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tra istituzione e cambiamento Un ricordo personale

Nel documento Costruire un nuovo curricolo (pagine 52-58)

di Maria Floretta

Il primo giorno che arrivò a Trento Draghicchio si fermò poco nella sede dell’IPRASE, che si trovava in una scuola elementare destinata alla demolizione in Via Tommaso Gar. Trovò ampi corridoi con un usciere all’ingresso e nelle aule i nuovi grandi uffici con un ragio-niere, una segretaria ed io. Niente altro.

Io ero stata assegnata all’IPRASE, dove rimasi cinque anni, dopo che avevo accolto con curiosità e con un po’ di incoscienza l’invito dell’assessore Tarciso Grandi di trasferirmi temporaneamente in Pro-vincia per lavorare al progetto di proPro-vincializzazione della scuola tren-tina. Insegnavo da più di vent’anni, prima alle elementari, poi alle medie e alle superiori, avevo voglia di fare un’esperienza diversa. Que-gli anni furono importanti e preziosi per me, mi aiutarono a cambiare lo stile professionale e le modalità di relazione con gli altri. Ebbi spesso la sensazione di vivere un’esperienza eccezionale, accanto a persone capaci di mettersi in gioco e di provare esperienze innova-tive, di vivere dentro una comunità che cercava insieme percorsi ef-ficaci nella didattica e nello studio, con solidarietà e amicizia, e il Direttore seppe essere il motore di tutto, un riferimento e un esempio indimenticabile.

Mi piaceva la sua idea di scuola, costruita a partire dalla espe-rienza di maestro nel vivace e affettuoso contatto con gli scolari, e cresciuta attraverso uno studio infaticabile della pedagogia, della fi-losofia, della matematica che coltivò sempre con passione. Mi pia-ceva il suo modo di stare dentro il sistema scolastico, una macchina burocratica complessa e farraginosa, dove tuttavia lui riusciva a muo-versi con disinvoltura, con creatività, con fantasia, usando ogni varco per raggiungere i suoi obiettivi. Mi piaceva la cordialità e la comuni-cativa con cui si presentava agli interlocutori, in ufficio, nelle scuole, nei convegni, nelle occasioni informali. Non erano solo tratti carat-teriali, ma scelte elaborate e perseguite in funzione di una pienezza di vita e di lavoro che riteneva irrinunciabili. Quando lessi “Scuole di vita”, che Draghicchio scrisse nei suoi ultimi anni, mi sembrò di ri-vederlo al lavoro e di risentire le sue narrazioni. Era un grande

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contatore di storie e di aneddoti, sapeva toccare tutti i registri dal co-mico al drammatico, con una grande memoria e una bella voce. Gli piaceva avere un uditorio ampio e raccogliere l’attenzione su di sé, ma spesso nelle pause del lavoro, davanti a un caffè o nei trasferi-menti in macchina raccontava e rifletteva in tono più sommesso, quasi per rivivere i momenti significativi della sua vita. Di quel libro ricorderò qui qualcuno dei tanti passi che mettono in luce la costru-zione di un carattere e un percorso umano che lo hanno portato a lasciare un segno così duraturo nella scuola e nelle persone che hanno lavorato con lui. A distanza di tanti anni, lontana da un mondo scolastico e da istituzioni ormai totalmente cambiate, ciò che per me è rimasto e rimane vivo di quegli anni è legato ad un modo di lavo-rare, di lavorare insieme, di sentirsi nello stesso tempo “il ponte e la pietra” (Scuole di vita, pag. 172).

Avevo incontrato Draghicchio a Bergamo, dove eravamo andati a partecipare ad un suo convegno sui problemi della valutazione del sistema scolastico, durante il quale aveva presentato il risultato del lavoro svolto negli ultimi anni come Provveditore agli studi di quella città. Avevo colto il rispetto e l’affetto che lo circondavano, e anche la vastità e la profondità del lavoro che insieme a centinaia di presidi e insegnanti aveva realizzato. Quel lavoro e quel clima erano qual-cosa di nuovo e inaudito, per me. Mi chiedevo come avrei potuto es-sere capace di entrare in una dimensione di lavoro totalmente nuova e sconosciuta, senza avere competenze scientifiche o organizzative particolari e mi chiedevo come la scuola avrebbe accolto proposte nuove e metodi di lavoro più coinvolgenti. Ma ero fiduciosa, anche a Trento nella scuola lavoravamo bene, c’erano tanti insegnanti bravi e pieni di idee e c’era attesa per la provincializzazione. Da diversi anni nelle altre regioni gli insegnanti avevano gli IRRSAE che si occupa-vano di aggiornamento, sperimentazione e ricerca. A Trento, nel mo-mento del passaggio della scuola alla Provincia, l’IPRASE era stato disegnato con una formula innovativa e ora, insieme al consiglio di amministrazione, toccava al nuovo Direttore dargli una testa, un cuore, le gambe per camminare.

Quel primo giorno a Trento, dopo aver dato un’occhiata alla sede, Draghicchio mi chiese di accompagnarlo negli uffici che avevano competenze nei diversi ordini di scuola e nel mondo della forma-zione, e cominciammo dal servizio istruzione della provincia, sovrin-tendenza, formazione professionale, scuola dell’infanzia.

Ai funzionari o dirigenti che incontrava poneva domande precise sull’organizzazione, sui dati disponibili, sui progetti in corso, sulle re-lazioni e gli scambi tra i diversi uffici. Ascoltava tutti con grande at-tenzione e cominciò a costruire la sua mappa del sistema scolastico provinciale, dei punti di forza e dei vuoti, per poter inserire il nuovo istituto in una situazione complessa e articolata. Nello stesso tempo

cominciò a tessere rapporti con tutte le persone incontrate, che lo accoglievano con toni diversi, dalla curiosità alla diffidenza. La co-struzione di relazioni tra le persone, la ricerca costante di mantenere e migliorare i rapporti per dare vita ed una vera comunità operativa, animata da spirito di collaborazione, rimase una costante nel suo modo di operare e fu un fattore di efficacia molto importante in or-dine al raggiungimento delle finalità dell’Istituto.

In poco tempo gli uffici dell’IPRASE si animarono: presidi, diret-tori, insegnanti portavano proposte e iniziative, partecipavano a in-contri, raccontavano la scuola che avrebbero voluto. Draghicchio elaborò il progetto per il nuovo Istituto, presentato al Consiglio di am-ministrazione e alla comunità scolastica, progetto che lo inseriva nel

“sistema scuola” trentino e lo collegava con tutto ciò che era già ope-rativo, delineandone le finalità e le molteplici collaborazioni. I settori della ricerca, dell’aggiornamento, della sperimentazione e della do-cumentazione apparivano strettamente collegati e radicati ognuno nell’esperienza viva della scuola in un rapporto di scambio continuo.

Nei suoi primi anni l’istituto conquistò spazio e credibilità nella scuola trentina, diventò un centro di riferimento non solo nella nostra provincia ma anche a livello nazionale, riuscì a superare difficoltà e contrasti ea far crescere una mentalità innovativa e propositiva nelle scuole e negli operatori. Raccoglieva e potenziava la ricca eredità di esperienze in atto, introduceva nuovi protagonisti, obiettivi e metodi, creava dibattiti e confronti, suscitava anche resistenze e conflitti. Ci impegnammo molto per costruire una nostra immagine e un nostro stile in rapporto a tutti gli interlocutori. Il Direttore chiarì subito che da ognuno di noi che lavoravamo lì dipendeva l’immagine dell’Isti-tuto. Chi telefonava o veniva in ufficio anche per un breve contatto si sarebbe costruito un’idea di IPRASE che poteva durare anche per lungo tempo, soprattutto se non positiva. Su questo stile di acco-glienza, di risposta, di affidabilità il suo esempio fu costante. Riceveva e ascoltava tutti, con attenzione e curiosità. Tutte le idee e proposte, anche le più vaghe, suscitavano il suo interesse. Ricostruiva il retro-terra culturale o sociale che potevano averle generate, le riportava in un orizzonte più condiviso, cercava una prospettiva in cui potesse darle senso. A volte richiamava l’interlocutore e gli presentava quel-l’idea in una luce nuova, ragionevole e realizzabile, e scoprivamo che ci eravamo arricchiti tutti di un pezzettino di cultura e nuova.

Aveva un grande rispetto per l’amministrazione pubblica, sentiva la responsabilità di essere al servizio dei cittadini e non si rifugiò mai dietro a una norma o un cavillo per giustificare una scelta. Nel suo libro attribuisce ad un direttore generale del ministero un criterio che spesso citava: “Di fronte a un problema devi decidere secondo l’obiet-tivo che ti sei posto, che deve essere quello di migliorare il servizio.

Così anche se la norma non lo prevede, è ambigua, o addirittura

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traria alla tua decisione”. E poco sotto: “Quella dell’innovazione è stata una pulsione cui ho sempre dato ascolto: mi è andata quasi sempre bene” (Scuole di vita, pag. 175).

Nella sua mente erano sempre vivi e presenti la luce del sole e del mare di Parenzo, la libertà e gli affetti di un piccolo mondo che nel ricordo appariva perfetto. Ci tornava con vero trasporto, come ad attingere ancora energia e forza vitale da quelle terre luminose, da quella grande e felice libertà dell’infanzia, dagli affetti di un’ampia cerchia familiare, dalla complicità di tanti amici avventurosi. Il suo pensiero tornava spesso e quasi incredulo alla drammatica fine della giovinezza e di quel piccolo paradiso: la guerra, la fuga, l’esilio defi-nitivo, la perdita di tutti i beni, l’improvvisa necessità di farsi carico del suo futuro e di quello di tutta la sua famiglia in un’Italia poco co-nosciuta e distrutta anch’essa dalla guerra. Questi due poli estremi e contrapposti avevano segnato la sua vita e riemergevano spesso.

Si era impegnato con determinazione dichiarata a liberarsi da ogni residuo di autocommiserazione o di rancore e li aveva elaborati in una filosofia di lavoro e impegno civile che non arretrava mai. Con la stessa determinazione si impegnava a liberarsi dai piccoli risenti-menti e dalle arrabbiature che inevitabilmente si incontravano nei percorsi quotidiani. Voleva che la mente e il cuore fossero liberi da negatività e zavorre, protesi in avanti e non rivolti a inutili rancori su fatti passati.

La capacità e il gusto di lavorare erano straordinarie: “ai miei figli ho sempre detto che più si lavora meglio si sta, che lo diceva anche mio padre. Il lavoro impegnativo è anche il miglior lavoro” (Scuole di vita, pag. 106). Draghicchio riceveva persone, organizzava, proget-tava, realizzava con un ritmo sostenuto e costante e senza dare mai segni di stanchezza. Con lui capitava di lavorare anche 12 ore filate e poi sentirsi contenti, appagati per le cose fatte, per il clima di col-laborazione, per i reciproci riconoscimenti dell’impegno e dello sforzo, anche quando non tutto riusciva nel modo voluto.

Il clima di accoglienza, condivisione, coinvolgimento è stato il tratto nuovo e caratterizzante dell’IPRASE. Su questo il Direttore in-vestiva molto, perché questo corrispondeva al suo carattere più pro-fondo ma anche a un metodo di lavoro, che così descrive: “Ci si convinse che i migliori risultati si sarebbero potuti ottenere solo la-vorando tutti insieme, per conoscersi, per aiutarsi, per emularsi, per ottenere risultati programmati. L’autonomia in fondo poteva servire solo se si conosceva dove ci si trovava, dove si trovavano gli altri, cosa si poteva fare insieme per migliorare, come si poteva essere di esem-pio agli altri” (Scuole di vita, pag. 171). Lo stare insieme non riguar-dava solo il lavoro: “Non c’è dubbio che attorno ad unabuona tavola si allacciano buone amicizie che poi servono anche a migliorare il lavoro” (Scuole di vita, pag. 134). Molti incontri tra insegnanti e presidi

furono organizzati in forma residenziale, certo anche grazie ad un bi-lancio abbastanza generoso, ma soprattutto per creare una rete in-terpersonale e una comunità di lavoro che per molti anni si mantenne con risultati di rilievo. C’era sempre la voglia di coinvolgere tutti, anche gli irriducibili, gli scontenti, gli ostili, che Draghicchio credeva sempre, e forse ingenuamente, di poter recuperare e cam-biare: “Più una persona si sente amata, quasi sempre riesce ad amare anche lei” (Scuole di vita, pag. 134).

Il lavoro svolto dall’IPRASE nei primi anni, con i molti progetti ri-volti a migliorare l’insegnamento, la professionalità dei docenti, l’or-ganizzazione delle scuole, la valutazione e l’autovalutazione, è stato potente motore di innovazione e di cambiamento. Ma per tutti quelli che hanno lavorato insieme a Draghicchio mi sembra che il ricordo più profondo sia quello della sua apertura mentale, della sua gene-rosità umana, della sua allegria, del coinvolgimento che sapeva su-scitare. Un modo di vivere le relazioni umane e l’organizzazione all’interno delle istituzioni che anche in me ha lasciato un segno pro-fondo e che ho cercato di far rivivere nel mio percorso di lavoro e di vita. E di cui continuo ad essere grata al mio Direttore.

Bibliografia

Draghicchio E. (2013) Scuole di vita. Format Edizioni, Bologna.

Nel documento Costruire un nuovo curricolo (pagine 52-58)