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Come tradurre un testo in cui coesistono contemporaneamente più lingue? Si può parlare ancora di traduzione quando si traduce da più lingue simultaneamente? Come rendere l’effetto della pluralità linguistica? Sono queste, per sommi capi, alcune delle domande che solleva Jacques Derrida in un articolo del 1985645. A far fede a quanto afferma il filosofo, tali questioni sono state pressoché ignorate dalla traduttologia: troppo rigidamente incentrata sul passaggio da una lingua a un’altra, essa avrebbe completamente trascurato l’argomento646. Sebbene l’attenzione nei confronti della pluralità linguistica fosse a quel tempo ben più scarsa di oggi, la parole di Derrida si rivelano tutt’altro che inattuali. Perché, per quanto lo sviluppo degli studi postcoloniali abbia attivato e contribuito a una crescita di interesse per i testi plurilingui, ciò non toglie che l’aspetto strettamente traduttivo sia a tutt’oggi lasciato in ombra. Ne è dimostrazione la pubblicazione di alcuni lavori – quali, ad esempio, Post-Colonial Translation. Theory and Practice e Changing the Terms: Translating in the Post- Colonial Era647 – in cui la questione della traduzione del plurilinguismo è affrontata solo di sfuggita. Come opportunamente nota Madeleine Stratford, tali studi si focalizzano soprattutto sulla dimensione traduttiva interna agli stessi testi postcoloniali, sviluppando una riflessione sulle analogie esistenti tra l’atto traduttivo e la scrittura postcoloniale, ma accennano appena alla possibilità che «les textes à l’étude (par ailleurs souvent plus multiculturels que multilingues) soient eux-mêmes traduits dans une autre langue» [i testi studiati (del resto spesso più multiculturali che multilingui) siano essi stessi tradotti in un'altra lingua]648. Ulteriore conferma della mancanza di studi specificamente dedicati all’aspetto traduttivo si trova nelle parole di Hélène

645 Jacques Derrida, Des Tours de Babel, in Joseph F. Graham (a cura di), Difference in Translation,

Cornell University Press, Ithaca and London 1985, p. 213.

646 Scrive sempre Derrida: «[les théories de la traduction] ne considèrent pas assez la possibilité pour des

langues d’être impliquées à plus de deux dans un texte» [«[le teorie della traduzione] non considerano abbastanza la possibilità che più di due lingue siano implicate in un testo».]. Ibid., p. 215, trad. mia.

647 Susan Bassnett e Harish Trivedi, Post-Colonial Translation. Theory and Practice, Routledge, London

and New York 1999; Sherry Simon e Paul St-Pierre (a cura di), Changing the Terms: Translating in the

Post-Colonial Era, University of Ottawa Press, Ottawa 2000; si veda anche Lawrence Venuti (a cura di), Rethinking Translation: Discourse, Subjectivity, Ideology, London and New York, Routledge 1992.

Buzelin che, a una ventina d’anni di distanza dalla denuncia derridiana, scrive: «alors qu’on a beaucoup analysé l’hybridité et les “effets de traduction” des textes post- coloniaux, les défis qu’implique la traduction, au sens le plus concret, de cette littérature ont été peu abordé» [mentre sono stati molto analizzati l’ibridazione e gli “effetti di traduzione” dei testi post-coloniali, le sfide che implica la traduzione, nel senso più concreto, di questa letteratura sono state poco affrontate]649.

Affrontare il rapporto tra eterolinguismo e traduzione non significa solo fare i conti con la sostanziale disattenzione dei teorici – che, è opportuno ricordarlo, conosce però alcune importanti eccezioni650 –, ma anche con una visione fortemente pessimista, per cui quando prendono in esame la questione dell’eterolinguismo, i loro discorsi si popolano di una serie di termini che gravitano attorno alla sfera semantica della “difficoltà”651. L’eterolinguismo coagula intorno a sé sfiducia e senso di impotenza,

come dimostra l’insistente leitmotif dell’intraducibilità, che ritorna ogni qual volta si affronti la questione della restituzione della pluralità linguistica.

Persino Antoine Berman, di solito animato dalla convinzione che la traduzione può (e anzi deve) accettare la prova dell’estraneo, si mostra in questo caso piuttosto scettico. Dietro la sua perplessità c’è un’osservazione empirica, un dato oggettivo: Berman rileva che la pluralità linguistica subisce una cancellazione nella maggior parte delle traduzioni che conosce. Non a caso, tra le tredici tendenze deformanti da lui catalogate, la tredicesima va sotto il nome di «cancellazione delle sovrapposizioni di lingue»652. Agli occhi di Berman, la pluralità linguistica è minacciata dalla traduzione poiché essa tende a cancellare i «rapporti di tensione» esistenti tra le lingue653. Allo stesso modo, Rainier Grutman constata che «toute traduction tend à réduire l’éventail

649 Hélène Buzelin, Traduire l’hybridité littéraire: Réflexions à partir du roman de Samuel Selvon The

Lonely Londoners, in Reine Meylaerts (a cura di), Heterolingualism in/and Translation, cit., p. 93, trad. mia.

650 Si vedano in proposito: Judith Lavoie, Mark Twain et la parole noire, Presses de l’Université de

Montréal, Montréal 2002; Hélène Buzelin, Traduire l’hybridité littéraire: Réflexions à partir du roman

de Samuel Selvon The Lonely Londoners, in Reine Meylaerts (a cura di), Heterolingualism in/and Translation, cit.; Rainier Grutman, Id., Traduire l’hétérolinguisme: questions conceptuelles et (con)textuelles, in Marie-Annick Montout (a cura di), Autour d’Olive Senior: hétérolinguisme et traduction, cit.; Myriam Suchet, L’imaginaire hétérolingue. Ce que nous apprennent les textes à la croisée des langues, cit.

651 Antoine Berman, ad esempio, afferma che la sovrapposizione delle lingue è «peut être le “problème”

le plus aigu que pose la traduction de la prose». Antoine Berman, La Traduction et la Lettre ou l’Auberge

du lointain, Éditions du Seuil, Paris 1999 (1985) [La traduzione e la lettera o l’albergo della lontananza,

trad. it di Gino Giometti, Quodlibet, Macerata 2003, p. 55].

652 Ibid., p. 54. 653 Ibid., p. 55.

linguistique du texte de départ» [ogni traduzione tende a ridurre il ventaglio linguistico del testo di partenza]654.

Nell’articolo già citato, Derrida giunge a conclusioni simili, riconoscendo l’impossibilità costitutiva della traduzione di restituire la copresenza di lingue differenti. Nello specifico, ciò che lo conduce a una tale ammissione di resa sono il Finnegans Wake di Joyce e il Pierre Ménard di Borges. Per quanto riguarda il romanzo di Joyce, Derrida chiama in causa l’espressione «and he war», nella quale il tedesco «pesa» sull’inglese: secondo Derrida, tale sovrapposizione è destinata a sparire dal momento che la traduzione non è in grado di rendere il fatto che più lingue si innestano in un solo corpo655. La riscrittura borgesiana del Don Chisciotte lo spinge verso considerazioni

ugualmente perentorie. Essendo il Pierre Ménard scritto in uno spagnolo che risente dell’influenza del francese, ciò fa sì che la traduzione verso il francese si trovi in una situazione d’impasse: per essa è chiaramente impossibile rendere la patina francesizzante stesa sullo spagnolo. Ecco che allora Derrida, con tono assertivo, dichiara: «la traduction peut tout, sauf marquer […] cette différence de système de langues inscrite dans une seule langue; à la limite elle peut tout faire passer […] sauf le fait qu’il y a, dans un système linguistique, peut-être plusieurs langues» [la traduzione può tutto, tranne marcare […] quella differenza di sistema linguistico inscritta in una sola lingua; al limite può fare passare tutto […] tranne il fatto che, in un sistema linguistico, ci possono essere varie lingue]656.

Pare opportuno notare che, se da un lato i teorici si dimostrano unanimi nel riconoscere una tendenza diffusa alla riduzione o addirittura alla totale eliminazione della stratificazione linguistica, dall’altro sono consapevoli di quanto tale appiattimento sia dannoso per il testo657. Tuttavia, la ricerca teorica di soluzioni che permettano di

654 Rainier Grutman, Les motivations de l’hétérolinguisme: réalisme, composition, esthétique, in Furio

Brugnolo e Vincenzo Orioles (a cura di), Eteroglossia e plurilinguismo letterario. Plurilinguismo e

letteratura, cit., p. 341, trad. mia.

655 Jacques Derrida, L’oreille de l’autre: otobiographies, transferts, traductions, in Claude Levesque e

Christie V. Mcdonald (a cura di), Textes et débats avec Jacques Derrida, VLB, Montréal 1982, p. 134.

656 Idem., trad. mia.

657 «Les publications récentes dans le domaine s’entendent pour identifier trois formes de «nivellement»

ou de «déformation» qui doivent absolument être évitées dans la traduction littéraire. Tout d’abord le nivellement culturel, qui consiste à déposséder le texte de certaines des caractéristiques de la culture native du texte d’origine, et qui a pour conséquence une traduction ethnocentrique […]. Ensuite, le nivellement stylistique, qui gomme le relief, les aspérités proprement langagières du texte d’origine […]. Enfin le nivellement idéologique qui consiste en des manipulations de contenu ou d’aspects formels ayant pour but, conscient ou non, de le rapprocher des valeurs dominantes d’une société donnée» [Le pubblicazioni recenti nel settore concordano nell'identificare tre forme di «livellamento» o di «deformazione» che devono assolutamente essere evitate nella traduzione letteraria. In primo luogo il livellamento culturale, che consiste nel privare il testo di alcune delle caratteristiche della cultura nativa

ovviare a questa «tendenza deformante» rimane pressoché inesplorata: invece di soffermarsi sulle possibilità concrete, si preferisce come si è visto derubricare la questione nella categoria dell’intraducibilità. È plausibile ipotizzare che alla base di tale silenzio teorico ci sia il carattere profondamente unilingue del modello traduttivo. Se per traduzione si intende infatti l’operazione di sostituzione di una lingua A con una lingua B – ovvero la trasposizione da una lingua omogenea in un’altra lingua ugualmente uniforme – ne consegue, come sottolinea Anthony Lewis, che «toute manifestation d’hétérogénéité linguistique est perçue comme une aberration» [ogni manifestazione di eterogeneità linguistica è percepita come un’aberrazione]658. Secondo Grutman, il presupposto implicito per cui la traduzione «involves a substitution of one language for another» [implica una sostituzione di un lingua con un’altra]659 non può

che avere delle implicazioni sul rapporto eterolinguimo-traduzione: tale assunto li pone inevitabilmente in una relazione di antitesi, facendone una coppia di termini tra loro inconciliabili e contradditori. Del resto, il testo eterolingue è per definizione un testo che rifiuta di essere completamente tradotto, un testo che si oppone all’ordine e all’uniformità che la traduzione vuole imporre, allo scopo di correggere e addomesticare così la confusione di Babele.

Alla luce di quanto detto, l’analisi delle traduzioni presenti nel corpus appare quanto mai significativa poiché ci permette di vedere che cosa succede materialmente ai testi quando passano da una lingua – o, in questo caso, da più lingue – a un’altra o altre lingue. Si tratterà quindi di esaminare in concreto che cosa implica per la traduzione la sfida lanciata dall’eterolinguismo, per capire se l’unica possibilità che si prospetta è quella della resa o se (e soprattutto come) la sfida può essere affrontata e accolta. L’analisi che condurremo sulle traduzioni sarà dunque anche un banco di prova per rafforzare, o piuttosto contraddire, il pessimismo che adombra l’eterolinguismo; per verificare se, e in quale misura, la «cancellazione delle sovrapposizioni di lingue» continua a essere un’inaggirabile e implacabile «tendenza deformante».

del testo di origine, e che ha per conseguenza una traduzione etnocentrica […]. Poi, il livellamento stilistico, che cancella i rilievi, le asperità propriamente linguistiche del testo di origine […]. Infine il livellamento ideologico, che consiste in manipolazioni del contenuto o degli aspetti formali con lo scopo, più o meno cosciente, di avvicinarsi ai valori dominanti di una data società]. Richard Patry, La traduction

du vocabulaire anglais francisé dans l’œuvre de Jacques Ferron: une impossible épreuve de l’étranger,

«Meta», vol. 46, n. 3, 2001, p. 456, trad. mia.

658 Rohan Anthony Lewis, Langue métissée et traduction: quelques enjeux théoriques, «Meta», vol. 48, n.

3, 2003, p. 412, trad. mia.

659 Rainier Grutman, Multilingualism and Translation, in Mona Baker (a cura di), Routledge

Ma prima di inoltrarci nell’analisi, ci pare opportuno avanzare alcune considerazioni preliminari per dar conto dell’approccio che intendiamo adottare nell’affrontare e leggere i testi tradotti.

Occorre prima di tutto tener presente che, nel momento in cui si prendono in esame le scelte traduttive, non ci si trova “semplicemente” di fronte all’azione individuale del traduttore – alla sua «etica», per dirla con Berman –, bensì al prodotto di più mani e molteplici agenti, al risultato di negoziazioni e condizionamenti. Il traduttore non traduce in uno spazio indipendente e isolato, tutt’altro: la sua attività è inserita in un sistema di attese e interessi, si ritrova a operare all’interno di una fitta rete di norme, abitudini collettive e convenzioni, più o meno esplicite, più o meno interiorizzate.

È a partire dagli anni Settanta che si è cominciato a dar conto dell’influenza del contesto storico e socio-culturale sull’attività del traduttore e sul suo prodotto, grazie alla “teoria del polisistema” elaborata da Even-Zohar e Toury, principali esponenti della scuola di Tel Aviv. Secondo tale teoria, il sistema letterario – che a sua volta è parte di un ulteriore polisistema – consiste in un aggregato di co-sistemi correlati. Tra questi sottosistemi si trova anche il micro-sistema della letteratura tradotta, e la posizione che essa occupa all’interno del polisistema d’arrivo – posizione che è sottoposta a variazioni nel corso del tempo – determina non solo lo status socio-letterario della traduzione, ma condiziona anche la pratica della traduzione che risulta essere «fortemente subordinata ad essa»660. Quando la letteratura tradotta occupa una posizione marginale, chi traduce tende a riprodurre i modelli esistenti, a riproporre forme consolidate e mantenere lo status quo. La posizione marginale si ripercuote anche sui criteri che regolano la scelta dei testi da tradurre, per cui si prediligeranno opere poco innovative e facilmente adattabili alle convenzioni in uso. Per contro, nei periodi storici in cui la letteratura tradotta si trova a occupare una posizione centrale, il modo di tradurre tende a essere innovativo, in quanto il traduttore non è tenuto a rispettare le convenzioni in vigore nel sistema di arrivo. Come afferma Even-Zohar, in questi casi

la principale preoccupazione del traduttore non è quella di cercare modelli già confezionati nel suo sistema di riferimento, in cui i testi originali potrebbero essere trasferiti; egli è invece preparato a violare le convenzioni del proprio sistema661.

660 Itamar Even-Zohar, The Position of Translated Literature within the Literary Polysystem (1978); trad.

it: La posizione della letteratura tradotta all’interno del polisistema letterario, in Siri Nergaard (a cura di), Teorie contemporanee della traduzione, cit., p. 228.

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