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Citoriduzione chirurgica e chemioterapia nel trattamento primario del carcinoma ovarico avanzato

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Academic year: 2021

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1. RIASSUNTO ... 2 2. INTRODUZIONE ... 4 2.1 EPIDEMIOLOGIA ...5 2.2 PATOGENESI ...5

2.3 FATTORI DI RISCHIO E FATTORI PROTETTIVI ... 10

Fattori endocrini ... 10 Fattori ambientali ... 12 Fattori genetici ... 13 2.4 ISTOPATOLOGIA ... 15 2.5 CLINICA ... 19 2.6 SCREENING ... 21 2.7 DIAGNOSI... 22 2.8 STADIAZIONE ... 25 2.9 STORIA NATURALE ... 26 2.10 TRATTAMENTO CHIRURGICO ... 27

Stadiazione e citoriduzione chirurgica primaria ... 27

Chirurgia d’intervallo ... 31

Second look chirurgico ... 32

Chirurgia palliativa o d’emergenza ... 34

2.11 TRATTAMENTO MEDICO ... 35

Chemioterapia adiuvante negli stadi iniziali ... 35

Chemioterapia degli stadi avanzati ... 36

Chemioterapia di mantenimento ... 38

2.12 FOLLOW-UP E RECIDIVE ... 39

2.13 PROGNOSI ... 41

2.14 TERAPIA DELLA RECIDIVA ... 42

3. OBIETTIVO DELLA TESI ... 45

4. MATERIALI E METODI ... 46

5. RISULTATI ... 48

6. DISCUSSIONE E CONCLUSIONI ... 51

7. TABELLE E GRAFICI ... 58

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1. RIASSUNTO

Il carcinoma ovarico è il sesto più comune tumore femminile a livello mondiale, ma rappresenta la più comune causa di morte per neoplasia ginecologica nei paesi industrializzati. La strategia terapeutica standard del carcinoma ovarico prevede la chirurgia citoriduttiva primaria, seguita da terapia medica a base di carboplatino e taxolo.

Scopo di questa tesi è stato quello di valutare le correlazioni tra le variabili clinico-patologiche e la sopravvivenza libera da progressione e la sopravvivenza globale in una serie di 268 pazienti con carcinoma ovarico in stadio avanzato (IIB-IV) sottoposte a una chirurgia citoriduttiva primaria seguita da chemioterapia a base di platino tra marzo 1996 e ed il marzo 2013.

L’analisi multivariata ha dimostrato che la presenza di malattia residua (HR= 1.99; IC 95%: 1.418-2.805; p= 0.00007) e la presenza di ascite alla diagnosi (HR= 1.568; IC 95%: 1.152-2.133, p= 0.004) sono fattori prognostici indipendenti per la sopravvivenza libera da progressione; mentre la presenza di malattia residua (HR= 1.965; IC 95%: 1.233-3.131; p= 0.004) ed il Performance status (HR= 1.987; IC 95%: 1.358-2.907; p= 0.0004) sono variabili prognostiche indipendenti per il rischio di morte.

Dividendo le pazienti in due fasce di età (<65 anni e >65 anni) e analizzando le sopravvivenze in funzione della malattia residua nei due gruppi è emerso che la sopravvivenza libera da progressione e la sopravvivenza globale sono significativamente correlate alla malattia residua nelle pazienti di età inferiore a 65 anni (p< 0.0001 e p= 0.001, rispettivamente), ma non nelle pazienti di età superiore a 65 anni (p= 0.154 e p= 0.325, rispettivamente). Mentre nelle pazienti più giovani l’obiettivo

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è asportare tutto il tumore, anche con l’utilizzo di procedure chirurgiche radicali, nelle pazienti più anziane un intervento di citoriduzione radicale non influenza la sopravvivenza, sottolineando il possibile ruolo della biologia del tumore nell’outcome chirurgico. I miglioramenti nello studio della biologia del tumore permetteranno sia di individualizzare la terapia chirurgica sia di migliorare la terapia farmacologica, con il passaggio da un trattamento citotossico empirico ad una terapia personalizzata sulla base dello specifico pattern molecolare della neoplasia.

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2. INTRODUZIONE

Le neoplasie primitive dell’ovaio si possono suddividere in tre grandi categorie sulla base della loro diversa origine istogenetica: epiteliali, germinali e stromali dei cordoni sessuali.

Le neoplasie epiteliali rappresentano il 75% di tutte le neoplasie ovariche ed il 90% di quelle maligne. Le neoplasie non epiteliali costituiscono il 10% dei tumori maligni e si dividono in germinali e stromali dei cordoni sessuali. Le prime originano dalle cellule germinali e sono più frequenti nella popolazione infantile e adolescenziale; le seconde prendono origine dallo stroma gonadico differenziato, sono più frequenti nelle donne adulte e spesso sono tumori funzionali, ossia producono ormoni che possono dare precoci manifestazioni cliniche.1

Neoplasie epiteliali

Le neoplasie epiteliali si classificano sia sulla base del tipo cellulare (sieroso, mucinoso, endometrioide, a cellule chiare, transizionale) sia sulla base degli aspetti architetturali, dell’invasione stromale e dell’aspetto nucleare (benigno, border-line, maligno). Le neoplasie ovariche epiteliali maligne, ossia i “carcinomi”, rappresentano il 30% dei tumori dell’apparato genitale femminile e sono la prima causa di morte tra le neoplasie ginecologiche nei paesi sviluppati.

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2.1 EPIDEMIOLOGIA

Il carcinoma ovarico è la sesta neoplasia più comune per incidenza, la settima causa di morte per tumore nella donna e la prima per patologia neoplastica ginecologica (con un’incidenza pari all’1.7%). Il rischio di sviluppare una neoplasia ovarica nel corso della vita è in media di 1 donna su 75 nell’Europa Occidentale e 1 donna su 57 negli Stati Uniti.

Ci sono ampie variazioni geografiche nell’incidenza, che è più alta nelle regioni economicamente sviluppate (9,4 casi ogni 100.000 donne) rispetto ai paesi in via di sviluppo (5 casi ogni 100.000 donne).

L’incidenza del carcinoma ovarico aumenta con l’aumentare dell’età, con un picco massimo tra i 50 ed i 60 anni ed una età mediana alla diagnosi di 63 anni.

Nonostante sia una neoplasia relativamente poco frequente ha il più alto tasso di mortalità tra i tumori ginecologici. L’alto tasso di mortalità è correlato sia all’aggressività intrinseca del tumore sia alla tardività nella diagnosi.

Per quanto riguarda l’Italia, secondo il registro tumori Aiom (Associazione Italiana Oncologia Medica) una donna su 74 si ammala di carcinoma ovarico nell’arco della vita e, di queste, una su 104 muore a causa di questa neoplasia. Per quanto riguarda la prevalenza, questa è rimasta stabile, intorno al 2%, negli ultimi decenni, mentre la sopravvivenza a 5 anni è passata dal 38% nel 1990-1994, al 41% nel 2000-2004.

2.2 PATOGENESI

I meccanismi patogenetici e le cellule di origine del carcinoma ovarico sono stati a lungo studiati. Per molto tempo la teoria più accettata è stata quella secondo la quale il carcinoma deriva dall’epitelio di origine mesoteliale che circonda l’ovaio e che

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successivi cambiamenti metaplastici di queste cellule portassero allo sviluppo dei diversi sottotipi: sieroso, endometrioide, a cellule chiare, mucinoso, a cellule di transizione. Questi differenti istotipi imitano dal punto di vista morfologico strutture che originano dai dotti Mülleriani, rispettivamente: la forma sierosa, l’epitelio delle tube uterine, la forma endometrioide, l’epitelio endometriale, la forma mucinosa, l’epitelio dell’endocervice, la variante a cellule di transizione, l’epitelio delle vie urinarie.2

Secondo la teoria dell’ “incessant ovulation” di Fathalla (1971) l’ovulazione determina mensilmente dei microtraumi dell’epitelio celomatico a seguito dei processi di deiscenza follicolare. L’epitelio celomatico si introflette a riparare la soluzione di continuo, approfondendosi nello stroma ovarico fino a perdere contatto con la superficie, formando le “cisti inclusionali”. Queste numerose rotture e riparazioni potrebbero portare a mutazioni genetiche a livello delle cellule epiteliali, determinando cambiamenti metaplastici all’interno delle “cisti inclusionali” e successivamente la loro trasformazione in neoplasie maligne. Tale meccanismo consente di spiegare perché la nulliparità, il menarca precoce e la menopausa tardiva siano associate ad un aumento del rischio di sviluppare il tumore: più alto è il numero di ovulazioni nell’arco della vita della donna e maggiori sono le probabilità che si verifichino delle mutazioni durante la riparazione delle cellule in seguito alla deiscenza follicolare.3

Successivamente è stata sottolineata l’importanza dei processi infiammatori durante l’ovulazione. In ogni ciclo ovulatorio si liberano citochine e chemochine come IL-1, IL-6, IL-8, TNF-alfa, ossido nitrico e prostaglandine da parte delle cellule infiammatorie, che giocano un ruolo importante nel processo di riparazione del tessuto, ma che possono essere responsabili dei danni genetici e della successiva trasformazione maligna delle cellule coinvolgendo importanti effettori cellulari, come VEGF, NF-kB, ossido nitrico sintetasi e ciclossigenasi 2.4

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Un’altra teoria ha messo in evidenza il ruolo delle gonadotropine. E’ stato dimostrato in vitro che le gonadotropine, FSH e LH, promuovono la proliferazione di cellule ovariche preneoplastiche e neoplastiche tramite l’induzione dell’espressione di diversi fattori di crescita.5

Per lungo tempo non sono state identificate delle lesioni morfologiche che possano rappresentare i precursori del carcinoma ovarico. Questo elemento ha portato a valutare la possibilità che il carcinoma ovarico non origini direttamente dall’ovaio ma che origini da altri organi pelvici e solo successivamente coinvolga l’ovaio. La conferma a questa ipotesi è arrivata per la prima volta da un gruppo di studiosi danesi che, nel 2001, esaminando le tube di Falloppio di donne che avevano una predisposizione genetica alle sviluppo del tumore ovarico (mutazione del gene BRCA), avevano descritto delle lesioni displastiche molto simili a quelle di un carcinoma ovarico sieroso di alto grado.6 Studi successivi hanno confermato la presenza di queste lesioni displastiche chiamate “tubal intraephitelial carcinomas”, poi ridefinite come “serous tubal intraephitelial carcinomas” (STICs), in donne con predisposizione genetica, includendo pertanto il carcinoma tubarico tra i tumori associati alle mutazioni di BRCA.7

Ulteriori studi hanno dimostrato il coinvolgimento delle tube uterine e la presenza di STICs anche nel 70% delle donne affette da un carcinoma ovarico sporadico. Un elemento fondamentale è stato mettere in evidenza non solo l’associazione morfologica tra le due lesioni ma anche l’associazione genetica. Studiando il profilo genetico delle cellule neoplastiche sierose dell’ovaio si è visto che è molto più simile a quello delle cellule che rivestono la tuba uterina rispetto a quello dell’epitelio di superficie dell’ovaio, ad esempio esprimendo PAX8, un marker mulleriano, ma non la calretinina, un marker del mesotelio. Inoltre la presenza delle stesse mutazioni del gene p53 nelle STICs e nei carcinomi ovarici concomitanti suggerisce una stretta relazione clonale tra di essi.8

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E’ stata così confermata l’ipotesi secondo cui, una neoplasia epiteliale sierosa dell’ovaio originerebbe da un impianto di cellule neoplastiche tubariche sulla superficie ovarica, e non da un processo di tumorigenesi che avviene primitivamente nell’ovaio.9

Non sempre è possibile identificare un precursore tubarico, come dimostrano il 30% dei casi in cui le lesioni tubariche non vengono individuate. Ci sono diverse spiegazioni possibili per questo fenomeno:

- STICs piccoli possono non essere identificati a seguito di un cattivo campionamento della tuba.

- Le neoplasie sierose posso crescere rapidamente, obliterando gli STICs.

- E’ possibile la formazione di “cisti da inclusione” nello stroma ovarico. Le cisti non derivano dall’epitelio germinativo, ma sono le cellule epiteliali della fimbria, in stretto contatto con la superficie ovarica, che durante l’ovulazione vengono inglobate nella corticale a formare cisti da inclusione da cui poi si sviluppa il carcinoma ovarico sieroso di alto grado. Inoltre con l’ovulazione viene rilasciato il liquido follicolare, che contiene specie reattive dell’ossigeno (ROS), che potrebbero alterare il microambiente circostante e favorire le prime fasi della carcinogenesi.9

Studiando meglio le tube sono state scoperte altre anomalie, definite come STILs “serous tubal intra-epithelial lesions”, o TILT, “tubal intraepithelial lesions in transition”. In questi tratti di epitelio ed in tratti adiacenti di epitelio apparentemente normale, si è individuato cellule che iperesprimono p53 ed in alcuni casi possono presentare delle mutazioni che sono state definite “p53 signatures”. Non è ancora chiaro se le STILs e le “p53 signatures” rappresentino gli eventi precoci della carcinogenesi o se siano dei cambiamenti reattivi benigni che portano all’iperespressione di p53, senza collegamenti con lo sviluppo della neoplasia.10

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L’origine tubarica del carcinoma sieroso vale sia per i carcinomi di alto grado che per quelli di basso grado. In donne con una neoplasia di basso grado analizzando le tube è stata descritta una “iperplasia papillare tubarica”, caratterizzata da clusters di cellule papillari associati alla presenza di corpi psammomatosi. Queste cellule tenderebbero a distaccarsi dalla tuba ed a impiantarsi sull’ovaio portando alla sviluppo di neoplasie di basso grado con caratteristiche morfologiche simili all’iperplasia papillare tubarica; questo spiegherebbe anche l’associazione tra il carcinoma sieroso di basso grado e l’endosalpingiosi, una lesione caratterizzata da strutture ghiandolari e papillari rivestita da cellule epiteliali tubariche, che si può trovare nel peritoneo pelvico, nell’omento e nei linfonodi pelvici e lomboaortici.10

L’origine extraovarica può essere confermata anche per gli altri differenti istotipi neoplastici.

Le neoplasie endometrioidi e quelle a cellule chiare si sviluppano da cisti endometriosiche (endometriomi) che si associano spesso ad altri impianti di endometriosi nell’ambito della pelvi.11

I flussi mestruali retrogradi responsabili dell’endometriosi determinano l’impianto di tessuto endometriale sull’ovaio da cui poi si sviluppano le due neoplasie. A sostegno di questo meccanismo è il fatto che l’endometrio ectopico esprime anormalità molecolari, tra cui l’attivazione di oncogeni, che sarebbero implicate nell’impianto, nella sopravvivenza e nell’invasione della superficie ovarica e peritoneale.12 Si capisce come la legatura delle tube, bloccando la mestruazione retrograda, possa avere un effetto protettivo epidemiologicamente significativo nei confronti dello sviluppo di tumori endometrioidi e a cellule chiare, mentre non ha questo effetto nei confronti dei tumori sierosi, in quanto non impedisce l’esfoliazione delle cellule tubariche anomale da parte della fimbria.13

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I tumori mucinosi hanno un’origine più difficile da interpretare in quanto non mostrano un fenotipo mülleriano. Infatti, anche se può essere ipotizzata una relazione con l’endocervice, l’epitelio mucinoso che caratterizza questa neoplasia presenta molti più aspetti in comune con la mucosa gastrointestinale ed inoltre la sua origine da cisti di inclusione corticale è piuttosto improbabile, considerando la rarità con cui si ritrova la metaplasia mucinosa al loro interno. E’ stata descritta un’associazione tra i tumori mucinosi ed i tumori di Brenner (a cellule di transizione): in entrambi si possono ritrovare le “Walthard cell nests”, costituite da epitelio di transizione che è presente frequentemente in cisti paraovariche e paratubariche. Questo ha portato a ritenere che le neoplasie mucinose e quelle di Brenner possano entrambe originare, tramite un processo di metaplasia, da nidi di cellule di transizione localizzati a livello della giunzione tubo-peritoneale.14

2.3 FATTORI DI RISCHIO E FATTORI PROTETTIVI

I fattori di rischio possono essere classificati in endocrini, ambientali, e familiari o genetici.

Fattori endocrini

Il rischio di sviluppare il carcinoma ovarico è direttamente proporzionale all’età ovulatoria della donna. Multiparità e contraccettivi estroprogestinici rappresentano fattori protettivi. I dati epidemiologici hanno evidenziato una riduzione dell’incidenza del carcinoma ovarico nei paesi ad elevato consumo di contraccettivi orali. L’uso della pillola per più di 5 anni riduce il rischio di tumore del 40-50% e questo effetto protettivo persiste fino a 10-15 anni. Diversi studi hanno cercato di spiegare questo effetto protettivo. Uno dei più importanti è stato quello condotto sul Macaco Reshus da

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Rodriguez nel 2002 in cui le scimmie erano suddivise in quattro gruppi sottoposti a differente alimentazione. Il primo gruppo riceveva un’alimentazione integrata con progesterone, il secondo gruppo integrata con estrogeni, il terzo gruppo sia con progesterone che con estrogeni, ed il quarto gruppo senza nessun tipo di ormone. Le scimmie dopo 35 mesi sono state sottoposte ad intervento di annessiectomia bilaterale. Le ovaie di scimmie alimentate con integrazione di progesterone avevano indici apoptotici delle cellule superficiali più elevati rispetto al gruppo alimentato con solo estrogeni ed a quello senza nessun supplemento ormonale. Questo aumento dell’indice apoptotico era associato ad un decremento nell’espressione del TGF-β1 e ad un aumento dell’espressione del TGF-β2/3. Gli estrogeni al contrario determinavano una riduzione dell’indice apoptotico delle cellule di superficie ma non avevano nessuna influenza sull’espressione delle varie isoforme del TGF-β.15

Questo ed altri studi hanno contribuito a dimostrare come il progesterone eserciti effetti protettivi, promuovendo l’apoptosi delle cellule epiteliali, sia attraverso la modulazione delle varie isoforme del TGF-β, sia attraverso l’attivazione del sistema Fast/FastL.16, 17

Al contrario gli estrogeni ridurrebbero l’apoptosi, determinando una up-regulation del gene Bcl-2, uno dei principali fattori anti-apoptotici.18

L’effetto protettivo svolto da gravidanza e contraccettivi orali potrebbe essere pertanto dovuto non ad una riduzione del numero di ovulazioni, ma all’aumento dei livelli di progesterone con conseguente incremento dell’indice apoptotico delle cellule superficiali.

Sono stati fatti numerosi studi per capire il ruolo svolto dalla terapia ormonale sostitutiva (HRT) come possibile fattore di rischio. Secondo uno studio di coorte danese che ha randomizzato 909.946 donne di età compresa tra 50 e 79 anni le donne che assumevano HRT, rispetto a donne che non avevano mai assunto terapia ormonale,

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avevano un rischio relativo per lo sviluppo di un carcinoma ovarico di 1.44 (IC 95%, 1.30-1.58) di fatto superiore rispetto alla norma. Questo rischio tendeva a diminuire alla sospensione del trattamento, diventando 1.22 dopo un tempo inferiore ai due anni, 0.98 dopo 2-4 anni, 0.72 dopo 4-6 anni e 0.63 dopo più di 6 anni.19 Studi successivi hanno dimostrato come il regime di terapia ormonale sostitutiva sia importante nella determinazione del rischio. Infatti l’aggiunta dei progestinici, soprattutto nello schema HRT continua, rendeva il rischio sovrapponibile a quello della popolazione normale, confermando il ruolo protettivo del progesterone indipendentemente dal numero di ovulazioni e dalla formazione di cisti inclusionali.20

Il carcinoma ovarico si sviluppa con maggiore frequenza nel periodo post-menopausale, caratterizzato da un elevato livello di gonadotropine. Pertanto è stato studiato il ruolo come fattori di rischio di farmaci che inducono l’ovulazione, come ad esempio il clomifene citrato o le gonadotropine, che agiscono stimolando la secrezione, da parte dei nuclei ipotalamici di GnRH e conseguentemente la secrezione di LH e FSH dall’ipofisi. In alcuni studi si sottolineava come l’uso del clomifene citrato aumentasse di poco il rischio per il carcinoma ovarico. Tuttavia al confronto tra donne nullipare trattate e donne nullipare non trattate non sono state evidenziate differenze significative, sottolineando come sia l’infertilità ad aumentare il rischio e non l’utilizzo di farmaci che inducono l’ovulazione. Questi farmaci aumenterebbero invece, anche se di poco, il rischio di sviluppare tumori border-line, confermando la diversa patogenesi di questo tipo di neoplasia.21

Fattori ambientali

Vari studi hanno indagato il ruolo dell’alimentazione come possibile fattore di rischio. Donne che assumono elevate quantità di carni rosse sembrerebbero avere un aumento

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del rischio relativo di sviluppare il tumore, mentre il basso consumo di carni rosse e l’alto consumo di carni bianche e pesce sembrano avere un effetto protettivo.22

Studi recenti hanno identificato il possibile ruolo protettivo dell’assunzione di acidi grassi polinsaturi omega 3 e omega 6 soprattutto nei confronti delle forme endometrioidi. Al contrario un’alimentazione ricca di acidi grassi saturi potrebbe aumentare il rischio.23

Meno chiaro è il ruolo dal fumo di sigaretta, del consumo di caffeina e alcool, presi in considerazione in diversi studi che non hanno dato risultati conclusivi.24, 25

L’esposizione della regione perineale al talco sembra essere associata ad un aumento del rischio di sviluppare neoplasie ovariche.26

Fattori genetici

La maggior parte delle neoplasie epiteliali dell’ovaio è sporadica, tuttavia si riconosce una trasmissione ereditaria nel 5-10% dei casi. Gli elementi di sospetto verso una possibile ereditarietà sono rappresentati da: più componenti della famiglia affetti dalla neoplasia, precoce età di insorgenza e bilateralità del tumore. Inoltre la presenza di altri tumori nello stesso soggetto (mammella, colon, endometrio) e più parenti che hanno presentato tumore della mammella o dell’ovaio in premenopausa ci indirizzano verso una possibile sindrome ereditaria. Le sindromi genetiche caratterizzate dalla presenza di carcinoma ovarico ereditario sono:

La Breast-ovarian cancer syndrome, legata ad una mutazione dei geni BRCA1(17q) e BRCA2(12q). Entrambi sono geni oncosoppressori, che codificano per proteine appartenenti al sistema di riparazione del DNA. La loro mutazione viene trasmessa in modo autosomico dominante e determina un deficit nella via di ricombinazione omologa (HR). Le donne con mutazione di BRCA1 hanno un rischio dell’75-85% di sviluppare un carcinoma mammario entro i 70 anni e del 60% di sviluppare un carcinoma ovarico. La mutazione di BRCA2 è associata ad un rischio più basso di sviluppare la neoplasia, sia

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ovarica che mammaria, ma si associa ad un aumento del rischio per lo sviluppo del carcinoma mammario negli individui di sesso maschile, dove la diagnosi spesso viene fatta tardivamente e, mancando il tessuto adiposo retromammario, il tumore può estendersi facilmente verso i piani sottostanti. Inoltre questa mutazione comporta un aumento del rischio per lo sviluppo di altre neoplasie: melanoma, carcinoma pancreatico e sottotipo B dell’anemia di Fanconi.27

La site specific ovarian cancer syndrome, legata sempre ad una mutazione dei geni BRCA1/BRCA2, ma molto meno frequente rispetto alla precedente.

La Sindrome di Lynch 2 (HNPCC), caratterizzata da mutazioni che coinvolgono i geni del Mismatch Repair System (MMR) che codificano per enzimi coinvolti nella riparazione del DNA. E’ meno frequente rispetto alla Breast-ovarian cancer syndrome, essendo responsabile del 2-4% dei tumori dell’ovaio, ed è caratterizzata da un aumento del rischio di sviluppare diverse neoplasie: carcinoma del colon non associato a poliposi, carcinoma endometriale, ovarico, gastrico e mammario

La sindrome di Li-Fraumeni, responsabile di un numero esiguo di carcinomi dell’ovaio ereditari. Questa sindrome è caratterizzata dalla trasmissione ereditaria di una mutazione nel gene p53, detto anche “guardiano del genoma”. La perdita di questo meccanismo di protezione nei confronti di eventuali danni arrecati al DNA determina, nei soggetti portatori di questa mutazione, un aumento del rischio di sviluppare prima dei 40 anni diverse neoplasie come sarcomi, tumori cerebrali, carcinomi adrenocorticali, carcinomi della mammella e dell’ovaio.

Ci sono tuttavia alcuni clusters familiari di carcinomi ovarici in cui non può essere identificata nessuna di queste mutazioni, anche dopo aver effettuato un test genetico completo ed accurato. Le ragioni possono essere: una mutazione in un gene non ancora conosciuto, mutazioni multiple in un gene a bassa penetranza, oppure la

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mutazione, non del gene, ma dei suoi oncoregolatori, con alterazioni nel suo funzionamento. Questo ci fa capire come la familiarità sia già un rischio di per sé e come risulti importante in questi casi quantificare, sulla base della storia familiare e personale, il rischio di sviluppare un carcinoma ovarico.28

2.4 ISTOPATOLOGIA

I tumori epiteliali dell’ovaio sono classificati dalla WHO (World Health Organization) sulla base dell’istotipo principale in neoplasie sierose, mucinose, endometriodi, a cellule chiare, a cellule di transizione, indifferenziate e miste. Per ogni sottotipo si possono distinguere, analizzando l’architettura del tumore, l’invasione dello stroma e le caratteristiche dei nuclei cellulari, tumori con caratteri di benignità, definiti cistoadenomi, tumori con caratteri di malignità, definiti cistoadenocarcinomi, e tumori con caratteristiche intermedie, definiti tumori borderline o “tumori proliferativi atipici”.

I tumori maligni poi si suddividono sulla base del grado di differenziazione istologica in tumori G1, ben differenziati, tumori G2, moderatamente differenziati e tumori G3, scarsamente differenziati. I sistemi di grading più comunemente utilizzati sono: il sistema proposto dalla FIGO (International Federation of Gynecology and Obstetrics), quello proposto dalla WHO e quello proposto dal GOG (Gynecologic Oncology Group)29. Il sistema FIGO suddivide i tumori sulla base della proporzione tra tessuto con aspetto ghiandolare e papillare e tessuto solido all’interno della neoplasia. Il grado 1 corrisponde a meno del 5% di componente solida, il grado 2 componente solida tra 5-50% e il grado 3 con la componente solida che supera il 5-50%.

Dal punto di vista anatomo-patologico ci sono delle caratteristiche fondamentali che permettono di distinguere i differenti tipi istologici di carcinoma ovarico.

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Il cistoadenocarcinoma sieroso è la variante più frequente (75% dei casi) e nel 60% dei casi è bilaterale. Dal punto di vista macroscopico, si presenta come una massa solida o solido-cistica con aree di emorragie e necrosi al suo interno. Il liquido contenuto è generalmente fluido. Microscopicamente l’epitelio di rivestimento è costituito da cellule epiteliali ciliate pluristratificate, spesso multinucleate e con un elevato numero di mitosi. E’ caratteristica di questo istotipo la presenza di numerose papille costituite da un asse fibrovascolare centrale e rivestite da epitelio atipico. La presenza di calcificazioni concentriche, chiamate corpi psammomatosi è caratteristica della variante sierosa, ma non è un elemento costante.30

Il cistoadenocarcinoma mucinoso è molto meno frequente (3-4% dei casi). Macroscopicamente si presenta come una massa cistica multiloculata di notevoli dimensioni contente un liquido vischioso. Nella maggior parte dei casi il tumore mucinoso è unilaterale e tende ad ingrandirsi fino ad inglobare completamente l’ovaio da cui origina. Microscopicamente l’epitelio di rivestimento è costituito da cellule muco-secernenti, simili a quelle epiteliali gastrointestinali. Le neoplasie mucinose bilaterali sono spesso ripetizioni ovariche di neoplasie gastrointestinali.

Il cistoadenocarcinoma endometrioide (10% dei casi) si presenta in donne di età avanzata e tipicamente viene diagnosticato in stadio iniziale. Solitamente è unilaterale e origina o da un focolaio endometriosico sull’ovaio o dalla degenerazione di una cisti endometriosica. Istologicamente presentano i caratteri tipici di un adenocarcinoma dell’endometrio con numerose proliferazioni ghiandolari accompagnate da eventuali aree di differenziazione squamosa. Non è infrequente l’associazione tra adenocarcinoma dell’endometrio e dell’ovaio. In questi casi è importante differenziare la sincronicità delle due neoplasie, dove le pazienti hanno una sopravvivenza a 5 anni del

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75-85%, dalla condizione di malattia metastatica, dove la sopravvivenza scende al 30-40% a 5 anni.

La variante a cellule chiare è molto rara alle nostre latitudini (meno del 5% dei casi), mentre è più frequente nei paesi Asiatici. E’ generalmente unilaterale, può essere a predominanza solida o cistica ed è caratterizzata da grandi cellule epiteliali con abbondante citoplasma chiaro. Come la variante endometrioide deriva da cellule endometriali e colpisce donne di età più avanzata. Sebbene un terzo di questi tumori siano diagnosticati in fase iniziale, diversi studi hanno sottolineato la loro prognosi sfavorevole, indipendentemente dallo stadio, analogamente a quello che si verifica per la variante a cellule chiare dell’endometrio.31

La variante a cellule di transizione, o tumore di Brenner, è strettamente collegata alla variante mucinosa. Uno studio provocativo pubblicato nel 2008 ha messo in evidenza come, sezionando in maniera accurata i cistadenomi mucinosi, nel 18% dei casi si potessero ritrovare focolai di tumore di Brenner.14 L’ipotesi, che deve ancora essere confermata da studi molecolari e genetici, è che il tumore di Brenner, inizialmente di piccole dimensioni, man mano che si ingrandisce aumenti la sua componente mucinosa fino a che questa non diventa predominante. Si presenta piuttosto raramente, di solito è monolaterale, di dimensioni variabili e tipico dell’età avanzata.

La variante indifferenziata è quella più aggressiva e con prognosi peggiore. E’ seconda per frequenza alla forma sierosa. Nel 50% dei casi è bilaterale. Si presenta come una massa di elevate dimensioni con numerose aree di emorragia e necrosi, la cui struttura è troppo poco differenziata per catalogarla in una delle varianti precedenti.

La variante mista è composta da due o più dei tipi istologici appena descritti, senza la predominanza di uno di essi.

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Sulla base delle nuove teorie patogenetiche e di studi morfologici e di biologia molecolare, è stato proposto un modello dualistico della carcinogenesi ovarica, che divide i differenti istotipi delle neoplasie epiteliali maligne in tumori di tipo 1 e tumori di tipo 2, secondo le loro caratteristiche clinico-patologiche e molecolari.32

I tumori di tipo 1 comprendono il carcinoma sieroso di basso grado, il carcinoma endometrioide di basso grado, il carcinoma a cellule chiare, il carcinoma mucinoso ed il tumore di Brenner. Rappresentano il 25% dei tumori, sono quelli meno aggressivi, diagnosticati più frequentemente in stadi iniziali e con prognosi migliore. Si ritiene che per questo gruppo di tumori esista una cancerogenesi multistep simile a quella del carcinoma del colon-retto. La sequenza tipica prevede la trasformazione di un cistoadenoma in un cistoadenoma borderline e successivamente in un cistoadenocarcinoma di basso grado. Queste neoplasie hanno delle mutazioni genetiche specifiche per ciascun tipo istologico. I tumori sierosi di basso grado nei due terzi dei casi presentano mutazioni dei geni KRAS, BRAF e ERBB2, che determinano un’attivazione della via delle MAPK, importante per la risposta cellulare sia a stimoli proliferativi che differenziativi, mentre sono molto rare le mutazioni di p53.33 Nei tumori endometrioidi di basso grado si possono trovare sia mutazioni attivanti il gene CTNNB1, che codifica per la β-catenina e altera la via di segnale Wnt/β-catenina, coinvolta nella proliferazione e nella motilità cellulare, sia mutazioni che coinvolgono i geni PTEN e PIK3CA, che regolano la chinasi PI3K, coinvolta nell’attivazione di vie di trasduzione del segnale34. Nei tumori mucinosi ci sono mutazioni del gene KRAS in più del 50% dei casi. Nei tumori a cellule chiare è presente una mutazione a livello di un gene oncosoppressore chiamato ARID1A, che codifica per una proteina coinvolta nel rimodellamento della cromatina.35

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I tumori di tipo 2 sono quelli più numerosi, costituendo il 75% dei casi. Comprendono i carcinomi sierosi di alto grado, i carcinomi endometrioidi di alto grado ed i carcinomi indifferenziati. Si presentano perlopiù in stadi avanzati, sono molto più aggressivi, con una crescita rapida ed una prognosi infausta. Presentano una spiccata instabilità genetica e nel 95% dei casi si ritrovano mutazioni del gene p53, molto rare nei tumori di tipo 1.36 Oltre a mutazioni di p53, nel 40-50% dei tumori sierosi ad alto grado di tipo sporadico sono state trovate inattivazioni dei geni BRCA1/2 causate sia dall’ipermetilazione del promotore di BRCA sia da altri meccanismi.37

Questo modello dualistico ha delle importanti implicazioni nella diagnosi precoce e nel trattamento. Per quanto riguarda la diagnosi precoce, la suddivisione dei tumori in tipo 1 e 2 non fa che sottolineare la difficoltà nell’individuare delle tecniche di diagnosi che possano essere utilizzate indistintamente per i diversi tipi di tumori. Infatti, mentre le neoplasie di tipo 1, a crescita lenta e unilaterali, potrebbero essere diagnosticate in fase precoce con una visita ginecologica ed una ecografia pelvica, le neoplasie di tipo 2, molto più aggressive, si estendono precocemente e rapidamente al di fuori dell’ovaio e questo rende non utilizzabili queste due procedure nella diagnosi precoce. Più sensibile potrebbe essere la ricerca di marcatori espressi precocemente dalla neoplasia nelle fasi iniziali del processo di carcinogenesi quando il tumore è ancora di piccole dimensioni.10

2.5 CLINICA

La sintomatologia è vaga e nel 70% dei casi la diagnosi viene fatta quando il tumore si trova già in stadio avanzato, attribuendogli l’appellativo di “killer silenzioso”. Una sintomatologia fortemente aspecifica, con sintomi che mimano disturbi di natura gastrointestinale (dispepsia, eruttazione, sazietà precoce, nausea, vomito, costipazione), disturbi urinari (urgenza urinaria e aumento della frequenza delle

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minzioni), comparsa di dolore e gonfiore addominale, anoressia e stanchezza, può essere presente già 3-6 mesi prima della diagnosi. Quando queste manifestazioni si presentano da meno di un anno e per più di 12 volte al mese, deve essere presa in considerazione la possibile presenza di un carcinoma ovarico.38

In fase avanzata la sintomatologia diventa più conclamata. Oltre ai sintomi tipici di tutte le patologie neoplastiche, quali astenia, anoressia e il decadimento fisico fino alla cachessia, la sintomatologia è rappresentata da un aumento di volume dell’addome, da un senso di pesantezza/tensione, da una vaga dolenzia addominale. Può essere talvolta presente una sintomatologia legata alla compressione sugli organi adiacenti (stipsi, pollachiuria e disuria, dispareunia) .

La distensione addominale è dovuta alla presenza di ascite, determinata dalla produzione da parte della neoplasia del fattore di crescita dell’endotelio, vascular endothelial growth factor, VEGF, che stimola l’angiogenesi ed aumenta la permeabilità vascolare, favorendo la diffusione intraperitoneale del tumore.39

L’aumento del volume addominale può causare difficoltà respiratorie, limitando l’espansione della cavità toracica. Quando è presente dispnea bisogna escludere la presenza di un versamento pleurico maligno che può essere dovuto sia all’ostruzione della rete linfatica da parte dei noduli di carcinosi localizzati in sede diaframmatica, sia al passaggio di cellule neoplastiche dalla cavità peritoneale a quella pleurica tramite comunicazioni transdiaframmatiche.40

Talora la prima manifestazione clinica può essere legata a fenomeni di tipo occlusivo. L’occlusione intestinale è spesso dovuta alla carcinosi peritoneale che può determinare la compressione e l’occlusione di tratti intestinali oppure la loro paralisi (ileo paralitico o adinamico), in quanto l’onda peristaltica non progredisce a causa della carcinosi 41

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2.6 SCREENING

L’elevata mortalità del carcinoma ovarico è dovuta, nella maggior parte dei casi, alla diagnosi tardiva. Al momento attuale non vi è indicazione a fare uno screening per il carcinoma ovarico nella popolazione generale, in quanto non esistono test con un’adeguata sensibilità e specificità tali da consentire una diagnosi precoce. Un test di screening valido dovrebbe avere una predittività del 10% ed una specificità piuttosto alta (almeno del 99.6%) per evitare di sottoporre donne non malate a procedure chirurgiche invasive ed a successive eventuali complicazioni, vanificando i vantaggi di una possibile diagnosi precoce.42

Uno studio multicentrico statunitense ha arruolato, tra il 1993 ed il 2001, 78.232 donne tra i 55 ed i 74 anni, che sono state divise in un gruppo di controllo che non veniva sottoposto a controlli routinari ed in un altro gruppo che veniva sottoposto ad ecografia transvaginale per 4 anni e dosaggio del Ca125 per 6 anni, per un follow-up complessivo di 13 anni. I risultati hanno dimostrato che uno screening con ecografia transvaginale e dosaggio del Ca125 annuali non riduceva la mortalità per carcinoma ovarico e che anzi c’era un’incidenza non trascurabile di morbilità iatrogena associata alle procedure di screening.43

Risultati più promettenti sono emersi dallo studio randomizzato UKCTOCS, “United Kingdom Collaborative Trial of Ovarian Cancer Screening”, condotto tra il 2001 ed il 2005 che ha arruolato 202.632 donne in post-menopausa. Queste donne sono state suddivise in tre gruppi: uno di controllo, uno sottoposto ad uno screening annuale con ecografia transvaginale ed uno sottoposto ad uno screening multimodale, basato sul dosaggio annuale del Ca125, interpretato utilizzando il risk ovarian cancer algorithm (ROC), un algoritmo particolare ottenuto dalla valutazione della retta di regressione, che

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si ottiene riportando il valore esponenziale del Ca125 in scala logaritmica, seguito, solo se questo si presentava alterato, da una ecografia transvaginale. La specificità e la sensibilità sono state rispettivamente del 99,8% e dell’89,5% nel gruppo sottoposto a screening multimodale rispetto al gruppo sottoposto solamente ad ecografia. Questi dati sono piuttosto incoraggianti anche se devono essere integrati con i dati relativi alla mortalità per definire effettivamente l’efficacia del programma di screening.44

Diverso è il ruolo dei programmi di screening nelle pazienti ad elevato rischio di sviluppare la neoplasia, come nei casi di familiarità. Le linee guida del National Comprehensive Cancer Network (NCCL) raccomandano una ecografia transvaginale ed il dosaggio del Ca125 ogni sei mesi a partire dai 35 anni. In queste pazienti ad alto rischio, potrebbe essere utilizzato come test di screening l’OVALiFE test che è caratterizzato dal dosaggio di sei biomarcatori: leptina, prolattina, osteopontina, IGF2, fattore inibitorio dei macrofagi e Ca125. Questo test ha una sensibilità ed una specificità molto superiori rispetto al dosaggio del solo Ca125 nella diagnosi differenziale del carcinoma ovarico.45

2.7 DIAGNOSI

La diagnosi di certezza è chirurgica. L’intervento chirurgico permette l’asportazione della massa ovarica che viene inviata all’anatomo-patologo per la diagnosi istologica definitiva e consente anche la stadiazione.

In presenza di manifestazioni cliniche sospette per una neoformazione ovarica, dopo un’accurata raccolta dei dati anamnestici (età, storia clinica, anamnesi ostetrica-ginecologica) vengono effettuate una serie di indagini che permettono di orientare verso la diagnosi di carcinoma e successivamente di programmare la strategia terapeutica.

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Esame obiettivo

Alla visita ginecologica una massa è considerata sospetta quando presenta diametro superiore a 5 cm, è fissa, irregolare, di consistenza solida o semisolida e quando sono coinvolte entrambe le ovaie. L’esame pelvico deve essere accompagnato ad un esame obiettivo generale, che permette di individuare la presenza di ascite, di metastasi linfonodali superficiali, di versamento pleurico e di edema agli arti inferiori.

L’età della paziente, le dimensioni, la consistenza della tumefazione e la bilateralità sono i fattori che orientano verso una neoformazione maligna e che impongono l’esecuzione di ulteriori approfondimenti.

Diagnosi strumentale

L’ecografia grazie alla bassa invasività, alla elevata disponibilità ed ai bassi costi è la metodica di scelta iniziale nella valutazione della massa pelvica. L’ecografia può essere eseguita sia per via transvaginale che transaddominale.

Gli aspetti ecografici che orientano verso la malignità sono:

- la presenza di masse solide o solido-cistiche, irregolari, con margini mal definiti e con all’interno setti spessi e papille,

- le dimensioni superiori ai 5 cm.

L’uso del Color-Doppler permette di visualizzare la vascolarizzazione della massa, che nelle tumefazioni sospette è anarchica e localizzata all’interno dei setti e delle strutture papillari.

Neoformazioni di dimensioni inferiori ai 5 cm, cistiche, rotondeggianti, con margini regolari e con vascolarizzazione regolare e periferica orientano verso una diagnosi di benignità.46

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Ulteriori indagini strumentali sono la TC e RMN, che permettono di definire più dettagliatamente le caratteristiche della massa e la sua estensione, e che diventano importanti nelle programmazione dell’intervento chirurgico.47

In caso di dubbio clinico di infiltrazione degli organi contigui o di secondarietà della lesione ovarica (tumore di Krugenberg) è raccomandata l’esecuzione di esami endoscopici come la rettoscopia, la cistoscopia o la gastroscopia.

Markes tumorali.

Ca125

E’ glicoproteina prodotta dalle sierose. L’aumento al di sopra di 35 U/mL si verifica nell’80% dei carcinomi ovarici di istotipo non mucinoso. La sensibilità è superiore al 90% e la specificità è del 70%. L’ aumento del Ca125 non è sempre associato alla presenza del tumore: un aumento può riscontrarsi anche in condizioni non neoplastiche (malattia infiammatoria pelvica, endometriosi o salpingite) od in altre neoplasie ginecologiche (endometrio o salpingi) o neoplasie non ginecologiche (neoplasie del pancreas, del colon-retto o del polmone).

Per migliorare la diagnosi differenziale tra tumefazioni benigne e maligne è stato introdotto uno score, chiamato RMI, risk of malignancy index, che è il risultato del prodotto dello stato menopausale (1 se premenopausa, 3 se menopausa), dell’ecografia transvaginale (punteggio da 0 a 3) e del valore del Ca 125. Con il cut-off stabilito a 200, si raggiunge una specificità del 94,4% ed una sensibilità dell’81,5% nella diagnosi di patologia ovarica maligna.48

HE4

E’ proteina inizialmente scoperta nel secreto spermatico, che è espressa dai tumori ovarici e sembra avere una sensibilità ed una specificità superiori al Ca125, soprattutto negli stadi iniziali di malattia.49

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L’associazione del dosaggio di Ca 125 e di HE4 migliora notevolmente la specificità nella diagnosi, ed è la base di un sistema di scoring, chiamato ROMA, risk ovarian malignancy algorithm, che associa questi due marcatori con lo stato menopausale, senza considerare l’ecografia. Valori del test ROMA superiori al 13% in premenopausa e superiori al 27% in post menopausa indicano un alto rischio di diagnosi di carcinoma ovarico.50

Nelle pazienti con un tumore mucinoso il Ca125 può essere negativo, in questi casi è utile il dosaggio di altri due marcatori, il Ca19.9 ed il CEA, che possono essere elevati anche in altri istotipi.

2.8 STADIAZIONE

La stadiazione si basa sui reperti chirurgici. Secondo quanto previsto dalla FIGO per una corretta stadiazione (Tabella 1) le pazienti devono essere sottoposte a51:

Citologia del liquido di lavaggio peritoneale o del liquido ascitico Isterectomia totale extra fasciale

Annessiectomia bilaterale Omentectomia

Biopsie peritoneali multiple Appendicectomia

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2.9 STORIA NATURALE

Il carcinoma ovarico può diffondersi per via intraperitoneale, per via linfatica retroperitoneale, per via linfatica diaframmatica, per via ematica e per contiguità.

La via principale è quella intraperitoneale. Le cellule neoplastiche si sfaldano dalla superficie del tumore e cadono nella cavità peritoneale dove per gravità tendono a depositarsi nel punto più declive, il cavo del Douglas. Il liquido peritoneale circola continuamente a causa delle variazioni pressorie endoaddominali dovute sia ai movimenti respiratori che ai movimenti peristaltici. Questo circolo continuo trasporta le cellule neoplastiche che possono impiantarsi in varie sedi: a livello della superficie peritoneale, in particolare a livello della doccia paracolica di destra che è la comunicazione principale tra lo spazio sovra e sottomesocolico, a livello dell’omento, della superficie peritoneale del diaframma, da cui tramite i vasi linfatici possono localizzarsi in sede pleurica.

Per quanto riguarda la via linfatica retroperitoneale ci sono due principali vie di drenaggio: il peduncolo gonadico e il peduncolo iliaco esterno. Il peduncolo gonadico segue i vasi ovarici e raggiunge a destra i linfonodi pre e paracavali e gli intercavoaortici a livello di L1-L2 e a sinistra i linfonodi pre e lateroaortici. Il peduncolo iliaco esterno drena ai linfonodi iliaci esterni, da qui ai linfonodi iliaci comuni e successivamente ai linfonodi aortici. I linfonodi iliaci esterni, iliaci comuni e lomboaortici sono considerati linfonodi regionali, coinvolti nel 70% dei casi negli stadi avanzati ed in un 5-24% dei casi negli stadi iniziali. I linfonodi inguinali sono coinvolti raramente o per via retrograda dai linfonodi iliaci esterni o per via diretta attraverso i vasi linfatici localizzati nel ligamento inguinale.52

La diffusione per via ematica è più rara e di solito avviene in fase avanzata. Le sedi più frequenti sono rappresentate dal fegato e dai polmoni. Più rare le localizzazioni ossee e

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cerebrali. Mentre fino a qualche anno fa le metastasi cerebrali erano un evento molto raro, oggi il numero di casi sta aumentando e questo è dovuto principalmente al miglioramento delle terapie che tendono a cronicizzare la malattia, aumentando la percentuale di donne sopravviventi a 5 anni. Questo prolungamento della sopravvivenza permette a focolai di micrometastasi di insediarsi in sedi apparentemente insolite come a livello cerebrale. Queste localizzazioni si ritrovano più frequentemente in donne con una lunga storia di malattia sottoposte a numerose terapie.53

Il 60% delle paziente muore per occlusione intestinale, il 30% per cachessia ed il restante 10% per ostruzione e sepsi urinaria o per metastasi a distanza.52

2.10 TRATTAMENTO CHIRURGICO

La chirurgia rappresenta la parte centrale del trattamento del carcinoma ovarico. Ha sia un ruolo diagnostico, permettendo l’accertamento istopatologico della natura della massa, sia un ruolo terapeutico, asportando la massa, sia un ruolo di stadiazione, valutando l’estensione della malattia.

Stadiazione e citoriduzione chirurgica primaria

Una volta identificata una massa ovarica sospetta dopo precise procedure diagnostiche si programma l’intervento chirurgico, che è essenzialmente un intervento eseguito per via laparotomica. Si procede al prelievo del liquido peritoneale o al lavaggio peritoneale (minimo 250 ml), all’asportazione della neoformazione, evitandone la rottura o lo spillage e all’invio della massa alla diagnosi istopatologica. Se la diagnosi è di neoplasia maligna, si procede alla stadiazione chirurgica intensiva.

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Stadi iniziali

Quando la malattia si presenta in stadi iniziali (I e II) la chirurgia prevede l’asportazione dell’apparato genitale e la valutazione dell’estensione della malattia.

Le procedure chirurgiche di stadiazione prevedono54:

Ovarosalpingectomia controlaterale e isterectomia extrafasciale

Esplorazione della cavità addomino-pelvica con biopsie di lesioni sospette e di briglie aderenziali ed in assenza di lesioni sospette, biopsie random in aree a maggior rischio di localizzazione di malattia: cavo del Douglas, peritoneo prevescicale, docce parietocoliche, peritoneo diaframmatico e radice del mesentere

Omentectomia: totale se ci sono lesioni sospette, infracolica se l’omento è macroscopicamente indenne

Appendicectomia, soprattutto se è coinvolta o se, dall’esame estemporaneo, il risultato è di una neoplasia mucinosa

Linfadenectomia pelvica e lomboaortica. L’alternativa potrebbe essere il sampling linfonodale, che asporta i linfonodi palpabili. La linfadenectomia sistematica tuttavia, evidenzia un numero maggiore di metastasi linfonodali rispetto al sampling (22% versus 9%). Questo consente una più corretta stadiazione, in quanto la presenza di metastasi linfonodali determina il passaggio da uno stadio iniziale ad uno stadio IIIC, ma non determina un aumento significativo della sopravvivenza libera da malattia e della sopravvivenza globale. Il rischio di riscontrare metastasi linfonodali è correlato all’istotipo ed al grado, per questo è consigliabile eseguire una linfadenectomia sistematica in presenza di tumori sierosi ed indifferenziati oppure di grado 3.55

La possibilità negli stadi iniziali di utilizzare procedure laparoscopiche è stata valutata da diversi studi con risultati piuttosto contrastanti e insufficienti a raccomandare l’approccio laparoscopico. Alcuni autori hanno evidenziato un peggioramento della

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prognosi in pazienti trattate per via laparoscopica in parte legato ad una maggiore incidenza di rottura della capsula neoplastica.56

In casi selezionati di pazienti giovani che non hanno ancora esaudito il desiderio riproduttivo, se correttamente informate e fortemente motivate e disposte a sottoporsi a visite di controllo ravvicinate, si può effettuare un intervento “fertility-sparing” che prevede: annessiectomia monolaterale, un’accurata esplorazione dell’ovaio residuo, isteroscopia con biopsie endometriali o esame frazionato della cavità uterina, lavaggio peritoneale, biopsie peritoneali e linfoadenectomia pelvica e lombo-aortica almeno monolaterale.57

Stadi avanzati

L’obiettivo in questi casi è l’asportazione di tutta la massa tumorale presente in addome, fino al raggiungimento di un “debulking” ottimale.

L’entità di citoriduzione influenza sia la sopravvivenza globale sia quella libera da malattia in quanto, in donne con neoplasia in stadio III o IV FIGO, ogni aumento del 10% nella citoriduzione determina un incremento del 5,5% nella mediana di sopravvivenza.58

Per ottenere una malattia residua macroscopicamente assente molto spesso bisogna ricorrere a procedure chirurgiche invasive, che si aggiungono a quelle già descritte per gli stadi iniziali:

Isterectomia retrograda secondo Hudson-Delle Piane, eseguita quando la neoplasia infiltra il setto rettovaginale ed il cavo del Douglas. La caratteristica di questo tipo di intervento è l’approccio retroperitoneale che consente di intervenire nei casi di “pelvi congelata”, quando cioè il tumore fissa saldamente l’utero e le masse ovariche al Douglas ed al retto, che può anche essere infiltrato. Questa tecnica consente l’asportazione “en bloc” di utero, annessi, peritoneo del Douglas e retto qualora

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infiltrato, senza l’apertura del peritoneo, riducendo il rischio di lesioni alla vescica ed agli ureteri e consentendo un migliore accesso ai vasi.

Peritonectomia diaframmatica. Negli stadi avanzati il coinvolgimento del diaframma si ha nel 40% dei casi e può richiedere procedure che vanno dall’asportazione di noduli neoplastici alla peritonectomia, fino alla vera e propria resezione diaframmatica, con il rischio di provocare uno pneumotorace iatrogeno.59

Omentectomia radicale gastrocolica Splenectomia

Resezioni ileali

Emicolectomia destra o sinistra Peritonectomie distrettuali

Resezioni epatiche, resezioni della porzione distale del pancreas e resezioni gastriche Asportazione dei linfonodi “bulky” o sampling linfonodale. Negli stadi avanzati il ruolo della linfadenectomia sistematica pelvica e lomboaortica non è ancora molto chiaro. Lo studio di Benedetti Panici e coll.60 del 2005 ha analizzato la sopravvivenza globale e l’intervallo libero da malattia in pazienti con carcinoma ovarico in stadio IIIB-C FIGO, sottoposte ad intervento di citoriduzione con tumore residuo ≤1 e randomizzate a linfadenectomia sistematica versus resezione dei linfonodi “bulky”. Le pazienti sottoposte a linfadenectomia avevano un intervallo libero da malattia superiore rispetto a quelle sottoposte al sampling linfonodale ma la sopravvivenza globale era sovrapponibile, con maggiori complicanze post-operatorie nelle pazienti sottoposte a linfadenectomia pelvica e lomboaortica. In questo studio non era stata presa in considerazione la sopravvivenza nel sottogruppo di pazienti con malattia residua macroscopicamente assente. Da uno studio condotto da Chang e coll. 61 nel 2012 che includeva pazienti in stadio IIIC si è dimostrato che le donne sottoposte, durante la

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citoriduzione primaria, a linfoadenectomia sistematica avevano un aumento della sopravvivenza correlato alla malattia residua dopo la chirurgia. La linfoadenectomia sistematica era associata ad un aumento della sopravvivenza globale se la malattia residua era =0 o <1 cm, ma non se la malattia residua era >1 cm. L’efficacia terapeutica della linfadenectomia sistematica rispetto al sampling potrà essere più chiara una volta ottenuti i risultati di uno studio multicentrico nazionale randomizzato attualmente in corso (AGO-LION).

Indipendentemente dalle procedure effettuate il risultato che la chirurgia deve raggiungere dovrebbe essere l’asportazione di tutta la massa tumorale presente in addome. La malattia residua è un fattore critico nella determinazione della sopravvivenza globale ed è indipendente dalle procedure chirurgiche radicali effettuate per raggiungere un residuo tumorale=0.62 Fattori che ostacolano questo obiettivo sono rappresentati da particolari localizzazioni di malattia (interessamento dell’ilo epatico, numerose metastasi intraparenchimali epatiche, infiltrazione massiva del mesentere), un basso performance status ed un alto ASA.

Chirurgia d’intervallo

La chirurgia citoriduttiva è considerata il trattamento standard per il carcinoma ovarico. Ci sono tuttavia alcune condizioni in cui non è possibile raggiungere una citoriduzione ottimale in prima istanza, ad esempio se la malattia è particolarmente estesa o presente in sedi non resecabili. A questi condizioni si aggiunge lo stato clinico della paziente che, se fortemente compromesso, impedisce di eseguire un intervento chirurgico di prima istanza senza eccessive complicanze. La chemioterapia neoadiuvante, il cui obiettivo è quello di ridurre la diffusione della malattia, seguita da chirurgia, in genere eseguita dopo 3 cicli di chemioterapia, può rappresentare un’alternativa valida in questi casi.

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Lo studio EORTC del 2010 ha dimostrato che, in pazienti in stadio IIIC e IV, la sopravvivenza globale e la sopravvivenza libera da malattia erano sovrapponibili nelle donne sottoposte ad intervento chirurgico in prima istanza ed in quelle sottoposte a chemioterapia neoadiuvante per tre cicli seguita da chirurgia, dopo la quale venivano eseguiti ulteriori tre cicli. Il fattore prognostico più importante rimane la malattia residua: sia nella chirurgia primaria sia in quella di intervallo l’obiettivo deve essere raggiungere una malattia residua macroscopicamente assente.63 Questo studio è stato tuttavia criticato per i numerosi bias tra cui quello di includere centri molto eterogenei per capacità chirurgica, con percentuali di citoriduzione ottimale molto variabili ed in genere non soddisfacenti.

La chemioterapia neoadiuvante va da un numero minimo di 3 ad un massimo di 6 cicli prima della chirurgia. E’ stato messo in evidenza da una metanalisi di Bristow come all’interno di questo intervallo ogni ciclo aggiuntivo al terzo determini una riduzione della sopravvivenza media di 4.1 mesi. L’impatto negativo sulla sopravvivenza mediana di un numero di cicli crescente potrebbe riflettere lo sviluppo di meccanismi di chemioresistenza da parte del tumore.64

Ad oggi la chirurgia citoriduttiva primaria e la chirurgia di intervallo non possono essere considerate come equivalenti, ma in pazienti in condizioni cliniche scadenti o con malattia notevolmente estesa tale da impedire una citoriduzione ottimale, tipicamente in stadio IIIC o IV, la chirurgia d’intervallo rappresenta una valida alternativa.65

Second look chirurgico

Questo tipo di procedura chirurgica viene effettuata in pazienti con presenza di malattia residua dopo la chirurgia primaria che successivamente sono state sottoposte a chemioterapia di prima linea con risposta clinica oggettiva. L’obiettivo è quello di rivalutare la malattia, asportare la malattia in caso di risposta parziale alla

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chemioterapia ed intervenire su eventuali recidive. Può essere effettuata sia per via laparoscopica che laparotomica e le procedure sono le stesse della citoriduzione primaria. Sulla base dei risultati le pazienti vengono suddivise in tre gruppi: malattia residua macroscopica, malattia residua microscopica (malattia non evidente ma washing o biopsie positive) e risposta patologica completa (washing e biopsie negative). Il second-look permette di inviduare quei casi in cui nonostante ci sia una risposta clinica completa, clinica e marcatore negativo, la paziente presenti persistenza di malattia macroscopica o microscopica. L’asportazione del residuo tumorale macroscopico con il raggiungimento di una malattia residua uguale a 0 aumenta le probabilità di sopravvivenza.66

Negli ultimi 10 anni il ricorso a questo tipo di intervento è notevolmente diminuito a causa della dimostrazione dei suoi limitati benefici clinici. Si è dimostrato che la sopravvivenza è migliore nelle pazienti con una citoriduzione ottimale rispetto a quelle con citoriduzione subottimale e che non ci sono differenze significative in termini di sopravvivenza tra le pazienti sottoposte a second-look con risposta patologica completa e quelle con residuo microscopico, sottolineando il limitato beneficio clinico che deriva dalla rivalutazione tramite second look.67 I tentativi per migliorare la prognosi delle pazienti con carcinoma ovarico dovrebbero volgersi verso l’identificazione di nuovi regimi di chemioterapia di prima linea in grado di ottenere una più alta percentuale di risposte complete e di trattamenti efficaci nel consolidamento o nel mantenimento della risposta ottenuta dalla terapia di prima linea. Inoltre un ruolo sempre più importante è stato assunto dalla PET con 18FDG nel follow-up, meno invasiva rispetto al second look, e che permette di individuare condizioni di persistenza di malattia dopo risposta clinica completa.

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Chirurgia palliativa o d’emergenza

Una chirurgia di tipo palliativo è necessaria in caso di addome acuto da occlusione intestinale causata da carcinosi peritoneale, che determina disfunzioni nella motilità intestinale oppure determina ostruzioni meccaniche parziali intraluminali od extraluminali in più sedi, dalla formazione di briglie aderenziali o da infiltrazione mesenteriale. Fattori prognostici sfavorevoli per la chirurgia palliativa sono: carcinosi peritoneale con alterazione della motilità intestinale, sedi multiple di ostruzione, metastasi epatiche, presenza di ascite, diffusione extraddominale di malattia, età avanzata, perdita di peso superiore a 9 kg.68

Devono essere identificate le pazienti che potranno beneficiare di un intervento chirurgico palliativo e quelle dove invece è preferibile il trattamento medico, considerando che la chirurgia è gravata da un’elevata mortalità, che va dal 12 al 25%. L’intervento chirurgico viene preso in considerazione quando non c’è miglioramento clinico dopo un periodo di terapia conservativa di 7-10 giorni e l’aspettativa di vita della paziente è superiore a 2 mesi e può considerarsi riuscito quando, dopo 60 giorni dall’intervento, la paziente è indipendente dalla nutrizione parenterale e può assumere un’alimentazione orale.41

La chirurgia può comprendere resezioni intestinali, colonstomie e bypass intestinali.

L’alternativa è una terapia conservativa con il posizionamento di un drenaggio naso-gastrico, nutrizione parenterale o enterale, decompressione gastrica con PEG (percutaneous endoscopic gastrotomy) o con una gastrotomia a cielo aperto.

Le pazienti sottoposte ad un intervento chirurgico in emergenza hanno una mortalità e morbidità più alta rispetto alle pazienti operate in elezione mentre non sembrano esserci sostanziali differenze nella sopravvivenza media. La sopravvivenza postoperatoria

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media dopo l’intervento è compresa tra i 6 mesi e i 2 anni, con la maggior parte delle pazienti che vanno incontro a morte entro 1 anno dall’ostruzione intestinale. 41

2.11 TRATTAMENTO MEDICO

Chemioterapia adiuvante negli stadi iniziali

Il trattamento delle neoplasie in stadi iniziali è chirurgico con l’obiettivo di asportare tutta la malattia visibile. Dopo la chirurgia è comunque necessario, considerato l’elevato rischio di recidiva (25-30%) un trattamento sistemico adiuvante il cui obiettivo è quello di distruggere eventuali micrometastasi che potrebbero essere rimaste dopo l’intervento, sfruttando il fatto di agire su un piccolo volume tumorale con un alto tasso di crescita. Per questo la terapia dovrebbe essere iniziata il prima possibile dopo l’intervento.

La chemioterapia adiuvante a base di platino negli stadi precoci offre un vantaggio significativo sia in termini di sopravvivenza libera da malattia, sia in termini di sopravvivenza globale soprattutto nelle donne non correttamente stadiate alla chirurgia.69 Si può identificare un sottogruppo di pazienti a basso rischio, in cui la chirurgia è risolutiva nel 95% dei casi e non vi sono evidenze che dimostrino un vantaggio di un successivo trattamento chemioterapico. Questo sottogruppo comprende le pazienti in stadio IA e IB, con malattia ben differenziata (G1) e non a cellule chiare. Al contrario le pazienti con tumori scarsamente differenziati, stadi IC-II o a cellule chiare sono considerate pazienti ad alto rischio, con un tasso di recidiva elevato, pertanto candidate ad un trattamento adiuvante.70

Come trattamento adiuvante possono essere utilizzati due schemi terapeutici: Carboplatino (AUC 5-6) in monoterapia, ogni tre settimane, oppure Carboplatino (AUC 5-6) in combinazione con taxolo 175 mg/mq ogni tre settimane.71 Per quanto riguarda il

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numero di somministrazioni, lo studio GOG 157 ha confrontato pazienti sottoposte a 6 cicli di chemioterapia con carboplatino e taxolo con pazienti sottoposte a 3 cicli dello stesso regime, evidenziando che, nel gruppo sottoposto a terapia prolungata, è presente una modesta riduzione del rischio di recidiva (20,1% vs 25,4%) e un aumento notevole della tossicità, soprattutto mielotossicità e neurotossicità. Non è stato evidenziato nessun vantaggio in termini di sopravvivenza globale nelle pazienti in trattamento prolungato.72 Il vantaggio di una terapia con 6 cicli invece che 3 cicli si è dimostrato significativo nelle pazienti con istotipo sieroso, con una sopravvivenza libera da malattia a 5 anni dell’83% con 6 cicli, rispetto al 60% con 3 cicli.73

Chemioterapia degli stadi avanzati

Lo standard terapeutico nelle pazienti con malattia avanzata è la corretta integrazione tra terapia chirurgica e medica. La chirurgia, tesa ad ottenere la minor malattia residua possibile, è seguita da una chemioterapia a base di carboplatino e taxolo.

Negli anni 70 il trattamento era costituito dalla somministrazione di alchilanti in monoterapia con una sopravvivenza a 5 anni inferiore al 10%. Successivamente è stato dimostrato da numerosi studi che i regimi a base di platino erano più attivi rispetto a quelli senza platino e che le combinazioni terapeutiche comprendenti il platino erano più efficaci del platino utilizzato in monoterapia.74 L’aggiunta del taxolo ha sostituito il vecchio standard terapeutico, rappresentato da cisplatino e ciclofosfamide, in quanto il regime terapeutico a base di platino con l’aggiunta del taxolo aveva percentuali di risposta più elevate (77 vs 66%), una maggiore sopravvivenza libera da malattia (18 vs 13 mesi) ed una maggiore sopravvivenza globale (38 vs 24 mesi).75

Inizialmente veniva utilizzato il cisplatino, poi sostituito dal carboplatino, con un miglior profilo di tossicità ed analoga efficacia terapeutica.76

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Da circa 15 anni il trattamento standard di prima linea del carcinoma ovarico è rappresentato da carboplatino AUC 5-6 associato a taxolo (175 mg/mq infusione in 3 ore) eseguito ogni 3 settimane. Sono stati fatti numerosi tentativi per cercare di migliorare questo standard terapeutico che presenta dei limiti in quanto il 70-80% delle pazienti sviluppa una recidiva di malattia entro i primi 2 anni e la sopravvivenza a 5 anni delle pazienti con carcinoma ovarico rimane del 40%.

Un primo tentativo è stato quello di associare a carboplatino e taxolo un terzo farmaco, come la gemcitabina, la doxorubicina liposomiale ed il topotecan, che non ha dimostrato nessun miglioramento rispetto al trattamento standard, ed ha messo in evidenza un aumento della tossicità.77

Un’altra strategia esaminata è stata quella di somministare il taxolo a dosi minori ma ad intervalli più ravvicinati (terapia ad elevata dose-intensità). Uno studio giapponese ha confrontato la terapia convenzionale, schedula trisettimanale di carboplatino e taxolo, con regimi settimanali di taxolo associati a carboplatino trisettimanale. Il risultato è stato un aumento della sopravvivenza globale e libera da malattia nel braccio con schedula settimanale di taxolo.78 Questo vantaggio deve essere dimostrato anche nella popolazione caucasica, sostanzialmente diversa da quella orientale, dove la terapia standard è ancora il regime trisettimanale.

La chemioterapia intraperitoneale è una soluzione che offre la possibilità di avere dosi elevate di farmaco nella sede in cui è presente il tumore con un vantaggio farmacocinetico rispetto alla somministrazione endovenosa. Nonostante siano stati dimostrati i vantaggi sulla sopravvivenza globale e libera da malattia di una somministrazione intra-peritoneale di carboplatino e taxolo, i numerosi effetti collaterali associati a questa procedura (infezioni, perforazioni intestinali, emorragie), che determinano un peggioramento della qualità di vita ed un aumento del dolore

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addominale, non hanno permesso l’affermazione di questo regime terapeutico in Europa.79 Inoltre questa strategia terapeutica può essere presa in considerazione solamente nelle donne con malattia residua microscopica dopo la citoriduzione e non in quelle con malattia residua macroscopica, perché la capacità di penetrazione dei farmaci è limitata a millimetri o frazioni di millimetri, riuscendo a colpire solo i noduli tumorali più piccoli.

Le aspettative principali per i futuri miglioramenti nella terapia del carcinoma ovarico sono dirette verso farmaci a bersaglio molecolare.

Chemioterapia di mantenimento

Considerando che il 75% delle pazienti in risposta completa svilupperà una recidiva entro 18-24 mesi, sono stati effettuati numerosi studi per cercare di trovare un’adeguata terapia di mantenimento che permetta di prolungare il più possibile la risposta indotta dalla chemioterapia di prima linea.

Non sono stati ottenuti risultati promettenti con i chemioterapici standard.

Uno studio condotto da SWOG e GOG ha dimostrato che l’utilizzo del taxolo ogni 3 settimane per 12 cicli come terapia di mantenimento aumenta la sopravvivenza libera da malattia rispetto ad una somministrazione per soli 3 cicli.80 Questi risultati sono stati poi smentiti da uno studio multicentrico italiano (After-six1), che ha dimostrato l’assenza di un miglioramento sia nella sopravvivenza globale, che nella sopravvivenza libera da malattia, in pazienti sottoposte a 6 cicli di taxolo trisettimanale ad un dosaggio di 175 mg/mq, rispetto a donne in risposta completa, non sottoposte a chemioterapia di mantenimento.81 Il farmaco che si è dimostrato fino ad ora più promettente nella terapia di mantenimento è il bevacizumab, come descritto dai due studi GOG128 e ICON7, dove una la terapia con bevacizumab è mantenuta rispettivamente per 15 e 12 mesi dopo la fine della terapia di combinazione.82, 83

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