto non dovendo affrontare spese di restauro. Tanto che nel 1546 il Maggior Consiglio stabilì che le proprietà rovinose, se il proprietario non fosse stato in grado di occuparsene, fossero vendute al pubblico incanto per conto dei Provveditori di Comun.

La procedura prescriveva che i Provveditori di Comun mandassero il proto dell’ufficio sul posto a verificare lo stato in cui si trovavano le case, una volta accolta la richiesta di vendere al pubblico incanto fatta dal proprietario, incapace di ripristinare l’edificio in prossimità di crollo, perchè in difficoltà economica. Il compito del proto era di fare una stima in modo da stabilire il prezzo d’inizio d’asta: un esempio del 1631 lascia capire come si svolgesse l’intera faccenda. Nel caso in esame Giacomo Bondumier residente a San Piero di Castello chiese di vendere all’incanto «alcune case nella contrà di de San Domenego di Castello per mezo l’hospedal di San Piero e San Polo e tutto il suo

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terren vacuo dredo le dette case quali sono al presente da me possesse». I provveditori mandarono come di consueto il proto messer Antonio Francesco a far la stima ed egli redasse al suo ritorno il resoconto del sopralluogo:

«essendomi transferito […] in contrà de S. Piero di Castello nelle case dalle Ancore, et ivi hò visto una proprietà di doi casette in soler et doi casete a pè pian sotto le ditte doi casette, et un pezzetto di terren vacuo qual dà transito alle ditte doi casette a pè pian […] di ragion del magnifico Giacomo Bondumier […] et ivi hò visto le sudette quattro case che lli salizadi, et suoli sono tutti rotti, et le scalle delle doi case in soler sono la maior parte rotte, et disfatte, et li terrazzi sono in malissimo stato et li coperti si vede in malissimo stato per esser parte cascadi et parte per cascar, le qual case non si vede vetri di niuna sorte, et li scuri tutti rotti et desfatti, le qual proprietà confina da un capo con sua porta, et intrada, in detta calle dele Ancore Et dall’altro capo confina in una calle consortiva tra ditto messer Bondumier et la proprietà del messer Zuanne li Bianchi; Et da un ladi confina in muro comun con la proprietà di detto messer Bondumier Et dall’altro ladi confina con la proprietà di detto messer Bondumier in una calle consortiva tra ditto Bondumier et ditto messer Bianchi et altri consorti ove in tutto ben visto et ben considerato [...]per tutto ducati ottocento»125.

Non sappiamo come andò a finire la vicenda siamo sicuri però che le due casette furono senz’altro ricostruite, ma va sottolineato che il contesto proprietario in cui sono inserite nel 1631, secondo la descrizione del proto dell’ufficio, è rimasto pressochè inalterato rispetto alle informazioni che ricaviamo dalla documentazione due-trecentesca: si tratta di case inserite in una proprietà più grande con affaccio sulla calle principale e divise da due calli – una su un capo e una su un lato – dalle proprietà di altri mentre sull’ultimo lato si trova il muro di un’altra casa dello stesso Bondumier. Tutto ciò ricalca l’organizzazione di una corte originaria con una casa maior e delle casette de sezentibus, lo tradisce il pezzetto di terreno vacuo per accedere alle due casette a pe’pian, autonomizzatesi nella successiva trasformazione in ruga.

Con la caduta della repubblica il meccanismo andò in crisi e si perse ogni controllo sul parco edilizio popolare nonostante rimanesse allarmante il problema costituito dalla gestione delle case popolari malsane. La percezione del problema, infatti, si era ulteriormente aggravata anche per le nuove scoperte della medicina: uno dei fattori scatenanti le epidemiche crisi coleriche, che funestarono in Italia e in Europa tutto il secolo e parte del successivo, fu individuato nell’insalubrità delle case popolari. Ciò comportò il passaggio a una soluzione di pianificazione urbana nuova e molto più razionale, ma drastica. Fu senz’altro questa la causa principale della frattura completa

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dell’organico tessuto connettivo minore della città e generò secondariamente l’inizio dell’allontanamento dal centro delle classi meno abbienti.

Il percorso compiuto dall’edilizia minore nei secoli non è ovviamente così lineare come potrebbe sembrare dagli schemi proposti e la sua evoluzione – se tale si può chiamare - da sorta di superfetazione aderente alla casa principale a entità autonoma con lo sviluppo di case in ruga, o in corte, forse ci può rivelare aspetti diversi rispetto alla speculazione economica sul fondo urbano attivata dalla richiesta di case dei flussi demografici tra Due e Trecento126.

Per capire quanto il modus vivendi possa aver condizionato la forma assunta dalla casa, prima ancora dell’impellenza economica, è necessario fare un salto indietro verso le abitazioni della società tardo romana e soprattutto di quella altomedievale, antefatti non avulsi dalle nostre casette veneziane.

I risultati di campagne di scavo sul sedime altomedievale delle città italiane, soprattutto dell’area di occupazione longobarda come Brescia, e dell’area esarcale di pertinenza bizantina, come Ravenna, Classe, Rimini, hanno individuato sostanzialmente la presenza di tre forme di abitazioni.

Innanzi tutto si riscontra la persistenza della domus, individuata come l’abitazione delle classi agiate, formata da più ambienti dove la novità, semmai nell’età medievale, consiste nella sua trasformazione in torre (cioè in una struttura difensiva) e nella perdita progressiva di alcune specializzazioni delle stanze soprattutto in relazione ai cubicula o stanze da letto127.

Oltre a questa si osserva la presenza di due tipi di derivazione tardo antica, risultati, secondo Brogiolo128, uno dalla frammentazione della domus urbica in una serie di appartamenti unicellulari e

126 E’ comunemente accettato dalla critica storiografica che lo sviluppo urbano del XIII e XIV secolo è da attribuire al

cambiamento delle condizioni socio-economiche che si verificarono dopo il passaggio del Millennio. In particolare il migliore sfruttamento dei campi e delle condizioni lavorative dei coloni favorì l’aumento della popolazione e la sua migrazione verso la città. Cfr. GIORGIO CRACCO,Societa e stato nel medioevo veneziano: secoli XII-XIV, Firenze, Olschki, 1967, p. 35 passim; JEAN-CLAUDE MAIRE VIGUEUR, L’altra Roma, Torino, Einaudi 2011 p. 49: «Qualcosa di molto simile [alla mezzadria in Toscana che scalza le vecchie forme di insediamento sul territorio] si verifica nelle campagne attorno a Padova nel corso del XIII secolo; anche in quella zona infatti la ricerca del profitto spinge i proprietari cittadini ad allontanare dalle loro terre i contadini, che le coltivano da generazioni in cambio di canoni spesso modesti, e a creare nuove modalità di sfruttamento basate sul raggruppamento di appezzamenti, fino a quel momento sparsi, che vengono affidati al lavoro di una manodopera mobile e a buon mercato».

127 P

AOLA GALETTI, Tecniche e materiali da costruzione dell’edilizia residenziale, in Le città italiane tra la tarda antichità e

l’alto medioevo. Atti del convegno (Ravenna, 26-28 febbraio 2004) a cura di Andrea Augenti, Firenze, All’insegna del giglio, 2006, pp.67-75; ANDREA AUGENTI, Ravenna e Classe: archeologia di due città tra la tarda antichità e l’alto Medioevo, in Le città italiane tra la tarda antichità e l’alto medioevo. pp. 185-214; GIAN PIETRO BROGIOLO, SAURO GELICHI, La città nell’alto medioevo italiano. Archeologia e storia, Roma-Bari, 1998, pp. 120 e passim.

128 B

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l’altro dalla costruzione ex novo di vani rettangolari a due piani. Hanno un affaccio su corte con portico e fronte sulla strada, forse con funzioni di bottega129.

Al riguardo della supposta frammentazione dell’unità della domus può essere fatto un confronto con le iniziative prese per l’edilizia popolare tardoromana della capitale.

A Roma i quartieri popolari, caratterizzati da case di infimo aspetto, in legno, e da strade strette e tortuose dove abitava per lo più la plebs, si trovavano alle spalle dei fori. Quartieri come la Suburra, nacquero da speculazioni dei grandi proprietari immobiliari romani a seguito del grande afflusso di popolazione che, impoverita, si riversò nella capitale a partire dalle guerre puniche attratta dal miraggio delle provvigioni alimentari distribuite gratuitamente. La situazione contingente consentì ai grandi proprietari immobiliari una doppia speculazione sull’enorme massa di poveri: avere in cambio di vitto e alloggio l’appoggio politico della massa popolare e guadagnare grandemente attraverso la costruzione di alloggi infimi e fatiscenti. A partire da Augusto, a causa dei continui incendi che flagellavano quei quartieri, furono emanate delle disposizioni per regolare la costruzione nei quartieri popolari e, in generale furono approntate norme di sicurezza per impedire il propagarsi periodico degli incendi.

Fu adottata per la fabbricazione dei nuovi quartieri residenziali una soluzione caratteristica definita a insula, destinata ad accogliere le famiglie della classe media, basata su caseggiati di appartamenti. Vediamo con Mariette de Vos quali fossero le trasformazioni subite dalla domus di tipo italico nella sua elaborazione nel sistema a insula sviluppatosi durante l’impero: «1. Atrio e alae, pavimenti a mosaico bianco e non più nero; 2. Impluvi trasformati in vasca da fontana o da laboratorio; 3. Chiusura delle fauces a fianco del tablino; 4. Innesto di un vano scale in atrio, ala o cubiculo in funzione del piano aggiunto, ricavato dall’altezza totale dell’atrio; 5. Tablino adattato a triclinio; 6 alae trasformate in ripostigli con sostegni di pietra o in muratura, appoggiati sui mosaici ed agli affreschi; 7. Inserimento di camerette o ripostigli nei portici del peristilio; 8. Aggiunta di scale indipendenti con accesso dalla strada, o innestate subito dietro l’ingresso. Spesso un’altra scala, secondaria ed interna, saliva agli ambienti aggiunti sopra il tablino e la parte del peristilio, anche nelle case poco grandi»130.

In sostanza l’insula era un sistema condominiale costituito da appartamenti da cedere in affitto e botteghe poste al piano terra. Le varie leggi da Augusto fino a Traiano vietavano il loro sviluppo in altezza oltre i 60 piedi (cioè 16 metri circa) e quindi non avevano più di 4- 5 piani. «La

129Ivi,, cap. IV, L’edilizia abitativa. 130 M

ARIETTE DE VOS, La casa, la villa, il giardino. Tipologia, decorazione, arredi, in Civiltà.dei romani, Il rito e la vita privata a cura di Salvator Settis, Milano, Electa, 1992, p. 148.

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classe media abitava le case più grandi (da 120 a 350 metri quadrati) prive di botteghe, con le stanze organizzate intorno a un atrio cosiddetto testudinato, coperto, senza impluvio, con le finestre verso l’esterno e un ballatoio di legno in funzione degli ambienti di sopra»131. All’ultimo piano, di solito in

ambienti più bassi in altezza rispetto agli altri, abitavano i poveri. I piani prendevano aria e luce da un cortile interno e da finestre lungo la via. Erano presenti balconi sostenuti da mensole in travertino e da archi in laterizio. Le costruzioni si elevavano in legno da un solido basamento di pietra di altezza contenuta e a distanza regolamentata una dall’altra, con cortili di dimensioni contenute, provviste di portici affacciate su larghe strade132.

Tacito sostiene che ciò procurò molto abbellimento alla città (Annales XV, 43). Rimane traccia di questi tipi a insulae a Ostia e a Roma nei ritrovamenti alle pendici del Campidoglio riferiti a caseggiati fatti costruire da Adriano, altre insulae furono costruite ai lati dell’attuale via del Corso, l’allora via Flaminia, con ampi portici che si aprivano lungo la strada.

Durante l’impero è attestata in Roma un’avanzata spettacolare delle case ad insula contro le

domus ad atrio, fenomeno dovuto alla perdita d’importanza della classe aristocratica – senatoriale

decretata da Augusto, per cui vengono meno le case di rappresentanza della classe senatoria. Il trionfo personale è permesso solo all’imperatore133.

Oltre alle insulae «esistevano anche delle casette tipo, ideate secondo un progetto modulare che schiera gli ambienti “a pettine” lungo un corridoio: unità abitative moltiplicate in orizzontale e in verticale, messe in fila frontalmente, cioè con le finestre che si guardano o addossate coi rispettivi muri di fondo»134.

Vediamo invece come si presentasse una domus, l’abitazione mantenuta come residenza dalle classi più alte. Già nel II secolo a.C. «Nonostante il carattere signorile le residenze […] non disdegnavano commercializzare la facciata con botteghe aperte sul fronte strada, affittate a i liberti o gestite da schiavi per la vendita al dettaglio delle derrate padronali. L’abitazione del bottegaio (da 16 a 50 metri quadrati) veniva ricavata dal retrobottega e /o da un soppalco (pergula) con scala di accesso lignea allestita in un angolo. Quel modo di abitare accanto oppure incorporati in case signorili o edifici pubblici oppure in botteghe a sé stanti seriate lungo le strade principali, riflette l’articolata struttura

131 MARIETTE DE VOS, La casa, la villa, il giardino. Tipologia, decorazione, arredi, p. 147. 132 PAUL ZANKER,La città Romana, Roma Bari, Laterza, 2013, pp.78-79.

133D

E VOS, La casa, la villa, il giardino, pp. 140-154.

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economica –sociale romana135. Le caratteristiche evidenziate da De Vos136 sono rintracciabili nel De Architectura di Vitruvio dove parla della tipologia sociale della casa romana e della funzione dei

singoli ambienti. Infatti nonostante Vitruvio scriva rispecchiando le abitudini di una società ancora repubblicana, tuttavia si stava già preparando un cambio radicale poi completato dalle trasformazioni messe in atto da Augusto dopo la fine del I sec. a. C.

Le domus, con aula absidale per le udienze, fornite di balneum e di sale tricore o polilobate decorate con sculture, si articolavano affiancando dei locali, chiamati a tutti gli effetti case, usati per abitazione da una congerie variegata di popolazione che andava dal liberto, al servo, con botteghe soppalcate (in solario) a uso di abitazione dell’artigiano/commerciante sia che fosse libero che servile137.

Ci vengono da più parti conferme che questa forma a complesso fosse la tipologia comune della domus romana: ad esempio dalle testimonianze delle prime funzioni ecclesiali, allestite spesso all’interno di una domus. A Roma una presunta domus ecclesiae, sorta sul Celio nel V secolo a fianco della basilica dei Santi Giovanni e Paolo, era una casa composta al piano superiore da una sala e al piano terreno da locali che in origine si locavano a tabernae, decorati nel IV secolo con pitture cristiane. La casa aveva un ammezzato dove sul finire del IV secolo si costruì una confessio con reliquie di martiri138.

Come, e più della capitale, le stesse città coloniali erano organizzate in insulae139 e allo stesso modo la domus patrizia accoglieva nel suo nucleo tutti i facenti parte della “famiglia” intesa in un senso che a noi non è più abituale, con gli annessi di schiavi, servi, liberti, e botteghe sia per la produzione artigianale sia per lo smercio dei prodotti, sia d’affitto che non.

In conclusione possiamo affermare che nella città romana tardo antica le tipologie abitative era sostanzialmente tre: due afferenti alle classi medio-basse e una all’aristocrazia.

Le due medio basse erano dei complessi abitativi a insula o a ruga, entrambe con cortile interno, finestre che davano sulla via, piani solariati a cui si accedeva tramite una scala lignea, un porticato con botteghe dove potevano trovarsi locali per la residenza della famiglia artigiana, cioè è

135DEVOS, La casa, la villa, il giardino. Tipologia, decorazione, arredi, pp. 140-154.

136VITRUVIO POLLIONE,Architettura: dai libri I-VII, introduzione di Stefano Maggi; testo critico, traduzione e

commento di Silvio Ferri, Milano: Biblioteca universale Rizzoli, 2002.

137

DE VOS, La casa, la villa, il giardino. Tipologia, decorazione, arredi, passim.

138 L

UCIA FAEDO, Nascita della tipologia architettonica delle chiese cristiane, in Il rito e la vita privata a cura di Salvator Settis, Milano, Electa, 1992, pp. 89-100.

139 Le misure standard dell’insula nelle città coloniali di età repubblicana sono di metri 80x80, cfr. CRISTINA LA ROCCA

HUDSON, “Dark Ages” a Verona. Edilizia privata, aree aperte, strutture pubbliche in una città dell’Italia settentrionale, «Archeologia medievale» 13 (1986), p. 55.

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descritta la fisionomia di una domus che aveva perso l’unità complessiva parcellizzandosi in appartamenti scanditi linearmente o in altezza.

La terza o residenza magnatizia non si differenziava peraltro dalle precedenti se si eccettua la condizione degli abitanti. Il complesso infatti era abitato da un nucleo aggregato composto dal gruppo famigliare del proprietario, dai suoi schiavi o servi, dai suoi liberti. Questi ultimi erano per lo più artigiani e commercianti che oltre alla propria residenza avevano spesso anche la bottega, per dirla con un’espressione tipica italiana erano “casa e bottega”. Troviamo riscontro di un panorama, dunque, per niente dissimile da quello che sembra emerso dagli scavi che hanno restituito fasi altomedievali di vita urbana. Tuttavia se consideriamo che nell’età tardo antica verrà meno proprio la classe media140 che abitava nelle insulae spesso in affitto, allora potremmo concludere che la novità abitativa, riguardò principalmente il modello della domus quale residenza di un vasto gruppo famigliare che si espande in un’insula ricompattata nei volumi: concordiamo con Paola Galetti che pensa che la documentazione del tardo impero romano di area ravvenate da lei consultata possa «rimandare alla trasformazione di domus signorili modulate secondo il modello classico in abitazioni diversamente strutturate, a corpo unitario, compatto, di più modesta dimensione, attraverso il recupero di materiale lapideo in esubero e associato anche ad altri materiali, deperibili e non. Si potrebbe parlare di un nuovo modello costruttivo che venne posto in essere, testimoniato, d’altronde, dalle stesse carte ravennati: strutture architettoniche volumetricamente compatte, caratterizzate dalla scomparsa dei peristili e delle aree scoperte cortilive interne alle mura domestiche, ora situate davanti, dietro, a lato delle abitazioni, che potevano essere pedeplane, o, più frequentemente, con anche un piano superiore, ma mantenevano una destinazione funzionale ben precisa degli spazi al loro interno»141.

140 La crisi economica che colpì l’impero a parire dal III secolo d.c. (cfr. l’analisi condotta da A.H

UGO M.JONES, Il tardo impero romano 284-602 D.C, Milano, Il Saggiatore, 1973, 2 vv.) condusse a lungo andare a un appiattimento sociale a scapito della stessa classe media che inizialmente se ne era avvantaggiata ed era stata la principale promotrice del messaggio cristiano. Si veda JACQUES LE GOFF, Cultura clericale e tradizioni folkloriche nella civiltà merovingica, in Tempo della chiesa e tempo del mercante, Torino 1977, a p. 195 «All’inizio del IV secolo, il cristianesimo era soprattutto diffuso nelle classi urbane medie e inferiori, mentre le masse contadine e l’aristocrazia ne erano appena toccate. Ora la contrazione economica e lo sviluppo della burocrazia determinano la promozione di quelle «middle and lover urban classes» in cui il cristianesimo era già forte. Questa promozione comporta la penetrazione cristiana. Ma quando il trionfo del cristianesimo si precisa, le classi che lo hanno introdotto sono in pieno regresso. Il cristianesimo sfugge al crollo delle fragili sovrastrutture del basso Impero, ma disolidarizzandosi dalle classi che hanno assicurato il suo successo e che l’evoluzione storica fa scomparire. Il ricambio sociale dell’aristocrazia, poi delle masse contadine, impianta il cristianesimo; a costo però di numerose distorsioni, particolarmente sensibili nel campo della cultura.»

141 PAOLA GALETTI, Tecniche e materiali da costruzione dell’edilizia residenziale, in Le città italiane tra la tarda

antichità e l’alto medioevo. Atti del convegno (Ravenna, 26-28 febbraio 2004) a cura di Andrea Augenti. Firenze, all’insegna del Gglio, 2006, p.72.

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Della medesima idea di Galetti risulta essere anche Cristina La Rocca Hudson che nell’articolo già citato “Dark Ages” a Verona. Edilizia privata, aree aperte, strutture pubbliche in una città dell’Italia

settentrionale del 1983, sottolinea la permanenza quasi inalterata nell’utilizzo a scopo abitativo delle

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