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Tommasa Apolloni

Mi ricordo come se fosse adesso di quando la mattina dopo sono an-data sul Sant’Angelo. Io, l’esperienza, la dico a parole povere. Avevo undici anni e ci sono andata con mia madre e le sue sorelle perché una di loro, zia Rosa, stava di casa vicino al monte e parlava coi partigia-ni; poi c’era un’altra parente, Assunta, che ci parlava perché stava da quelle parti e anche il marito era amico dei partigiani. E poi li cono-scevo anch’io quelli che sono stati ammazzati sul monte Sant’Angelo.

Noialtri abitavamo vicino alla chiesa; nel mese di Maria la sera andavamo sul piazzale e lì c’erano anche Cappannini, Patrignani e altri. Cappannini era un bel ragazzo, Patrignani era alto e biondo.

Erano belli belli. Ero una ragazzina però mi ricordo bene di loro.

Quella mattina mentre salivo sul monte c’avevo una gran pe-na ma li volevo vedere perché io li conoscevo. Erano diventati tut-ti neri e cortut-ti ché i tedeschi avevano sparato con il lanciafiamme.

Una zia molto coraggiosa li toccava col bastone, sembrava che non ci potesse credere …

Abbiamo visto anche i corpi di due fascisti dentro una piccola fossa, ma ce ne erano undici di fascisti sul monte che i partigiani avevano fatto prigionieri a aprile quando avevano attaccato la caser-ma fascista alla miniera SNIA di Cabernardi.

La mattina che sono arrivati i tedeschi ero a letto con i fratel-li e mamma ha fatto: “Zitti un po’ monelfratel-li che ho inteso sparare.”

Dopo s’è saputo quello che era successo sul monte … che, ‘sti parti-giani, dice che l’abbiano legati sulle greppie sfregiati e martirizzati;

poi dopo da Arcevia sparavano da pazzi col cannone verso la casa dei coloni Mazzarini.

C’è uno slavo sepolto su al cimitero di Costa, uno che era di

sen-tinella quando sono arrivati tutti quei tedeschi sul monte e corre-va ad avvisare gli altri che dormicorre-vano. Ma gli hanno sparato con la mitragliatrice e gli hanno portato via la testa di netto.

Al tempo del passaggio del fronte eravamo in un gruppo di ca-sette a colle Vigneto con altre quattro o cinque famiglie; c’erano anche i Renzi con il povero Aldo, con Elio. È successo che sono ve-nuti da noialtri otto soldati tedeschi. Siccome c’era un magazzino vicino a casa con una scala di legno tutta sgangherata quegli otto soldati andavano a dormire lassù. I nostri uomini rimanevano na-scosti durante il giorno dato che il comando tedesco si trovava un po’ più in alto a circa un chilometro di distanza e quei soldati ci di-cevano che gli uomini non si dovevano far vedere sennò venivano ammazzati anche loro.

Una volta è arrivata da noi a prendere il fieno la famiglia che cu-stodiva i cavalli del comando tedesco. La mattina il babbo mungeva le mucche e prendeva il latte per farci fare la colazione perché sei figli erano tanti. Quando vedo che cominciano a inforcare il fieno io pren-do su per la scala busso ai tedeschi e dico: “Non ci fate portare via il fieno che dopo le vacche ci muoiono e noialtri, il latte, non lo possia-mo comprare.” I tedeschi vengono giù e fanno a quelli: “Raus raus.”

C’era la povera mamma che finché è vissuta ogni tanto mi dice-va: “Che coraggio hai avuto quella volta che ti sei permessa di an-dare a bussare ai tedeschi …”

Eh, quando ho visto la tale che con il marito era venuta a pren-derci il fieno allora io su per quella scala; e per fortuna che c’era il maresciallo italiano che ha fatto da interprete!

Dopo noialtri tante volte abbiamo dato a quei soldati la roba dell’orto, coglievamo le prugne e gliele mandavamo da mia sorella che aveva due anni. Uno l’accarezzava e diceva che aveva una bam-bina anche lui in Germania. Quella volta che i tedeschi del coman-do sparavano con il cannone sul cimitero di Costa e io m’ero messa a strillare dalla paura attaccata alla gonna di mamma, i soldati sono venuti a dire di non avere paura perché lì c’erano anche loro e sicu-ramente non ci sparavano.

Bellisio è un paese che sta oltre il monte Sant’Angelo, sta a Car-bernardi dove c’era la miniera di zolfo, un pochettino più sopra.

Chi c’aveva i tacchini chi le pecore i contadini a Bellisio e tutti li portavano a pascolare per la campagna dove c’era anche gente che mieteva con la falcinella a mano.

Ma i cacciabombardieri si abbassavano sui campi mitragliavano e poi riandavano su mentre tutta quella gente urlava urlava e cor-reva sotto le piante.

C’è stato anche uno scontro tra i partigiani e i fascisti a Bellisio.

Qualche minuto prima noi andavamo con l’orcio sulla testa a pren-dere l’acqua e abbiamo visto i partigiani che correvano per la strada poi si sono messi su un poggetto con la mitragliatrice. Babbo dice:

“Andate dentro casa e se avete visto chi c’era non dite niente a nes-suno per carità!” C’erano Santino Checco Dario e sono morti tut-ti. Noi conoscevamo i partigiani; babbo aveva lavorato in miniera con quei ragazzi.

Finita la guerra qualcuno di loro nonostante tutti i sacrifici fatti non trovava lavoro ed è andato a finire in Belgio. Mio padre dopo diciotto anni di miniera è stato licenziato in tronco, e pensare che c’aveva fatto due matrimoni, con la miniera: prima s’era sposata mia sorella e dopo circa un anno m’ero sposata io.

Quando babbo ha perduto il lavoro noialtri ci siamo ritrovati a fare i contadini sotto padrone che quello che abbiamo sofferto non si sa. Non dimenticherò mai la vergogna che ho provato un giorno che mamma aveva fatto i tagliolini che non mi piacevano e io mi ero presa un pezzo di pane nel forno ed ero andata a raccogliere un pomodoro nell’orto. La padrona mi vede chiama il babbo e gli di-ce: “Quella monella è andata a prendere l’uva e se la mangia tutta.”

Per fortuna che il padrone non le ha creduto!

Giorni fa al mercato a quelli che ce l’avevano coi comunisti ho detto: “Basta che non riandiamo a finire come prima che ci doveva-mo mettere in ginocchio per avere la terra da lavorare.” E poi dopo il padrone ti veniva a portare via la miglior parte e a te che lavoravi

rimaneva poco o niente. Si chiamava mezzadria ma niente era fatto a metà. A Natale i capponi erano per i padroni, se c’era un paio di galli era per i padroni, se facevi il formaggio le migliori forme erano per i padroni perché venivano subito a spartire dopo che avevi la-vorato. E la povera mamma andava a fargli le pulizie a casa e faceva anche il bucato tanto che ancora qualcuno mi dice che quei panni profumavano. Ma non le davano una lira per i sacchi di biancheria che lavava e neanche per la cura del panno ché quella volta, la roba per le lenzuola, l’abbiamo tessuta io e mia sorella che ci siamo date da fare a filare. E a dire la verità a noi non è mancato un bel corre-do quancorre-do ci siamo sposate; soltanto che a me piaceva studiare e ho pianto quando i genitori mi hanno fatto lasciare la scuola dopo la terza classe elementare. Ma non potevano mandarmi a scuola po-veretti nonostante tutta la fatica.

Ho preso il diploma di quinta elementare successivamente per passare di ruolo come bidella perché io sono stata vent’anni nella scuola dopo che mio marito, all’età di 39 anni, ha perso una gamba giù alla cava di pietra: portava la pala meccanica quando è venuto giù un masso che gli ha colpito la gamba. Sei anni dopo un male incurabile me l’ha portato via. M’ha lasciato con un figlio di quat-tordici anni. C’era Giacchini come sindaco quando a me è stato da-to il lavoro nella scuola.

Ma io ho cominciato a lavorare a vent’anni, custodivo dodici bestie a Barbara; i padroni erano italiani però stavano in America, e mi hanno messo le marchette. Nel periodo in cui mio marito lavo-rava alla cava mio suocero era pensionato ed io ero coltivatrice di-retta ci siamo potuti comprare una casetta con un pezzetto di terra.

Adesso ho settantaquattro anni. Ho lavorato tanto e il lavoro è stato duro ma sono stati i dispiaceri che m’ hanno abbattuto, pri-ma le paure della guerra poi lo shock per l’incidente che è capitato a mio marito e dopo il dolore quando mi è morto. Io soffro d’an-sia. Mio marito era un brav’uomo e un gran lavoratore; dopo la sua morte mi ha dato conforto e la forza di andare avanti mio fi-glio perché è sempre stato un bravo ragazzo proprio come il padre.