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Le tradizioni degli imperi coevi e del subcontinente indiano all’arrivo

Il chahār bāgh dei Safavidi

Nel 1501 il safavide Ismail (r. 1469-1508) sconfisse i turcomanni della Pecora Bianca, conquistando la capitale Tabriz e dichiarandosi Shah di Persia. Iniziarono così più di tre secoli di governo (ca.1501-1722, 1729-1736), che portarono i Safavidi a governare su tutto l’Iran attuale, l’Azerbaijan, il Bahrain e l’Armenia, parte della Georgia, il Caucaso settentrionale, l’Iraq, il Kuwait e l’Afghanistan, parti della Turchia, della Syria, del Pakistan, del Turkmenistan e dell’Uzbekistan. Si trattava di un impero vasto che i Safavidi controllarono e amministrarono riprendendo tecniche e formule ben sperimentate dai loro predecessori. Tra gli elementi ereditati figurava anche il giardino e come appare dagli studi condotti dalla storica Mahvash Alemi, esso veniva utilizzato sia per le sue funzioni pratiche che per quelle estetiche e simboliche, dal ristoro climatico alla funzione di dispositivo visuale per l’esaltazione della sovranità. Soprattutto il terzo sovrano della dinastia, Shah Abbas I (r.1587- 1629) fu interessato alla costruzione di giardini imperiali, affrontando le problematicità geo- climatiche dei territori e disponendo di interventi migliorativi qualora necessario. Egli commissionò vaste opere pubbliche, quali infrastrutture viarie e idrauliche, regimentazioni e bonifiche, come ad esempio sulle coste paludose del Mar Caspio.230 Con la sua ricerca, Alemi dimostrava la diversità degli spazi e delle pratiche intrinsechi all’uso dei giardini messo in atto dai regnanti. Una delle tesi supportate era che i sovrani safavidi avessero costruito delle città giardino nel deliberato tentativo di avere un controllo sulla vecchia popolazione urbana, per sedurla ed indurla all’obbedienza; inoltre, al fine di rinforzare la loro legittimità, i sovrani avrebbero disposto dei giardini pubblici creati, come una sorta di ‘teatro’, nel quale performare antichi rituali. Con i suoi studi, Alemi ha inteso dimostrare l’interrelazione tra i giardini e la città ed, in particolar modo, il palazzo reale (dawlatkhāne). Il palazzo reale era attorniato dagli edifici pubblici più importanti, divenendo così il nucleo simbolico della città, in un impianto a tessuto articolato tra edifici, giardini e spiazzi. Questa interrelazione tra

230 Amante della fascia costiera, oltre a numerosi giardini, Shah Abbas fece costruire la Sang Farsh o ‘Giardino

di pietra’, una strada di collegamento con caravanserragli e palazzi/logge reali disposti ogni 19 km circa (un giorno di cammino) con blocchi di pietra grezza squadrati di circa un piede (Moynihan 1980, p. 58). I territori del Nord dell’attuale Iran erano caratterizzati da un clima tropicale e i terreni depressi risultavano spesso paludi malariche, come descritto nei racconti di viaggio degli ambasciatori stranieri. Nel 1626, Sir Thomas Herbert descriveva il viaggio verso il Mar Caspio come un viaggio rischioso e ‘demoniaco’ in una natura maligna, la cui pena è affrancata dall’arrivo in giardini paradisiaci. Herbert accompagnò il primo ambasciatore inglese in Iran, Sir Dodmore Cotton (Herbert, in Moynihan 1980, pp.60-61).

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palazzo reale e città era ribadita in tutte le sedi del governo come a Tabriz e a Qazvin, ma l’esempio meglio conservato appare ad Isfahan, in cui la connessione tra il dawlatkhāne e la città era configurata attraverso l’articolazione di due caratteristici spazi di transizione: il khiyābān-i chahārbāgh che poteva diventare uno spazio urbano pubblico e il maydan, lo spazio urbano pubblico per eccellenza, la piazza che poteva essere convertita a giardino privato o pubblico. Il maydan era un’area rettangolare circondata da bazaar e caravanserragli che serviva da vestibolo al palazzo, ai giardini reali e alle moschee; ivi avevano luogo sia le attività commerciali che quelle pubbliche, legate alle festività e alla celebrazione dinastica imperiale. Allo stesso modo, i khiyābān servivano alla celebrazione della dinastia nelle cerimonie e nelle parate pubbliche (Alemi 1991, pp. 104-105).231 Tuttavia, tutti i giardini reali appositamente pensati erano luoghi usati per ostentare l’immagine imperiale alle delegazioni di ambasciatori stranieri e alla popolazione, nelle udienze pubbliche o nelle cerimonie civili e religiose (Conan 2007, p. 7).232

I giardini safavidi sono stati configurati di volta in volta, in base alle possibilità urbane e alle condizioni offerte dal sito, non consentendo la definizione di un modello stereotipato. I giardini si presentavano disposti secondo un piano geometrico, non sottolineato da una rigida simmetria, ma indotto dalla posizione variabile del padiglione e degli edifici, i quali disegnavano assi diversi con i canali e i vialetti. Il palazzo e gli altri edifici potevano situarsi in spazi diversi, dal centro del giardino alle sue estremità, o assumere una posizione dominante nella terrazza più alta, se si trattava di un giardino in collina. In linea con la tradizione iraniana, il giardino safavide si configurava come una grande area solitamente rettangolare, possibilmente protetta da mura, il cui ingresso era sottolineato da un portale o da un padiglione ad un piano, con un loggiato (balakhane) affacciato verso l’interno del giardino. All’interno erano presenti canali per l’irrigazione, vasche e giochi d’acqua, viali di alberi ombrosi e fiori, originariamente fatti crescere in modo spontaneo nelle aiuole; alle intersezioni dei canali si trovavano vasche (ḥawż), piattaforme (takht) o terrazze rialzate (kursī) per il riposo e la contemplazione del paesaggio, in aggiunta a svariati padiglioni o a palazzi

231 Il maydan di Isfahan ospitava sovente partite di chowgan, uno sport simile al polo, in voga da tempi

precedenti ai Safavidi, come testimoniato nell’epica Shahname da Firdawsi. La funzione di campo di gioco trova una curiosa ipotesi probativa nelle dimensioni quasi standard, assunte dai vari maydan delle città safavidi (Alemi 1991, pp.98-100). Pietro della Valle, che lasciò Milano e viaggiò verso oriente nel 1623-4, testimonia invece della grande festa del Ab Pashan che aveva luogo nel Khiyābān-i Chahārbāgh di Isfahan a luglio, durante la quale il viale era riempito d’acqua e il sovrano assisteva da un padiglione posto sul ponte sopra lo Zayandeh Rud. Pietro della Valle, The Travels of Pietro della Valle in India, f. 128 in Alemi 1991, p. 105.

232 Michael Conan fa riferimento al saggio di Mahvash Alemi, Princely Safavid Gardens: Stage for Ritual of

167 tipicamente porticati e aperti sull’ambiente esterno. Infine, oltre ad altri spazi accessori, vi erano diverse tipologie di torri che conterminavano l’area o caratterizzavano il paesaggio circostante, come piccionaie e torri del vento. Le torri erano una costante nel paesaggio agricolo persiano e, nei giardini in particolare, venendo utilizzate per ospitare piccioni e colombi. Come ben dimostrano poesie, dipinti e letteratura epica, questi volatili erano molto apprezzati nella cultura iraniana e variamente oggetto di simbolizzazione. Al di là della valenza culturale, le piccionaie costituivano un’importante riserva funzionale di fertilizzante per l’agricoltura. Inoltre, il paesaggio iraniano era costellato di altre torri, le bad-gir o ‘torri del vento’, le quali, attraverso un apposito sistema idraulico, servivano a refrigerare l’aria nell’area circostante. Si trattava di tecnologie già presenti nel territorio persiano in epoche precedenti, ma che i sovrani safavidi non mancarono di mantenere.233

Un epitome del giardino safavide è rappresentato dal Bagh-i Fin, realizzato nel 1590 a Fin, un sobborgo qualche miglio a sud-ovest di Kashan. Il Bagh-i Fin è l’esempio più antico di giardino realizzato da Shah Abbas, voluto come punto di sosta nei viaggi verso il nord del paese. Realizzato nelle vicinanze del sito archeologico di Siyalk (V millennio a.C.), riprende le acque della sorgente Soleimaniyeh, traducendole in un sistema geometrico di canali che nutriva il giardino e orientava la disposizione degli edifici e delle aiuole. Un canale bastava a soddisfare le esigenze del giardino, mentre altri tre irrigavano i campi circostanti e alimentavano l’annesso mulino.234

All’area si accedeva attraverso un ingresso (sardar) posto sul lato settentrionale, dal quale dipartiva un viale che conduceva al padiglione, sottolineando l’orientamento del giardino sull’asse nord-sud. Il giardino quadripartito era organizzato attorno al padiglione centrato all’intersezione degli assi idrici (Shalooei, Kalhor 2010, pp26- 30.).

Una eccezione ai giardini rettangolari era rappresentata dallo scomparso Bagh-i Guldaste che era composto di un’area a pianta ottagonale ad ovest e, ad una quota inferiore, di un’area rettangolare ad est. L’area ottagonale era disegnata da una raggiera di otto viali di platani che

233 Le torri del vento erano già presenti all’epoca dei Medi; con testimonianze già a partire dal 3000 a.C. la torre

del vento era un sistema di raffreddamento dell’aria che combinava i sistemi idrici dei qanat a strutture a torre che catturavano l’aria. Mentre l’aria vicino al suolo entrava attraverso le regolari aperture lungo i qanat, il vento entrava dalle aperture sommitali della torre; l’aria era incamerata in ampie stanze sotterranee, si raffreddava e si caricava di vapore acqueo, per poi uscire da un’apertura sul lato opposto. Inizialmente realizzato in epoca safavide (1712 ca.), il giardino del Daulat-a Bagh nella città di Yazd (modificato in epoca Zandiyeh, 1750-1794) presenta un esempio ben conservato di torre del vento che rende una testimonianza della produttività di questa tecnologia nel tempo.

234 Moynihan ci informa che il getto d’acqua raggiungeva i seicento litri al secondo ad una temperatura

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dipartivano dal padiglione centrale; un percorso anulare intersecava i viali in un punto intermedio, sottolineato negli assi principali da quattro vasche. L’orientamento del giardino era est-ovest, sottolineato da un viale riccamente decorato che attraversava l’area longitudinalmente e terminava nel portale di accesso al contiguo Bagh-i Bulbul. L’asse idrico costituiva l’importante asse visivo ed era per questo impreziosito da una cascata che delineava il cambio di livello e giochi d’acqua. Sui lati opposti trovavano posizionamento il Palazzo Ūci Martabe ed un ḥammām. Il complesso pressoché ottagonale era impreziosito dal padiglione centrale, chiamato Guldaste che si componeva su una pianta di sedici lati, e dai viali di platani che creavano una geometria insolita, seppur quadripartita (Rahmati 2006, p. 337).

Un’innovazione del periodo safavide è la realizzazione di città-giardino in cui lo schema urbano risulta dall’armoniosa articolazione tra spazi urbani, strade, costruzioni e giardini (Behbahnai, Khosravi 2016, p. 8). I giardini si conformavano allo spazio urbano come dimostra lo spazio ottagonale che connette l’angolo tra il Khiyābān-i Chahārbāgh e il Maydan-i Shah a Isfahan. La capitale Isfahan venne appositamente articolata come una città- giardino; lo stesso modello del chahārbāgh venne replicato a livello urbano e prese la forma di un grande viale alberato ed irrigato, ai cui lati sorgevano geometricamente numerosi altri complessi verdi reali. Il Khiyābān-i Chahārbāgh iniziava dall’ingresso del dawlatkhāne e proseguiva verso sud, collegando così la residenza del sovrano con la periferia, fino ai piedi dei Monti Suffa; la strada si divideva in due sezioni, la sezione settentrionale era chiamata Chahārbāgh-i Pain e quella meridionale Chahārbāgh-i Bala.235

Sul viale erano piantumate otto file di platani e pioppi, alternati a rose e gelsomini per una larghezza di quasi cinquanta metri. Cinque canali d’acqua lastricati scorrevano lungo la strada, il più largo dei quali, in posizione centrale, conduceva l’acqua in grandi vasche quadrangolari od ottagonali poste di fronte ad ogni chahār bāgh (Wilber 1962, p. 106). Dal corso d’acqua principale dipartivano dei canali laterali che andavano ad irrigare i numerosi giardini voluti da Shah Abbas e completati nel 1616. I vari giardini contigui ospitavano ciascuno un palazzo con funzioni diverse, che proprio in base ad esse assumeva specifiche conformazioni. Ad esempio, dato che nel Bagh-i Chehel Sutun Shah Abbas II riceveva le delegazioni di ambasciatori stranieri, il palazzo realizzato nel 1647 riprese non solo l’evocativo nome persiano, ma anche la struttura dei palazzi per le udienze pubbliche sassanidi e achemenidi. Infatti, Chehel Sotoun, ovvero ‘quaranta colonne’ richiamava le strutture porticate dei tālār e delle apadana, in cui si

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Garden Visit, consultato il 16 marzo 2015: <http://www.doaks.org/resources/middle-east-garden- traditions/catalogue/C168>. I nomi dei giardini ci sono noti grazie alle annotazioni e agli schizzi realizzati da viaggiatore tedesco Engelbert Kaempfer (1651-1716) nel 1684.

169 manifestava la mitica sovranità assoluta e divinizzata dell’antica tradizione persiana. Per enfatizzare l’importanza del sovrano e della ‘scena teatrale’ in cui si esponeva la sovranità safavide, nel portico del Chehel Sotoun erano state rappresentate in stile persiano sei scene della storia e delle vittorie safavidi.236 In altri bagh c’erano padiglioni per feste e ricevimenti, palazzi per le sole donne o edifici per il riposo del sovrano. Il Khiyābān-i Chahārbāgh proseguiva per una lunghezza circa sei km fino all’incrocio con lo Zaindeh Rud; attraversato il particolare ponte a due livelli con marciapiedi poggianti su arcate, chiamato Pul Ali Varden Khan, si arrivava sulla riva meridionale del fiume in cui i giardini si estendevano in entrambe le direzioni; inoltre, dopo tre miglia, Shah Abbas fece costruire il grande pairidaeza Hazar Jarib: secondo il viaggiatore francese Chardin, si trattava di un giardino esteso per un miglio quadrato, composto di dodici terrazze, in cui vennero predisposte tubature di piombo per alimentare le fontane e i canali d’irrigazione. Dodici strade percorrevano il giardino parallelamente alla direzione del chahārbāgh e tre si intersecavano trasversalmente in senso est-ovest. Ogni quattro vie si trovava un canale lastricato con un bacino di forma diversa per ciascuna terrazza e ovunque getti e giochi d’acqua. Sempre Chardin ricorda come in primavera oltre all’esplosione delle fioriture, il giardino fosse ammantato dalla «bellezza della scena, dall’odore dei fiori e dal volo degli uccelli, alcuni in voliere altri tra gli alberi» (Wilber 1962, p. 119).

Un’altra configurazione usuale per i giardini safavidi era la disposizione su ripide terrazze aggrappate ai pendii collinari. Questi giardini definiti solitamente con l’espressione ‘bagh-i takht’ si trovavano generalmente in zone montane, dalle quali era possibile godere della vista su di un ampio paesaggio. Infatti, lo stesso termine takht o ‘trono, piattaforma’ sottolinea la posizione privilegiata sul circostante.237 Alcuni di questi ‘troni’ erano stati realizzati da Shah Abbas per sfruttare i pendii dei Monti Elbruz. Ad Ashraf, vicino alla Baia di Astarabad, per esempio, egli fece realizzare un complesso di cinque giardini, tra i quali il suo Bagh-i Shah per il divertimento personale, che si componeva di ben dieci terrazze. Il giardino reale non godeva solamente dello spettacolo delle sorgenti sulfuree sottostanti, bensì si godeva del panorama marino della baia. A circa 42 km di distanza, a Farahbad, Shah Abbas commissionò un complesso simile, dove morì nel 1628. In accordo con il costume accennato in

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I Safavidi si avvalsero dell’eredità persiana per la creazione di un’immagine regale autoreferenziale, sull’esempio dei Mughal. Uno studio comparativo dei padiglioni porticati realizzati nelle due culture fa emergere come i sovrani mughal abbiano preceduto i coevi centro-asiatici nel rievocare le strutture architettoniche iraniane per costruire le proprie sale delle udienze e creare associazioni simboliche che legittimassero il loro potere regale (Koch 1994, pp. 143-165).

237 L’unica eccezione a questa consuetudine è rappresentata dal bagh-i takht presente all’inizio del Khiyābān-i

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precedenza, il palazzo principale trovò collocazione nella terrazza più alta per sfruttare al meglio la potenziale vista. Le terrazze erano tra loro connesse per mezzo di scale, poste a fianco dei canali e delle cascate che sottolineavano i dislivelli. Solitamente nelle terrazze inferiori trovavano collocazione ampie vasche d’acqua che, come esplicitato nel nome daryācha, ovvero ‘piccolo mare’, nella volontà dei costruttori dovevano rievocare le grandi distese d’acqua.

Pochi resti del Bagh-i Takht (1789) sono ancora visibili a Shiraz, dove le sette terrazze avrebbero dovuto sovrastare un’ampia vasca rettangolare; mentre delle sette terrazze del Taj- Abad, oggi ne rimangono solo tre. Questo giardino collinare esposto a sud lungo la rotta carovaniera che portava da Isfahan a Natanz, era alimentato da un qanat proveniente dalle montagne vicine. Mentre sono scomparsi cipressi e platani che ombreggiavano vasche e canali, permangono ancor oggi i marciapiedi pavimentati e tre scivoli di pietra per la movimentazione dell’acqua, i quali forniscono un esempio della decorazione a ‘petto di piccione’ tipicamente persiana (Moynihan 1980, p. 64).

Il giardino nella cultura ottomana

Gli Ottomani (ca. 1299-1923) dimostrarono una grande abilità di adattamento durante i loro spostamenti dalle steppe centro-asiatiche alla penisola anatolica, affrontando climi e paesaggi differenti, durante questo ‘viaggio’ hanno dimostrato e mantenuto un profondo interesse per i fiori e gli alberi che, successivamente, hanno elaborato in uno specifico trattamento del paesaggio e nella predilezione di uno specifico tipo di giardino (Zangheri 2006, pp. 62 e sgg.). Come le culture coeve, gli Ottomani crearono giardini (turco, bahçesi) sia per soddisfare un piacere estetico che per svariati altri fini funzionali; secondo Atasoy, sia le architetture rimaste che le fonti scritte e dipinte testimoniano l’esistenza di una vera e propria ‘cultura del giardino’ all’interno della società ottomana.238

Ben lontani dall’essere rimembranze delle

238 Un’attenzione critica verso i giardini ottomani è iniziata verso la fine degli anni Cinquanta del Novecento; in

particolar modo, un articolo del 1958 di Muzaffer Erdoğan, Osmanlı Devrinde Istanbul Bahçeleri (Giardini di Istanbul nel periodo Ottomano), ed un libro del 1972 di Gönül Aslanoğlu Evyapan, Eski Türk Bahçeleri ve

Özellikle Eski Istanbul Bahçeleri (‘Antichi giardini ottomani e antichi giardini ad Istanbul’) in particolare,

fornirono un lista esaustiva dei giardini, specie per la città di Istanbul. Lo studio condotto da Sedad Hakkı Eldem

Türk Bahçeleri (‘Giardini Turchi’, Istanbul, 1973), si concentrava sugli elementi dell’architettura del giardino,

dalla potatura degli alberi ai giardini scomparsi lungo il Bosforo ad Istanbul. La storica Gülru Necipoğlu ha contribuito al dibattito con alcuni articoli che hanno apportato nuove conoscenze sui giardini all’interno dei palazzi imperiali e non, e sulla stessa vita della corte nei giardini: Architecture, Ceremonial and Power: The

Topkapı Palace in the Fifteenth and Sixteenth Centuries, del 1991, forniva una descrizione dei giardini presenti

all’interno del Topkapı; mentre nell’articolo del 1997, The Suburban Landscape of Sixteenth Century Istanbul as

a Mirror of Classical Ottoman Garden Culture, Necipoğlu individuava una serie di giardini del Sedicesimo

171 ‘oasi desertiche’, riparo dalla calura e dalla polvere, i giardini suburbani ottomani erano la reminiscenza di una classe dominante sedentarizzata che cercava di unire elementi rimanenti (della villa) della cultura greco-bizantina a tradizioni islamiche importate dai territori timuridi e safavidi ad oriente. Secondo la storica Gulru Necipoglu, i giardini ottomani avrebbero affinità con antichi prototipi che i coevi giardini italiani cercavano di emulare; perciò, piuttosto che prototipo di giardino islamico, quello ottomano dovrebbe definirsi quale sintesi unica all’interno dello stesso paesaggio mediterraneo condiviso dalle controparti italiane (Necipoglu 1997, pp. 32–71). Le fonti disponibili oltre ai giardini rimanenti sono costituite dalle miniature ottomane e dai disegni dei viaggiatori europei, nonché dai trattati sull’agricoltura, i registri reali dei giardini (ḫāṣṣ bāġçe) con le retribuzioni dei giardinieri, e i libri contabili reali che registravano le riparazioni eseguite sulle architetture. Secondo Necipoglu, l’influenza del chahār bāgh persiano rivestirebbe un ruolo marginale nella cultura del giardino ottomana, sebbene ci si debba ricordare che prima della conquista di Istanbul da parte degli Ottomani nel 1453, nella penisola anatolica si erano insediati altri gruppi mobili di turchi: come i Selgiuchidi, che introdussero il concetto della quadripartizione in stile persiano, creando giardini dalle sezioni quadripartite attraverso canali intersecantisi. Un esempio è visibile nel giardino del ‘palazzo degli Artaqidi’ (Artuklu Sarayı), che è costruito attorno ad una vasca mosaicata e ad un canale idrico; inoltre, vi sono esempi di giardini quadripartiti nella Cittadella di Diyarbakır (secolo XIII) e nei giardini selgiuchidi del palazzo di Kubadabad, vicino a Beyşehir (Anatolia centrale). Gli Ottomani continuarono la costruzione e l’implementazione dei giardini selgiuchidi apportandovi modifiche in base alle loro conoscenze, alle abitudini e alle esperienze acquisite.

alcuni europei. I recenti libri di Nurhan Atasoy - A Garden for the Sultan: Gardens and Flowers in the Ottoman

Culture (2002); 15. Y, üzyıldan 20. Yüzyıla Osmanlı Bahçeleri ve Hasbahçeler (Ottoman Gardens and Imperial Gardens in the 15th–20th Centuries) (2005) evidenziano il luogo del giardino all’interno della cultura ottomana

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Figura 37: Giardino di Karabali.

Pochi altri esempi, come i giardini di Karabali e Sultaniye ad Istanbul, sembrano aver ricevuto una influenza persiana, mentre gli altri si contraddistinguono per una peculiare sintesi culturale. Il giardino di Karabali a Katabas, sulle sponde europee del Bosforo, presentava un

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