IL FRIULI (-) VENEZIA GIULIA OVVERO IL FRIULI
CONTRO LA VENEZIA GIULIA (E VICEVERSA)
Il Friuli Venezia Giulia è la regione posta all’estremità nord orientale del Paese. Sotto questo nome, utilizzato per la prima volta nella Costituzione, convivono due realtà – distinte per percorso storico, organizzazione del territorio, relazioni con l’estero – che nel corso del XX secolo hanno seguito
percorsi di crescita diversi, contrastanti e spesso conflittuali. La contrapposizione tra le due parti è una vicenda prevalentemente novecentesca, volendo con questa definizione sia identificare il suo periodo di sviluppo sia accomunarla ai fenomeni di contrapposizione territoriale che hanno caratterizzato il «secolo breve» (HOBSBAWN, 1995), in Italia e in Europa.
I due territori fino alla nascita dell’Italia repubblicana non avevano mai, se non in un solo caso, fatto parte di un’unica ripartizione amministrativa, ma a partire dal Risorgimento erano stati considerati come assimilabili, e quindi identificabili da un nome comune. La definizione di Venezia Giulia, proposta dal glottologo goriziano Graziadio Isaia Ascoli nel 1863, per distinguere quella parte dell’area nord adriatica dalla Venezia propria o Euganea, quindi i territori già appartenuti alla Dominate, e dalla Venezia Tridentina, avrebbe dovuto riassumere gli spazi a est delle altre due in cui era presente una popolazione che parlava un idioma veneto o friulano. Cioè i territori sottoposti alla corona asburgica, contenuti sia nella Contea di Gorizia e Gradisca, sia nell’Istria, sia sulla costa dalmata, oltre alla città di Trieste. Un territorio facilmente individuabile nel suo limite occidentale, ma non certo in quello orientale in ragione dell’assenza di una separazione netta (o quanto meno chiaramente identificabile) tra le aree latina e slava. La soluzione adottata dopo la fine della prima guerra mondiale elaborò comunque un confine e alle elezioni politiche del 1924 fu individuata, con il nome di Venezia Giulia, una ripartizione elettorale che andava dalle sorgenti del Piave, sullo spartiacque alpino fra Italia e Austria, fino alla punta meridionale dell’Istria, a sud di Pola, mettendo assieme le (allora) province di Udine, Trieste e Pola nell’unica volta in cui una tale denominazione fu adoperata a livello ufficiale (ZILLI, 2000a). In questo modo, tra l’altro, trovò risposta l’ipotesi,
prospettata da Olinto Marinelli nel 1921, durante l’VIII Congresso Geografico Italiano, di usare il nome
Venezia Giulia per tutta l’area al confine orientale compresa tra le Alpi e il mare, prevalentemente rurale, con la città di Trieste come centro di riferimento (MARINELLI, 1922). È curioso che tale
proposta, però, non fosse stata accolta dallo stesso Congresso, nel corso del quale l’assemblea aveva espresso una preferenza, relativamente all’intera area, per il toponimo Regione Giulia.
Di tale discussioni non rimase memoria, evidentemente, nel secondo dopoguerra, quando la scelta (repubblicana) di istituire le venti Regioni impose l’unione tra i territori friulani e quelli non passati alla Jugoslavia, ovvero le province di Udine e di Gorizia, quest’ultima molto ridotta rispetto al periodo prebellico. Infatti soltanto queste due, al momento della compilazione dell’elenco che poi costituirà l’art. 131 della Costituzione, rientravano nei confini nazionali a seguito della sottoscrizione del trattato di Parigi tra lo Stato italiano e le potenze alleate vincitrici della guerra, mentre Trieste e i comuni circumvicini costituivano l’omonimo Territorio Libero, amministrato fino al 1954 dagli eserciti inglese e statunitense (VERROCCHIO, 2004). La scelta del nome, quindi, non poté riferirsi a
una condizione precisa, ma piuttosto a un’aspirazione, un obiettivo, forse anche un rimpianto. Il Friuli era compreso nella sua interezza, ma della Venezia Giulia era spettata all’Italia soltanto una piccola porzione, il Monfalconese, con poco più di 60.000 abitanti. Tuttavia con tale scelta veniva ribadita l’esistenza di una questione confinaria e di un problema politico con la Jugoslavia e, implicitamente, si sottolineava la separazione tra i sistemi politici, rispettivamente delle democrazie occidentali e del blocco socialista che avrebbe prodotto, da lì a breve, la guerra fredda. A conferma della consapevolezza che si mettevano assieme due aree distinte e disomogenee, venne inserito un trattino a separare il termine Friuli da Venezia Giulia (DE CASTRO,1955; VALUSSI, 1972; AGNELLI,
Il precedente richiamo ai limiti temporali adoperati da Eric Hobsbawn non è casuale in quanto è dovuto al fatto che l’inizio del processo di contrapposizione tra le due parti della Regione – tutt’ora in atto – coincise con l’inizio della prima guerra mondiale. Fino allo scoppio nel luglio 1914 del conflitto, le due aree, appartenenti a due Stati diversi – rispettivamente l’Italia per il Friuli, l’Impero Austro Ungarico per la Venezia Giulia – sfruttavano le opportunità rappresentate da essere aree di contatto tra due nazioni, al centro dell’economia dell’Europa di mezzo (APIH, 1988; AA.VV., 2009). La provincia di
Udine, unita all’Italia dal 1866, ricavava dai rapporti con l’esterno le sue principali fonti di sussistenza (MORASSI, 2002). Da un lato basava la sua economia sui proventi dell’emigrazione temporanea verso i
Paesi dell’Europa centrale – e quindi anche verso la città «austriaca» di Trieste, una delle mete d’oltre confine privilegiate (al punto che «Furlan» è uno dei cognomi più diffusi ancora oggi) – dall’altro utilizzava i proventi della gestione delle rimesse per ammodernare il proprio patrimonio agrario, manifatturiero e infrastrutturale, aperto anche al mercato asburgico, avviando una progressiva crescita che, nel decennio precedente all’entrata in guerra, aveva riscontrato una forte impennata (GORTANI e
PITTONI,1938; MICELLI,1983; D’AGOSTIN eGROSSUTTI,1997). Trieste continuava a rappresentare, a
due secoli dall’attribuzione della qualifica di porto franco e a uno dal suo pieno funzionamento, il principale porto/emporio dell’Impero, anche se l’inizio del Novecento aveva visto l’espropriazione del controllo delle principali imprese, anche finanziarie, da parte dei poteri locali ad opera di gruppi viennesi e praghesi (VIVANTE, 1912; SAPELLI, 1990; ANDREOZZI e PANARITI, 2002). Tuttavia
rimaneva un importante centro, con grandi disponibilità monetarie, sede di importanti compagnie assicurative (ad esempio le Assicurazioni Generali), città da cui partivano cinque linee ferroviarie verso le diverse direzioni, e, quindi, punto di riferimento per un ampio hinterland.
L’arrivo della Grande guerra interruppe questo stato delle cose, creando in Friuli e nella Venezia Giulia, ovvero rispettivamente a ovest e a est della (sottile) linea dei combattimenti sul fronte Carso/ Isonzo, due ampie retrovie in cui tutto dipese, per oltre tre anni, dalle vicende militari. Il ribaltamento del fronte nell’ottobre 1917, con la battaglia di Caporetto e la successiva rotta/ritirata dell’esercito italiano fino al Piave, rappresentò la prima tappa nella serie dei problemi per il territorio nei decessi successivi. L’occupazione austro ungarica produsse danni enormi nella provincia friulana, la quale fu depredata dell’intero patrimonio produttivo da un esercito che aveva ordine di sopravvivere con quanto trovava localmente, non essendo più lo Stato centrale in grado di soddisfarne i bisogni. A ciò si aggiunse la distruzione del patrimonio infrastrutturale, in particolare dei ponti in pietra sui principali corsi d’acqua, tutti costruiti nel primo decennio del secolo con enorme sforzo finanziario da parte delle amministrazioni locali. I dati raccolti dalla Deputazione provinciale a l’indomani della fine dei combattimenti equipararono l’ammontare dei danni subiti nel solo 1918 al totale delle rimesse degli emigranti nei precedenti quaranta anni. In pratica l’intero territorio provinciale si trovò allora nelle condizioni di dover ripartire da zero (DEPUTAZIONE
PROVINCIALE DI UDINE, 1919; COMITATO AGRARIO NAZIONALE, 1919; GORTANI e PITTONI,1938).
La sconfitta asburgica al contempo significò per Trieste sia la fine della sua centralità nell’economia di un grande Stato sia l’espulsione del controllo economico esterno. L’arrivo dell’Italia coincise con la trasformazione della città emporiale nell’ultimo porto dell’Adriatico, il più lontano dai mercati e dai centri produttivi italiani. Tuttavia Trieste aveva rappresentato uno delle «cause» della partecipazione italiana alla prima guerra mondiale, la sua principale parola d’ordine («Trento e Trieste») e non poteva venir abbandonata, proprio in ragione del suo ruolo simbolico. Il governo italiano, nell’impossibilità di disporre di fondi sufficienti alla ricostruzione di entrambi i territori, scelse di sostenere i «nuovi arrivati». Il Friuli, venuta meno, con la scomparsa degli Imperi centrali, la possibilità di ripercorrere le strade dell’emigrazione temporanea e avendo azzerato il proprio patrimonio produttivo, potendo contare solamente sulle proprie forze per la ricostruzione post bellica, si rivolse all’emigrazione definitiva avviando una lunga fase di declino. Invece la Venezia Giulia divenne (anche) la sede nella quale far valere le ragioni della vittoria, utilizzate per imporre una nuova identità alle popolazioni «alloglotte» e politicamente poco consone delle province annesse (ZILLI, 2015).
È in questa fase, quindi, che per la prima volta nasce una contrapposizione fra Friuli e Venezia Giulia, ovvero fra Friuli e Trieste.
Nei decenni successivi il fascismo proseguì in questo atteggiamento diversificato, incrementando le risorse in favore dell’area triestina e intervenendo in misura limitata in Friuli dove la principale azione intrapresa fu la risoluzione del contrasto tra i gruppi locali di potere – vecchia aristocrazia fondiaria contro nuova borghesia imprenditoriale – sulla gestione della grande bonifica, che interessava un’area pari a un terzo circa della superficie coltivata nell’intera provincia (ZILLI, 2006). Dell’intero ventennio,
l’opera più significativa rimasta alla provincia di Udine è la costruzione della città industriale di Torviscosa, destinata alla produzione autarchica di fibre sintetiche (ZILLI,2014). Trieste invece, anche
in ragione dell’anticipata e maggiore adesione al fascismo, fu interessata da un ampio intervento economico da parte dello Stato, che sostenne le attività (private) in precedenza supportate dall’amministrazione asburgica (in particolare la cantieristica), ebbe i fondi per ristrutturare il proprio centro e la viabilità d’accesso (la strada costiera è ancora sovrastata da un profilo di Mussolini) e godette dell’apertura dell’Università, richiesta già sotto l’Austria (VINCI, 1997 e 2011).
La fine della seconda guerra mondiale, sia nei suoi aspetti di liberazione dai tedeschi, che in quelli di sconfitta del fascismo, e la prima elaborazione dei confini internazionali, lasciò all’Italia una parte ridotta di quanto annesso nel 1918, consentendo alla vincitrice Repubblica Socialista di Jugoslavia di prendersi la gran parte della Venezia Giulia (la valle dell’Isonzo, il Carso, l’Istria, Fiume e le isole del Quarnero), e portò alla nascita del Territorio Libero di Trieste, coincidente in buona parte con l’odierna superficie provinciale triestina, amministrato dal Governo militare alleato (AA.VV., 2009). La creazione di questa entità statale, adottata in attesa che le condizioni fossero
favorevoli al ritorno definitivo all’Italia, soluzione in quel momento generalmente accettata, ma non considerata applicabile, produsse ulteriori vantaggi per la città, la quale poté godere dei finanziamenti del Piano Marshall e di interventi dello Stato italiano (che continuò a pagare il funzionamento di diverse strutture pubbliche, a partire dall’università) accanto a una condizione specifica di «zona franca politica» internazionale, ben riassunta nel film (statunitense) Il corriere
diplomatico del 1952(1) in cui la città venne presentata come una sorta di terra di nessuno, luogo ideale
per qualsiasi scambio o relazione internazionale, preferibilmente non legale (MELLINATO, 2001;
ANDREOZZI,FINZI ePANARITI,2004; VERROCCHIO, 2004).
Mentre Trieste sfruttava la peculiare congiuntura, anche geopolitica, rimanendo comunque sempre al centro dell’attenzione italiana, sia come simbolo(2), sia come baluardo confinario, sfruttando in
questo anche la tragedia della profuganza dall’Istria e da Zara, la contrapposizione fra i due sistemi politici si rafforzava e la «cortina di ferro» evocata da Winston Churchill nel marzo 1946 a Fulton, chiudeva le relazioni fra oriente e occidente (COLUMMI et al., 1980; VOLK, 2004; PUPO, 2005; PURINI,
2008). L’Italia decideva che quello orientale era un confine prima di tutto ideologico e il Friuli fino al 1954 ridiventava – come un secolo prima – parte della frontiera, l’area più prossima al nemico e quella da dover presidiare, militarmente e politicamente, in quest’ultimo caso anche da avversari interni.
Da quel momento la presenza di forze armate nel territorio del Friuli Venezia Giulia crebbe progressivamente, comprendendo circa un terzo del totale italiano e un’importante base aerea statunitense, tuttora attiva. Le (relative) servitù militari si estesero su un’ampia parte della superficie regionale (BACCICHET, 2015) e un simile clima, alimentato dalla ventilata minaccia di un’invasione da
est (che passava sopra i rapporti tra Jugoslavia e URSS) produsse un rinnovato blocco nella crescita del
territorio. Nessun stabilimento manifatturiero importante venne eretto in Friuli nei tre decenni successivi alla fine della guerra se non nella parte più prossima al Veneto, quella più distante dal limes internazionale, e l’emigrazione definitiva continuò a rappresentare la principale voce del bilancio demografico regionale fino al 1970 (ZILLI, 2012, 2013).
Trieste e Gorizia nel frattempo continuavano a usufruire di legislazioni specifiche, emanate per attenuare i danni della prossimità del confine, ma che incrementavano la disparità regionale e creavano le condizioni per una forte dipendenza dallo Stato (ANGELILLO, ANGELILLO e MENATO,
1994; ZILLI, 2004).
La nascita della Regione autonoma nel 1963, oltre quindici anni dopo le altre a statuto speciale, con l’attribuzione del capoluogo a Trieste – sola vera città dell’area e quindi unica soluzione allora possibile – rinforzò il primato giuliano nonostante la vocazione principale del centro, quella portuale, fosse un elemento presente nella discussione politica, ma in progressivo ridimensionamento all’interno del bilancio economico locale (DEGRASSI,2002; DANIELIS, 2011).
Di fatto la gran parte del territorio regionale dipese, nel secondo dopoguerra, dalla contiguità ai Paesi socialisti, e dall’utilizzo di questa condizione a fini politico elettorali (BIASUTTI, 1999; DAMIANI e
DE CILLIA,2003; ZILLI, 2013a). In questo clima Trieste riuscì a mantenere e a accrescere il suo ruolo di
riferimento territoriale dal punto di vista politico (capoluogo regionale), culturale (sede di università e teatri), sociale (luogo di ampio dibattito e di servizi) ed economico (in forza delle sue relazioni con il
(1) Titolo originale Diplomatic courier, regia di Henry Hathaway, con Tyrone Power, Karl Malden, Ispirato al romanzo Sinister
Errand (1947) di Peter Cheney, uscito in seguito in Italia con i titoli Missione pericolosa e A colpi di mitra.
(2) Nel 1950 esce il film Cuori senza frontiere, con Gina Lollobrigida, Raf Vallone, Cesco Baseggio per la regia di Luigi Zampa, in cui
vengono narrate le vicende (tragiche) relative a un villaggio del Goriziano diviso a metà dal confine del 1947, con relativi scontri politici e nazionali. Nel 1952, Nilla Pizzi vince il Festival della Canzone Italiana con la canzone Vola colomba, che contiene espliciti riferimenti alla Trieste non ancora italiana.
centro del Paese e dell’eredità del passato), ma non venne mai accettata come reale centro della comunità regionale.
Tale stato delle cose proseguì fino alla metà degli anni Settanta, quando due fenomeni, fra loro non legati, apparvero sulla scena. Da un lato la progressiva distensione tra i blocchi internazionali rese possibile l’allentamento del controllo sul territorio. Dall’altro dall’esigenza della ricostruzione successiva ai due terremoti del 1976 in Friuli scaturì una volontà di riscatto da parte di quella popolazione che pretese e ottenne di sfruttare l’occasione come momento di rilancio economico – attraverso una gestione locale del recupero territoriale, funzionale allo sviluppo produttivo – e di rinascita culturale, rivendicando con il supporto di centinaia di migliaia di firme la nascita dell’università a Udine quale centro di elaborazione culturale e di alta formazione per la popolazione locale (GRANDINETTI, 1979; ZILLI, 2013b).
Da allora in poi la provincia friulana – o meglio la sua parte non montana (GORTANI, 1961) – si
inserì all’interno dei processi economici del nordest, trasformandosi da luogo di emigrazione in polo di immigrazione e di occupazione diffusa, basato su un sistema di piccole e medie imprese rivolte, nelle proprie attività, verso i mercati esteri. Udine da centro periferico assurse a città, riferimento economico, culturale, sociale e politico del Friuli (in particolare ancora quello non montano), creando di fatto un contro altare rispetto a Trieste. Al contempo nelle due province corrispondenti alla Venezia Giulia italiana prese avvio un declino della struttura produttiva (e quindi anche sociale) in ragione dell’abbandono della presenza dello Stato (partecipazioni statali) nelle attività produttive locali, dell’evidenza di una perifericità territoriale rispetto al resto del Paese (prima celata dal velo della questione confinaria), della scomparsa delle presenze militari, fino a quel momento non considerate economicamente rilevanti, ma il cui venir meno assunse caratteristiche macroscopiche in diverse realtà, particolarmente visibili a Gorizia, quarto centro regionale sotto l’aspetto demografico (MINCA, 2009; BIALASIEWICZ eMINCA, 2010).
La scomparsa del sistema dei Paesi socialisti, a partire dallo smembramento della Jugoslavia, sembrò offrire l’opportunità alla regione nel suo complesso di svolgere una funzione di mediazione tra ovest e est, che però non fu colta (a differenza di quanto accadde nella vicina Repubblica di Slovenia). Il declino dei partiti storici, DC e PSI in primis, che amministrarono la Regione dalla sua fondazione
(non a caso i Presidenti della Giunta regionale furono fino agli anni Novanta tutti friulani), lasciò spazio al raggiungimento del primato elettorale da parte della Lega (ma non a Trieste, che aveva già avviato una stagione politica localista a metà degli anni Settanta con la Lista per Trieste), al cui consenso corrispondeva una volontà di rifiuto nei confronti della politica centrale, dove per «centro» si intendeva non la sola Roma, ma anche Trieste, sorreggendo istanze di maggior valorizzazione della parte friulana (DIAMANTI ePARISI, 1991; ZILLI, 2000b e 2014). La successione degli eventi politici, che
ricalcò le analoghe vicende nazionali, allontanò ulteriormente le due parti che ancora oggi fanno fatica a trovare momenti e percorsi comuni al di là di quelli istituzionali (GRANDINETTI e BORTOLUZZI,2004;
MATTIONI eTELLIA,2008; SCARCIGLIA, 2011; PAGLIARO, 2013; ZILLI, 2013b).
I passaggi più recenti portano a richieste esplicite di ulteriori differenziazioni tra le parti.
Prima a Trieste è nato e si è diffuso un movimento per la secessione dall’Italia e la ricostruzione del Territorio libero di Trieste (illecitamente soppresso, secondo i promotori, dagli occupanti italiani nel 1954) che è riuscito a portare in piazza più volte diverse migliaia (secondo la Questura) di triestini, con una presenza in città ben evidenziata da una (costosa) sede istituzionale in un prestigioso palazzo affacciato sulla piazza principale. Nell’ottobre 2014 è stato indetto un referendum on line per la scissione del Friuli – esteso al Portogruarese, a Sappada e al Friuli già austriaco – dall’Italia e la creazione di una repubblica sovrana e indipendente nel territorio già compreso nel Patriarcato di Aquileia. Nonostante l’ampio riscontro pubblicitario, la consultazione è fallita per il basso numero di partecipanti, anche se erano stati ammessi tutti quelli che si ritenevano friulani, anche esterni alla regione storica, purché non fossero residenti nella provincia di Trieste. Nello stesso periodo è stata presentata da parte del gruppo in Consiglio regionale della Lega, partito cui appartiene il Presidente della Provincia udinese, la proposta di cambiare la denominazione della Regione in «Friuli e Trieste», in quanto l’attuale dicitura sarebbe «obsoleta», «antistorica» e «mortificante» della reale condizione territoriale e di fatto non rispecchierebbe la evidente contrapposizione tra le due parti. Infine, a seguito dell’avvio nella primavera del 2015 di un dibattito a livello nazionale sul superamento della specialità delle cinque Regioni a statuto speciale, le posizioni si sono ancora una volta differenziate. Sul lato friulano gli interventi sul tema hanno sottolineato, come argomento di difesa, la presenza in Friuli di una forte coesione territoriale, di una gestione ottimale delle maggiori risorse prodotte dalla specialità, della necessità di recupero attraverso queste ultime dei ritardi imposti dalla condizione geopolitica del lungo secondo dopoguerra e, quindi, del mantenimento della diversità nel nome di uno sviluppo
migliore rispetto alle altre Regioni autonome. Sul lato triestino, gli esponenti politici rincorrono l’attribuzione del titolo di «città metropolitana» al fine di recuperare, attraverso le prerogative collegate alla nuova condizione, gli spazi persi rispetto al resto del territorio negli ultimi decenni.
Due direzioni «ostinate e contrarie», che ribadiscono nei fatti l’esistenza del trattino inserito dai Costituenti fra le parole Friuli e Venezia Giulia, poi scomparso nella riforma costituzionale del 2001, ma rimasto nella vita e nei fatti quotidiani della Regione a est del nordest.
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