possano essergli di conforto. Marin, quasi completamente cieco, è ormai incapace di copiare le
lettere sulla pagina; la trascrizione è stata eseguita dalla figlia Gioiella:
ore 19 – Ho finito il quaderno diurno che era un regalo della Lydia Marghetti con una lettera di A.C. Jemolo. Qui invece, ho fatto copiare dalla Lella l'ultima lettera avuta da Ervino Pocar; queste lettere le considero parte importante della mia vita e perciò le includo nei miei diari 20 dic 1977
Ho ricevuto la seguente lettera di Ervino P.
282 XLVII, 103, 19 novembre 1977. 283 XLVII, 107, 21 novembre 1977.
“Caro Biaseto, ti aspetti una mia lettera, lo so - E io ti devo chiedere perdono, se non ti ho scritto finora. Sono passati i giorni, le settimane, mentre pensavo a te sempre, parlando di te, di noi, con Fausta, coi figli, ma senza trovare il coraggio di prendere la penna e di dirti il mio, il nostro dolore. Poiché soltanto l'atmosfera del dolore abbiamo portato con noi. Dolore per due tremendi motivi: i tuoi occhi e le lacrime versate per il tragico destino di tuo nipote. Dolori che nemmeno il coraggio di Pina, nemmeno la presenza di Lella e di Marina possono placare sia pure di poco. Dolori che non immaginavamo quando eravamo partiti col proposito di venire brevemente a Grado dopo la festa di Gorizia e le solennità di Trieste. Eravamo appena scesi a Cervignano, dove ci aspettava l'automobile del Sindaco, quando – primissima notizia, apprendemmo il gravissimo evento.
Biaseto, non so dirti altro – sarebbero parole – una sola cosa ti posso dire che ti voglio bene, non da oggi, non da ieri, ma da settant'anni. E con me ti vogliono bene Fausta e i figlioli. Questa, nelle tenebre di questo sciagurato mondo, è la luce, è la sola cosa che conta.
Non so dirti: sopporta e resisti. Te lo dico con le parole di Ovidio: “Perfer et obdura” Finché siamo uomini, finché siamo al mondo, non dobbiamo lasciarci unterkriegen.
È il destino dell'uomo quando è uomo. Certo, più facile dire che fare. Ma almeno tentare dobbiamo e possiamo.
Natale è in vista. Cerchiamo che sia il meno triste possibile. E che l'anno nuovo cominci con una speranza.
Un abbraccio a te, a Pina... Ervino284
L'ultima lettera di Pocar copiata nei diari affronta uno dei momenti più dolorosi e traumatici
dell'intera vita di Biagio Marin. Pocar muore pochi anni dopo, nell'agosto del 1981, all'età di
ottantanove anni. Quando Marin riceve la notizia della morte, compone, come è sua abitudine ogni
volta che perde una persona cara, un ricordo dell'amico, che sconfina nella presa di coscienza –
ormai definitiva – che un'intera generazione di uomini, quelli che si erano formati per educazione e
cultura sotto l'Austria asburgica, sta per scomparire per sempre. Lui stesso si sente un superstite,
l'ultimo, vivo ancora per poco e destinato a scomparire dal mondo e dalla memoria del mondo,
come il tempo lontano della Gorizia della sua formazione, come gli uomini che quel tempo avevano
vissuto. Questa la nota conservata nel taccuino XCVII:
Ervino Pocar è morto e la sua salma è già sepolta. Lo ha telefonato questa mattina suo figlio Fausto. La moglie Fausta mi aveva scritto che Ervino aveva avuto un infarto, che era all'ospedale, ma stava meglio. Evidentemente un ulteriore danno lo ha ucciso.
Con lui perdo, o anzi, ho perduto il più fedele testimone, compagno di strada della mia vita... Eravamo molto diversi: lui un filologo di prima classe e un uomo di una integrità morale da eroe. Formidabile lavoratore, non si è mai concesso un'evasione. Perduta la prima moglie, la Cesi, aveva sposato una dattilografa che aveva conosciuto non so in quale occasione, Fausta, che gli ha dato quattro bravissimi figlioli, eredi delle buone qualità del padre: sono tutti quattro insegnanti universitari. Ervino è stato un marito e un padre esemplare.
Il 3 di maggio del 1919, quando a Firenze nacque Falco, Ervino era nostro ospite. Era venuto dall'interno dell'Austria, magro che faceva paura. Nello stesso anno egli insegnava al classico di Gorizia e io alle magistrali. Anche egli era amico di Paternolli e poi di Emilio Furlani. Vivevamo in un'unica atmosfera di esperienza. Poi io dovetti lasciare le magistrali e lui andò al Touring a Milano. E a Milano ha lavorato poi tutta la sua vita, fino alla morte. Da Gorizia si era sradicato per sempre, senza mai, in cuor suo, rinnegarla. Tutte le volte che andavo a Milano ero
suo ospite, e sempre il benvenuto.
Ha tradotto dal tedesco credo 400 volumi di prose e di versi, e anche di testi filosofici e di storie letterarie. I tedeschi lo onorarono più volte con nomine accademiche e con medaglie d'oro, tra le quali la goethiana.
In Italia invece, le sue traduzioni non hanno avuto il riconoscimento che meritavano, anche se gli editori più autorevoli come la Mondadori le stampavano. Questo fatto lo aveva molto amareggiato. Ma egli non aveva le qualità di un letterato italiano; era solo un traduttore onesto e sicuro.
Ora non esiste più, ma vive nei suoi bravi figlioli. Con lui, come ho già detto, ho perso il più autorevole testimone e compagno della mia vita.
Dei tre condiscepoli che il Comune di Gorizia onorò concedendo loro la cittadinanza onoraria, Toni Morassi, Ervino Pocar e io, sono rimasto ancora io. Rappresentavamo una delle ultime generazioni al ginnasio tedesco di Gorizia in Austria. A Gorizia, di quel tempo, di quegli uomini non vive più nessuno, che io sappia.285
III.7 Virgilio Giotti
Biagio Marin e Virgilio Giotti si incontrano per la prima volta a Firenze, tra il 1916 e il 1917. Giotti
vi si era trasferito già dal 1907 – aveva lasciato Trieste per sottrarsi al servizio militare nell'esercito
austroungarico -, i due quindi avevano vissuto contemporaneamente nel capoluogo toscano tra il
1911 e il 1912, prima che Marin si trasferisse a Vienna per frequentare l'università, ma non si erano
mai incontrati. Giotti infatti, a differenza di Marin, non era assiduo frequentatore dell'ambiente
intellettuale che gravitava attorno a «La voce» di Giuseppe Prezzolini: «Come già a Trieste, anche a
Firenze, Virgilio frequenta più pittori che scrittori: è amico di Gino Sensani, Tito Lora, Hans Alva
[…]. È quindi probabile che alcuni personaggi della Trieste letteraria del tempo, da Campana a
Tozzi, da Soffici a Palazzeschi, di cui era solito raccontare al giovane Quarantotti Gambini, Giotti li
abbia conosciuti tramite Sensani»
286. La famiglia Giotti, prima a Firenze e poi poco lontano, a San
Felice a Ema, ospitava i numerosi giovani, in gran parte triestini e giuliani che in quegli anni
soggiornavano a Firenze per completare la loro formazione: prima del matrimonio con Marin, anche
Pina Marini aveva passato un periodo presso i Giotti, dopo essere rimasta orfana. E fu proprio lei a
presentare i due poeti, che da lì in avanti sarebbero rimasti amici. Marin ricorda quella breve
frequentazione toscana, nella casa di San Felice a Ema, dove Virgilio e la moglie Nina Schekotoff
vivevano nella più limpida semplicità: «L'abitazione propriamente detta era al primo piano, e qui ci
incontrammo con Virgilio, in una stanza, dove su l'impiantito di mattoni rossi c'era una grande
striscia di sole allegro e, nel suo nimbo, due sedie rusticane basse. Non c'era altro. Tutto era serio e
silenzioso. Sopravvenne la Nina: non volle una sedia: leggermente, scioltamente si afflosciò sul
pavimento rosso»
287.
Il loro rapporto si consoliderà a Trieste, negli anni della seconda guerra mondiale e in quelli del
complicato dopoguerra giuliano. La guerra li unirà anche per la perdita dei figli: dei tre figli di
Giotti, sopravviverà al conflitto soltanto la primogenita Natalia (chiamata Tanda), mentre Paolo e
Franco non faranno mai ritorno dal fronte russo. Falco Marin, come più volte ricordato, era stato
ucciso in Jugoslavia nel luglio del '43. Dai diari emerge una testimonianza relativa proprio agli anni
della guerra e alla morte di Falco: si tratta di una lettera che Giotti invia a Pina, con una poesia
intitolata Le calze, a lei dedicata. Un testo inedito, scritto da Giotti sulla pagina di un'edizione
286 A. Modena, Virgilio Giotti, Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1992, pp. 18-19. 287 B. Marin, Umanità e poesia in Virgilio Giotti, «Umana», VI, 9-10, 1957, p. 80.