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Chemioterapia adiuvante negli stadi iniziali

Il trattamento delle neoplasie in stadi iniziali è chirurgico con l’obiettivo di asportare tutta la malattia visibile. Dopo la chirurgia è comunque necessario, considerato l’elevato rischio di recidiva (25-30%) un trattamento sistemico adiuvante il cui obiettivo è quello di distruggere eventuali micrometastasi che potrebbero essere rimaste dopo l’intervento, sfruttando il fatto di agire su un piccolo volume tumorale con un alto tasso di crescita. Per questo la terapia dovrebbe essere iniziata il prima possibile dopo l’intervento.

La chemioterapia adiuvante a base di platino negli stadi precoci offre un vantaggio significativo sia in termini di sopravvivenza libera da malattia, sia in termini di sopravvivenza globale soprattutto nelle donne non correttamente stadiate alla chirurgia.69 Si può identificare un sottogruppo di pazienti a basso rischio, in cui la chirurgia è risolutiva nel 95% dei casi e non vi sono evidenze che dimostrino un vantaggio di un successivo trattamento chemioterapico. Questo sottogruppo comprende le pazienti in stadio IA e IB, con malattia ben differenziata (G1) e non a cellule chiare. Al contrario le pazienti con tumori scarsamente differenziati, stadi IC-II o a cellule chiare sono considerate pazienti ad alto rischio, con un tasso di recidiva elevato, pertanto candidate ad un trattamento adiuvante.70

Come trattamento adiuvante possono essere utilizzati due schemi terapeutici: Carboplatino (AUC 5-6) in monoterapia, ogni tre settimane, oppure Carboplatino (AUC 5-6) in combinazione con taxolo 175 mg/mq ogni tre settimane.71 Per quanto riguarda il

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numero di somministrazioni, lo studio GOG 157 ha confrontato pazienti sottoposte a 6 cicli di chemioterapia con carboplatino e taxolo con pazienti sottoposte a 3 cicli dello stesso regime, evidenziando che, nel gruppo sottoposto a terapia prolungata, è presente una modesta riduzione del rischio di recidiva (20,1% vs 25,4%) e un aumento notevole della tossicità, soprattutto mielotossicità e neurotossicità. Non è stato evidenziato nessun vantaggio in termini di sopravvivenza globale nelle pazienti in trattamento prolungato.72 Il vantaggio di una terapia con 6 cicli invece che 3 cicli si è dimostrato significativo nelle pazienti con istotipo sieroso, con una sopravvivenza libera da malattia a 5 anni dell’83% con 6 cicli, rispetto al 60% con 3 cicli.73

Chemioterapia degli stadi avanzati

Lo standard terapeutico nelle pazienti con malattia avanzata è la corretta integrazione tra terapia chirurgica e medica. La chirurgia, tesa ad ottenere la minor malattia residua possibile, è seguita da una chemioterapia a base di carboplatino e taxolo.

Negli anni 70 il trattamento era costituito dalla somministrazione di alchilanti in monoterapia con una sopravvivenza a 5 anni inferiore al 10%. Successivamente è stato dimostrato da numerosi studi che i regimi a base di platino erano più attivi rispetto a quelli senza platino e che le combinazioni terapeutiche comprendenti il platino erano più efficaci del platino utilizzato in monoterapia.74 L’aggiunta del taxolo ha sostituito il vecchio standard terapeutico, rappresentato da cisplatino e ciclofosfamide, in quanto il regime terapeutico a base di platino con l’aggiunta del taxolo aveva percentuali di risposta più elevate (77 vs 66%), una maggiore sopravvivenza libera da malattia (18 vs 13 mesi) ed una maggiore sopravvivenza globale (38 vs 24 mesi).75

Inizialmente veniva utilizzato il cisplatino, poi sostituito dal carboplatino, con un miglior profilo di tossicità ed analoga efficacia terapeutica.76

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Da circa 15 anni il trattamento standard di prima linea del carcinoma ovarico è rappresentato da carboplatino AUC 5-6 associato a taxolo (175 mg/mq infusione in 3 ore) eseguito ogni 3 settimane. Sono stati fatti numerosi tentativi per cercare di migliorare questo standard terapeutico che presenta dei limiti in quanto il 70-80% delle pazienti sviluppa una recidiva di malattia entro i primi 2 anni e la sopravvivenza a 5 anni delle pazienti con carcinoma ovarico rimane del 40%.

Un primo tentativo è stato quello di associare a carboplatino e taxolo un terzo farmaco, come la gemcitabina, la doxorubicina liposomiale ed il topotecan, che non ha dimostrato nessun miglioramento rispetto al trattamento standard, ed ha messo in evidenza un aumento della tossicità.77

Un’altra strategia esaminata è stata quella di somministare il taxolo a dosi minori ma ad intervalli più ravvicinati (terapia ad elevata dose-intensità). Uno studio giapponese ha confrontato la terapia convenzionale, schedula trisettimanale di carboplatino e taxolo, con regimi settimanali di taxolo associati a carboplatino trisettimanale. Il risultato è stato un aumento della sopravvivenza globale e libera da malattia nel braccio con schedula settimanale di taxolo.78 Questo vantaggio deve essere dimostrato anche nella popolazione caucasica, sostanzialmente diversa da quella orientale, dove la terapia standard è ancora il regime trisettimanale.

La chemioterapia intraperitoneale è una soluzione che offre la possibilità di avere dosi elevate di farmaco nella sede in cui è presente il tumore con un vantaggio farmacocinetico rispetto alla somministrazione endovenosa. Nonostante siano stati dimostrati i vantaggi sulla sopravvivenza globale e libera da malattia di una somministrazione intra-peritoneale di carboplatino e taxolo, i numerosi effetti collaterali associati a questa procedura (infezioni, perforazioni intestinali, emorragie), che determinano un peggioramento della qualità di vita ed un aumento del dolore

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addominale, non hanno permesso l’affermazione di questo regime terapeutico in Europa.79 Inoltre questa strategia terapeutica può essere presa in considerazione solamente nelle donne con malattia residua microscopica dopo la citoriduzione e non in quelle con malattia residua macroscopica, perché la capacità di penetrazione dei farmaci è limitata a millimetri o frazioni di millimetri, riuscendo a colpire solo i noduli tumorali più piccoli.

Le aspettative principali per i futuri miglioramenti nella terapia del carcinoma ovarico sono dirette verso farmaci a bersaglio molecolare.

Chemioterapia di mantenimento

Considerando che il 75% delle pazienti in risposta completa svilupperà una recidiva entro 18-24 mesi, sono stati effettuati numerosi studi per cercare di trovare un’adeguata terapia di mantenimento che permetta di prolungare il più possibile la risposta indotta dalla chemioterapia di prima linea.

Non sono stati ottenuti risultati promettenti con i chemioterapici standard.

Uno studio condotto da SWOG e GOG ha dimostrato che l’utilizzo del taxolo ogni 3 settimane per 12 cicli come terapia di mantenimento aumenta la sopravvivenza libera da malattia rispetto ad una somministrazione per soli 3 cicli.80 Questi risultati sono stati poi smentiti da uno studio multicentrico italiano (After-six1), che ha dimostrato l’assenza di un miglioramento sia nella sopravvivenza globale, che nella sopravvivenza libera da malattia, in pazienti sottoposte a 6 cicli di taxolo trisettimanale ad un dosaggio di 175 mg/mq, rispetto a donne in risposta completa, non sottoposte a chemioterapia di mantenimento.81 Il farmaco che si è dimostrato fino ad ora più promettente nella terapia di mantenimento è il bevacizumab, come descritto dai due studi GOG128 e ICON7, dove una la terapia con bevacizumab è mantenuta rispettivamente per 15 e 12 mesi dopo la fine della terapia di combinazione.82, 83

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