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Trabucco, Gli strumenti economico-finanziari dell’Unione europea per fronteggiare le conseguenze della pandemia causata dal Covid-19 ,

Covid-19 e diritti dei lavoratori , Consulta giuridica CGIL, Ediesse, 2020.

D. Trabucco, Gli strumenti economico-finanziari dell’Unione europea per fronteggiare le conseguenze della pandemia causata dal Covid-19 ,

in Diritto pubblico europeo – Rassegna online, n. 2/2020.

In generale, si segnalano i contributi ospitati presso

l’”Osservatorio Emergenza Covid-19” di Federalismi.it;

Vorrei partire dalla metafora del Kintsugi evocata nella presentazione a questo volume. In questo periodo, i nostri diritti costituzionali sono stati sconvolti e qualcosa nel modo tradizionale di concepirli sicuramente si è rotto. Eppure, la possibilità di ricostruire il dibattito attorno alle nostre libertà, con qualche elemento di novità in grado di impreziosirlo, non è venuta meno.

La mia breve riflessione parte dalla constatazione che i diritti subiscono sempre un’inevitabile compressione nelle situazioni di emergenza. Molti hanno sostenuto che, in questa specifica situazione, essi sarebbero stati eccessivamente compressi, tanto che qualcuno ha parlato di una minaccia alla tenuta del sistema costituzionale e qualcun altro di uso arbitrario del potere pubblico. Ora, sicuramente vi è stato un utilizzo di fonti del diritto (soprattutto i famigerati Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri - DPCM, ma anche varie forme di

ordinanza da parte dei Presidenti delle Giunte regionali e di molti sindaci) che si può discutere sotto tanti profili. Sicuramente vi è stata una forte limitazione dell'intervento del Parlamento. Certo, vi è stata una sospensione del funzionamento ordinario della giustizia. Tutto questo ha avuto un impatto sul funzionamento complessivo della democrazia e, d’altra parte, non nego che vi siano state alcune forzature sotto il profilo dell'uso corretto e ordinato delle fonti del diritto. Vorrei tuttavia provare a inquadrare questi problemi entro una cornice per quanto possibile realistica, ossia esplicativa dei fenomeni e degli inevitabili problemi di funzionamento di un ordinamento costituzionale in situazioni di emergenza.

La premessa generale da cui partire è la presa di coscienza che si è verificato un accadimento costituzionalmente rilevante, un fatto oggettivo ed esogeno di ampia portata che ha inciso sulle nostre vite senza − e questo è il punto − che potessimo ricondurlo direttamente all’azione e alla responsabilità del potere politico. Da questo punto di vista, è vero che sono state compresse alcune libertà fondamentali e che questo è avvenuto, in alcuni casi, mediante un utilizzo per così dire “disinvolto” di alcuni strumenti dell'ordinamento giuridico (si pensi alla nostra libertà di circolazione, a quella di culto, di riunione, di associazione ma anche al diritto di difesa in giudizio e alle libertà economiche, così come al diritto al lavoro e al diritto all'istruzione). Senza negare che tali limitazioni si siano verificate, vorrei tuttavia provare a rovesciare il discorso, e mostrare le ragioni che rendono tutto ciò, a determinate condizioni, compatibile con l’ordinamento e addirittura indispensabile alla sua tenuta.

Noi siamo abituati a considerare la democrazia costituzionale come la forma organizzativa della società e dello Stato in cui tutto è prevedibile a priori, riconducibile a procedure predeterminate predeterminabili. Un mondo statico, un mondo senza storia, o comunque un contesto in cui la storia è finita. Di conseguenza, una costituzione che non sia in grado di disciplinare ogni singolo aspetto della vita è considerata come

incompleta. Al contrario, dobbiamo accorgerci e accettare che l’emergenza è qualcosa che non sta fuori dalla costituzione, ma − al contrario − ci costringe ad atti extra ordinem, non immediatamente ed esplicitamente riconducibili all’ordinamento costituzionale. È proprio l'emergenza, per la verità, a svelare il volto più sincero della democrazia costituzionale. La democrazia, proprio perché è un sistema intrinsecamente fragile nella sua pretesa di controllare il potere sottoponendolo al diritto, ossia a procedure formalizzate e tendenzialmente predeterminate di produzione della decisione politica, scommette sulla capacità di quel sistema di non andare in pezzi quando l’emergenza lo mette alla prova, di non rompersi quando è costretto ad adeguarsi all’emergenza e, al contempo, di non snaturare le sue caratteristiche essenziali.

Questo, si badi bene, non significa ovviamente giustificare sempre e comunque tutte le misure limitative dell'ordinario svolgimento della democrazia costituzionale: esse sono ammesse solo in quanto proporzionate e temporanee.

Partiamo dalla proporzionalità. Si dice normalmente che le limitazioni ai diritti costituzionalmente garantiti possono talvolta ritenersi ammissibili, ma soltanto a condizione che risultino proporzionate rispetto al valore, a sua volta di rilievo costituzionale, in nome della difesa del quale sono state assunte. Il problema è che una obiettiva valutazione della proporzionalità in concreto di provvedimenti presi urgentemente per fronteggiare accadimenti improvvisi e inaspettati come quello di cui stiamo discorrendo è molto difficile - se non impossibile - salvo “casi limite” su cui tutti possiamo convenire ma che per fortuna non si danno in natura. Che il rispetto della proporzionalità vieti, per fare un esempio, di ordinare all’esercito di sparare a vista contro chi provi a forzare una “zona rossa”, non è certo controvertibile; ma è altrettanto incontrovertibile che nessun governante italiano ha mai proposto, né mai proporrebbe, nulla di simile. Il problema è che, fuori da inverosimili casi di scuola, la natura “proporzionata” di una

specifica misura dipende il più delle volte dalla soggettiva scala delle preferenze di ciascuno. Il giudizio di proporzionalità è sovente difficile da distinguere da un giudizio di merito sul contenuto delle misure di volta in volta adottate. Ed è quindi sommamente insidioso infilarsi nel vero e proprio ginepraio di opposte interpretazioni cui l’evocazione di tale principio può condurre.

Molto più controllabile in termini obiettivi è invece il requisito della temporaneità. È la temporaneità delle misure di emergenza, in effetti, più che il loro contenuto, a segnare la loro compatibilità con l’ordine costituzionale complessivo. È la loro oggettiva e non politicamente sindacabile connessione con la natura e l’evoluzione dell’accadimento improvviso ed esogeno che ha generato la situazione emergenziale a giustificarle. Si badi bene, non si tratta di temporaneità legata a soggettive valutazioni dell’autorità pubblica, bensì agganciata a – e strettamente giustificata da – precisi dati concreti, pubblici e misurabili (sul livello attuale di diffusione del virus, sul suo grado di curabilità, sulla capacità ricettiva degli ospedali, sull’utilità misurata ex post delle misure assunte sino a quel momento, e così via) , in base ai quali sia possibile dimostrare, sotto il controllo democratico, che quelle misure sono oggi necessarie. Al mutare dei dati potrà mutare la base di legittimità delle misure.

A questo ragionamento va poi aggiunto un rilievo ulteriore: è possibile che alcune di quelle misure approvate fossero illegittime, ossia non conformi alla loro fonte sulla produzione, ossia in contrasto con la fonte gerarchicamente sovra-ordinata da cui traggono validità. Eppure, fossero esse legali o illegali, queste norme sono state percepite e vissute dai consociati come funzionali alla tutela della più democratica delle libertà: la libertà dalla malattia e dalla morte. E, di conseguenza, sono state largamente e spontaneamente accettate e rispettate, hanno cioè prodotto i loro effetti (gli effetti che erano attesi da coloro che le hanno disposte).

Tra l’altro, bisogna ricordare che tutte le decisioni politiche vengono sempre assunte entro una cornice di condizioni di fatto che non possono mai essere dimenticate. Nel nostro caso, quelle misure sono state prese nella convinzione che, in quel momento e per lo stretto tempo necessario, fossero indispensabili per tutelare la vita e la salute dei cittadini. Esse hanno prodotto esattamente gli effetti che si prefiggevano di produrre e che era obiettivamente indispensabile, in quel momento, che producessero (ossia il c.d. “distanziamento sociale” necessario a provare a ridurre la curva di estensione del contagio per un tempo ragionevolmente sufficiente a evitare l’ulteriore esponenziale propagazione dell’epidemia e il collasso dei presidi ospedalieri, consentendo nel frattempo di allestire nuovi posti-letto e nuove terapie intensive, di reperire nuovi infermieri, nuovi medici, di acquistare tamponi, farmaci, mascherine, ecc…). Tali misure non sono state affatto vissute, dalla stragrande maggioranza chi ne subiva le conseguenze, come “oppressive”, ma da essi comprese e accettate nella loro intima connessione con quell’originario e obiettivo “accadimento esogeno” che aveva indotto il governo a disporle. Accadimento che, nella percezione collettiva, rappresentava una minaccia esiziale e diffusa alla vita e alla salute di ciascuno e di tutti. Vita e salute individuale e collettiva sono precondizioni necessarie per il godimento di qualsiasi altro diritto. Anzi, in assenza di vita e salute possiamo dire che non c’è neppure bisogno del diritto: il diritto serve ai vivi, e serve (anche) per consentire a tutti di continuare (possibilmente) a restare vivi.

In tal modo, la gran parte dei cittadini si è semplicemente resa conto della necessità di contribuire singolarmente e responsabilmente alla tenuta dell’ordine costituzionale: una sorta di adempimento di un dovere collettivo che ha favorito la tenuta del sistema in termini di coesione sociale, grazie al quale ciascuno si è fatto in qualche modo custode dei fragili presupposti di sopravvivenza dello Stato-comunità, indipendentemente e a prescindere da quanto le singole misure fossero

illegittime. Questa, a mio avviso, è una straordinaria espressione di legittimazione dell'ordinamento costituzionale. Del resto, adempiere a un dovere non significa obbedire passivamente ad un comando, bensì aderire responsabilmente a una comune reciproca obbligazione in nome della salus rei publicae: restando a casa per settimane, o mettendosi disciplinatamente in coda con la mascherina di fronte a un negozio di alimentari, ciascuno di noi ha offerto una straordinaria prova di legittimazione della Costituzione e dei poteri pubblici. Attenzione però a evitare che l’eccessivo protrarsi nel tempo di quelle misure le faccia lentamente scivolare verso una condizione di pericolosa permanenza. Si è detto che ogni limitazione ai diritti costituzionalmente protetti in nome dell’emergenza in tanto si giustifica in quanto sia strettamente (e temporalmente) connessa con le condizioni che l’anno resa necessaria. Nella c.d. “fase 1” della pandemia era tutto sommato chiaro che la attuale gravità della diffusione del contagio, cui le strutture sanitarie in quel momento non erano in grado di far fronte con sufficiente tempestività ed efficienza, imponeva con urgenza misure drastiche, severe e rapide di vera e propria “segregazione sociale”, allo scopo di provare a rallentare l’esplosione dei nuovi casi. Adesso però quelle drammatiche condizioni iniziali non ci sono più. Non ogni misura appare, oggi, intrinsecamente e ictu oculi, razionale rispetto allo scopo di tutelare la salute dei cittadini, e pertanto il c.d. “test di proporzionalità” di ciascuno dei provvedimenti ulteriormente limitativi delle nostre libertà appare più aleatorio e discutibile.

Pertanto, diventa assolutamente imprescindibile che ogni singola decisione sia rigorosamente agganciata a dati certi, verificabili, pubblici. E che l’autorità pubblica eserciti, in proposito, uno specifico sforzo di trasparenza. La trasparenza dei processi decisionali è anzitutto la trasparenza dei dati a partire dai quali i processi decisionali emergenziali prendono le mosse. Anche se i dati della fase 1 erano parziali, essi erano sufficienti a rendere palese la gravità della

situazione nella quale vivevamo, e ciò costituiva una legittimazione più che sufficiente alle misure via via adottate. Al contrario, oggi non ogni misura appare più intrinsecamente necessaria; di conseguenza, il nesso tra misure adottate e pubblica conoscenza dei dati scientifici in base ai quali esse vengono assunte diventa ancor più essenziale: solo così le singole scelte politiche potranno essere oggetto di consapevole controllo democratico.

Solo la pubblicità e la trasparenza di quei dati, la loro verificabilità, la loro confutabilità, la loro sottoposizione alla libera critica scientifica, possono consentirci di affermare che le decisioni limitative di diritti che, da qui in poi, dovessero essere adottate, continueranno ad essere “giustificate” (se vogliamo “proporzionate”) nel senso sopra illustrato. La democrazia è innanzi tutto controllo pubblico delle giustificazioni. Altrimenti si trasforma in un’inammissibile oligarchia dei tecnici, dei pochi sacerdoti cui è affidata la custodia della “ricetta miracolosa”, del giusto “cocktail” tra i dati che essi insindacabilmente decidono di valorizzare.

L'obiettivo − e il vero e proprio dovere costituzionale dei poteri pubblici − deve essere quello di condurci nel più breve tempo possibile fuori dall’emergenza. Ossia quello di promuovere le condizioni materiali affinché le regole eccezionali cui siamo stati sottoposti e alle quali ci siamo, in larga misura spontaneamente se non proprio volentieri, assoggettati non durino oltre i tempi strettamente e “oggettivamente” giustificati dall’emergenza, e che esse non finiscano per innescare processi irreversibili di trasformazione dei nostri assetti sociali e dei modi di esercizio dei nostri diritti costituzionali individuali e collettivi (nelle scuole, nelle università, nelle aule dei tribunali, negli ospedali, nei luoghi di lavoro …). Altro che smartworking, didattica a distanza e udienze da remoto!

Si tratta, in definitiva, di non usare la pandemia come una scusa per trasformare, come tante volte è successo in Italia, la temporaneità in tendenziale permanenza.

Dal punto di vista del diritto, aveva ragione uno dei nostri più grandi filosofi, Giovan Battista Vico, quando ci ricordava che l'ordine delle cose, dei fatti reali, deve precedere l'ordine delle idee. È sulla base dei dati reali che noi dobbiamo misurare quelle che sono le risposte che, sul piano concettuale, eventualmente vogliamo trasmettere. D’altra parte, è ovvio che, relativamente ad un fatto imprevisto - che forse poteva essere gestito meglio se ci fosse stata una maggiore cooperazione da parte della Cina -, si “scateni” una serie di moti di disapprovazione, di caute dichiarazioni di guerra, ecc..

In questo periodo ho avuto modo di studiare la reazione francese alla crisi, reazione che non è stata affatto diversa da quella che c'è stata in vasti settori italiani: in Francia il Ministro della Giustizia ha addirittura

sostenuto, in un'intervista a Le Monde, la conformità a Costituzione delle misure adottate affermando che non si era fatto ricorso all'articolo 16 della Costituzione francese ma a una norma diversa per legittimare l’approvazione delle leggi n. 290 del 2020 e n. 546 , sempre del corrente anno. Forse il “vaso rotto” può essere in qualche modo ricomposto a sistema nel senso che i fili che lo tengono insieme possono essere effettivamente utilizzati per cercare di dare una lettura di quanto accaduto che riconduca a sistema anche quello che, in qualche modo, può averci fatto dubitare della legittimità costituzionale delle scelte di indirizzo messe in campo.

Vorrei anzitutto rilevare che la pandemia ha valorizzato un fenomeno che è di tipo generale: oggi viviamo in una fase di assoluta incertezza della scienza. Forse, il rapporto tra la politica e le decisioni tecnico- scientifiche non può essere risolto pacificamente, ossia affermandosi, in sintonia con il modello teorico, il primato tout court della decisione politica; del resto, le decisioni scientifiche, quelle che vengono fuori dai meandri dei ragionamenti della “scienza incerta”, incidono comunque fortemente sulla nostra vita.

Fermo restando il fatto che si è sicuramente abusato dello strumento del DPCM., atto di alta amministrazione avente valenza regolamentare, si è fatto anche leva sull’indeterminatezza della legge generale sulla Protezione Civile che, negli scorsi anni, aveva già legittimato la costruzione di grandi opere infrastrutturali - come il passante di Mestre – mediante l’impiego di ordinanze in deroga, ossia in qualche misura extra ordinem.

In questo senso, il dato che a me sembra importante focalizzare e che è confermato da una letteratura trasversale (giuridica, sociologica e politologica), è che l'esercizio di poteri extra ordinem nella società del rischio (Beck), nella società liquida (Bauman), nella società nella quale regna la biopolitica (Foucault), rappresenta una sorta di costante sistemica delle società complesse. La presenza del rischio,

dell’emergenza, comporta spesso, infatti, la deroga, anche profonda, dell’ordine normale e precostituito delle competenze. Come sottolineato anche da recenti ricerche (Ascheri; Musumeci), c’è una sorta di fenomeno costante che attraversa la storia delle istituzioni, e cioè la presenza e la persistenza del rischio, di un rischio immanente e anzi sovrastante. Il diritto ha sempre cercato di governare il rischio e l’emergenza: del resto, il principio di precauzione nasce fondamentalmente non per gestire le emergenze di tipo ambientale, ma quelle di tipo sanitario, di igiene pubblica (ad esempio, il primo caso in cui si utilizzò, seppur inconsapevolmente, il principio di precauzione risale al 1854 in corrispondenza della gestione del colera a Londra). Se questo è vero, pare quindi possibile ricondurre a sistema quanto è stato fatto fin qui fatto, pur nella cornice del “diritto della scienza incerta”, nel senso efficacemente descritto da Maria Chiara Tallacchini, in quanto che l’emergenza è essa stessa una fonte del diritto, di un diritto flessibile (Carbonnier) che si deve adeguare, evolvendosi, in funzione delle situazioni di fatto caratterizzate da particolare gravità e, soprattutto, imprevedibilità.

Certo, nel nostro caso, sembra che la “Babele delle fonti” sia stata in qualche modo incentivata e determinata anche da una sorta di inutile, se non dannosa, contrapposizione, divergenza di opinioni, tra lo Stato e la “periferia” rappresentata dalle Regioni e dagli enti locali. Sotto questo riguardo deve essere ricordata ed apprezzata la sentenza del TAR Calabria, sez. I, 9 maggio 2020, n. 841, ove il potere delle Regioni nella materia in commento viene limitato alla mera integrazione di quanto già deciso al livello nazionale.

Al di là di tutto, sicuramente il sistema ha comunque tenuto, sebbene il conflitto endemico, e molto spesso pretestuoso, tra lo Stato e le regioni non ha fatto molto bene al Paese, o meglio all’immagine del nostro paese, soprattutto al di fuori dei confini nazionali (nel contesto UE, in primo luogo).

Ciò posto, vorrei tornare al principio di precauzione. In generale, è ben vero che le misure che vengono adottate per arginare le pandemie si devono conformare al principio di proporzionalità e anche di temporaneità. Il principio di proporzionalità e quello di ragionevolezza rappresentano infatti due costanti sistemiche dell’evoluzione degli ordinamenti giuridici civilizzati e, non a caso, il principio di proporzionalità opera a 360 gradi: dal diritto penale al diritto del lavoro oltre che in quello internazionale e dell’UE e nel diritto amministrativo e, naturalmente, anche nella giurisprudenza costituzionale.

Si può certo discutere sul concetto e sul valore della temporaneità. Io non sono un esperto di queste cose ma la temporaneità è un elemento che deve essere misurato, a mio avviso, sui tempi medio-lunghi. E è proprio qui che interviene il principio di precauzione, in quanto regola di sistema finalizzata a rendere possibile la gestione, secondo competenza e ragione, della “scienza incerta”, secondo quanto ci ricorda la stessa sentenza del Tar Calabria appena riportata.

Il principio di precauzione opera, anzitutto, in funzione della prevenzione, a mio modo di vedere. Si può fare, a questo proposito, un esempio tratto da un’esperienza grave, ma sicuramente meno traumatica della pandemia da coronavirus: la nota vicenda di “mucca pazza”. Allora non v'era certezza − e, ancor meno, pienezza di prova scientifica − circa il nesso di collegamento tra l’assunzione di carne bovina infetta e la trasmissione del morbo all'uomo. Lo studio della trasmissione del morbo venne affidata all'Istituto Zooprofilattico del Piemonte-Liguria-Valle d'Aosta. Ovviamente i tempi dell'analisi della ricerca non furono immediati e, nell’attesa dei risultati finali, vennero apposte misure precauzionali come l'interdizione di importazione di carne bovina dalla Gran Bretagna.

Ora, il principio di precauzione non è solo quel principio che viene utilizzato per fondare l’apposizione di misure capaci di contenere un evento calamitoso foriero di un danno potenziale, ma è anche quel

principio che vale ad operare per la prevenzione del danno stesso, ossia per il suo contenimento e magari anche per avviare la sua correzione in via prioritaria alla fonte (cfr. l’art. 191 del TFUE). Di conseguenza, mi chiedo se la temporaneità delle misure che vengono richieste a noi tutti non debbano essere scandite e graduate secondo tempistiche che non sono così facilmente definibili a priori sul piano temporale, in sintonia con le concrete evenienze che sia ragionevole immaginare dal punto di vista scientifico e previsionale.

Gli specialisti non paiono manifestare un ottimismo ad oltranza sotto questo riguardo.

Allo stesso tempo, è ovvio che l'economia deve vivere, sopravvivere e prosperare, se possibile; ossia: occorre certamente pensare a tutti gli aspetti che vengono ad evidenza in un contesto complesso e complicato quale è quello delle società avanzate del capitalismo maturo. Del resto, come è apparso del tutto palese in occasione del summit di Parigi del 2015 Cop-21, il conflitto, di valori e di dunque di politiche, tra le ragioni della tutela della salute individuale e della sanità collettiva, da un lato,