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“Indescrivibili quasi per definizione, le opere d’arte richiedono di essere viste direttamente; per comprenderle meglio, però, occorre avere qualche idea dei modi della loro produzione e della loro circolazione. Chi le realizza, in quali maniere e per farne che cosa, a chi servono, chi ne gode, qual è la loro destinazione sono interrogativi che permettono una più effettiva messa a fuoco di oggetti che appaiono spesso strani e oscuri, ma hanno anch’essi le proprie ragioni: reali, descrivibili e comprensibili.”1

La prima Triennale del secondo dopoguerra viene inaugurata il 31 maggio 1947, a sette anni dall’ultima edizione e, oltre agli ingenti danni provocati dai bombardamenti al Palazzo dell’Arte, si trova a disporre di fondi pari a un ottavo rispetto a quelli delle passate edizioni.

La guerra ha portato via con sè personaggi di spicco come Giuseppe Pagano (grande architetto, “mitico” direttore di “Casabella”, nonché fautore di allestimenti di pregio, come ad esempio quello per la “Sala di Icaro” alla mostra dell’Aeronautica del ’34 di cui si è scritto nel capitolo precedente) e Gian Luigi Banfi (con Lodovico Balbiano di Belgiojoso, che nel ’45 viene deportato a Mauthausen ma che in seguito riesce a far ritorno in Italia, Enrico Peressutti ed Ernesto Nathan Rogers faceva parte del gruppo di architetti “BBPR”2) e, accanto ai nomi già noti, nuove figure cercano di farsi largo nell’ancora incerto panorama intellettuale che si va delineando.

      

1 Arte e artisti nella modernità, a cura di, A. NEGRI, Milano, Jaca Book, 2000. 

2 “Lo studio BBPR si costituiva a Milano, nel 1932, dall’unione di Gian Luigi Banfi (Milano 1910 –

Mauthausen 1945), Lodovico Barbiano di Belgiojoso (Milano 1909), Enrico Peressutti (Pinzano di Tagliamento 1908 – Milano 1976), Ernesto Nathan Rogers (Trieste 1910 – Gardone 1968). Architetti, urbanisti e designers, furono tra i principali protagonisti del razionalismo italiano, e, nel dopoguerra, della revisione critica del neoliberty. Teorico dell’abbandono della <<purezza>> sarebbe stato Rogers che, da sempre, ebbe nel gruppo particolare rilievo culturale: significativa la sua attività critica e saggistica, pregnante la sua direzione delle riviste <<Domus>> (1946-1947) e <<Casabella-Continuità>> (1953-1964). Dal 1952 Rogers si dedicò anche all’insegnamento, al Politecnico di Milano. I suoi scritti sono stati raccolti in tre volumi: <<Esperienze dell’architettura>> (Einaudi, Torino, 1958); <<Gli elementi del fenomeno architettonico>> (Laterza, Bari, 1962); <<Editoriali di architettura>> (Einaudi, Torino, 1968).” Per una più dettagliata biografia vedasi A. GRASSI e A. PANSERA, Atlante del design italiano 1940/1980, Milano, Gruppo editoriale Fabbri, 1980, p. 271. 

 

I problemi che la nazione deve individuare e risolvere devono fare i conti con una cultura disorganica i cui “animatori” tentano di trovare un proprio ruolo.

Spinti dall’ottimismo che la nuova classe dirigente dispensa, forse per un comprensibile desiderio di riscatto forse per la consapevolezza di essere scampata al peggio (in fondo le perdite dell’apparato produttivo non erano state elevate se è vero che le fabbriche distrutte in Italia non superavano il 20 per cento3), grande attenzione è rivolta alla scienza dell’Urbanistica e alle tecniche di costruzione.

A Milano viene fondato il MSA4, Movimento di studi per l’architettura, presieduto, nel primo decennio, da Franco Albini, Lodovico Belgiojoso, Ignazio Gardella, Giulio Minoletti e Giovanni Romano mentre a Roma nasce l’APAO5, acronimo per Associazione per l’architettura organica, tra i cui promotori troviamo l’architetto e storico dell’architettura Bruno Zevi.

In un’ottica di emergenza e laboriosità, l’VIII Triennale, la cosiddetta “Triennale proletaria”, si propone di mostrare soluzioni di <<pronto soccorso>> per chi non dispone

      

3 G. MAMMARELLA, L’Italia dopo il fascismo: 1943-1973, Bologna, Universale Paperbacks Il Mulino,

1974, pp. 143-144: “Le perdite complessive subìte dall’industria ascendevano ad un totale di 450 miliardi di lire, pari a circa il 20 per cento delle attrezzature esistenti nel 1939. Alla fine del ’45 il livello della produzione industriale risultava ridotto ad un quarto di quello prebellico. [...] Va tuttavia sottolineato che le perdite subìte dall’industria risultavano inferiori a quelle degli altri settori produttivi e che in questo campo il nostro paese usciva dalla guerra in condizioni migliori di altri belligeranti.” 

4 Come si apprende dall’incip di un saggio redatto da uno degli animatori del movimento, Ignazio Gardella,

“il Msa (Movimento di studi per l’architettura) è una delle tante iniziative fiorite, con entusiasmo, dopo la Liberazione, nella speranza (poi in gran parte disattesa) di dare una nuova e migliore qualità alla società italiana nelle sue molteplici articolazioni. Il Msa in particolare voleva contribuire alla ricostruzione edilizia e allo sviluppo della città e del territorio, con la presenza e la dignità di una nuova architettura in contrasto con gli squallidi prodotti di una miope e ottusa speculazione edilizia. Un gruppo di architetti legati da questo comune obiettivo si riuniva periodicamente in vari luoghi (la Casa della cultura, l’Umanitaria) per discutere sui diversi problemi inerenti alla loro disciplina, ritrovando il piacere del libero confronto di idee dopo gli anni cupi della guerra e dell’occupazione nazista.” I. GARDELLA, “Il confronto delle idee” in M. BAFFA et al., Il Movimento di Studi per l’Architettura. 1945-1961, Roma-Bari, Laterza, 1995, p. 5. Si aggiunge che il Msa “era un’associazione nata da una concatenazione di episodi gloriosi, come il piano Ar, il gruppo razionalista milanese e le sue battaglie alla Triennale, in parte anche la Resistenza, alla quale alcuni dei fondatori del Msa avevano partecipato.” Secondo Giancarlo De Carlo farne parte “significava prima di tutto essere dalla parte dell’architettura moderna”, poiché “le differenze tra architettura moderna e architettura <<non moderna>> […] erano molto forti. Il campo era diviso davvero in due parti; da una parte c’erano tutti quelli che dominavano la scena professionale milanese e anche la facoltà di architettura di Milano: Portaluppi, Mancini, Cassi Ramelli, Muzio e tanti altri; dall’altra parte c’erano invece i più giovani, che si erano formati attorno alla rivista <<Casabella>> di Pagano e Persico, alla Triennale, a esperienze di conoscenza e di assimilazione delle idee del Movimento moderno che si stavano sviluppando in alcuni studi.” Gardella precisa che comunque molti dei membri del Msa “amavano Wright, ma erano più vicini alle correnti razionaliste, anche se già insoddisfatti e inclini alla revisione nei confronti del razionalismo più crudo. Dal 1948, in poi appartenere al Msa voleva dire essere dalla parte dell’architettura moderna, ma di quella in movimento: quella che dopo la seconda guerra mondiale si era messa in moto e cominciava a sviluppare posizioni critiche nei confronti degli atteggiamenti più dogmatici che il Movimento moderno aveva preso.” G. DE CARLO, “Una scelta di campo”, Ibid., pp. 7-8. 

5 Nel suo citato saggio, Giancarlo De Carlo, definisce l’APAO un’associazione che “come bandiera aveva

dato quella della fedeltà a Wright”. Ibid.

 

più di un luogo dove abitare e case appropriate per il popolo dagli arredi essenziali e dai materiali poveri.

Per volere di Bottoni nell’autunno del 1946, ai piedi di una piccola collina artificiale, alla periferia nord-ovest di Milano, erano iniziati i lavori di costruzione di un vero e proprio “quartiere modello” che sarebbe diventato fruibile dal visitatore come una sorta di mostra vivente, percorrendone le strade, le piazze e visitandone le abitazioni durante l’edizione avvenire della Triennale6.

Esso avrebbe offerto la possibilità di verificare empiricamente i problemi dell’abitazione, “da quelli della scelta urbanistica e della pianificazione interna, a quello degli oggetti d’uso, in una dimensione reale, per l’utenza <<meno abbiente>>. Una speciale commissione avrebbe dovuto seguirne l’evoluzione e lo sviluppo anche durante le successive Triennali, secondo un regolamento particolare”7.

Il quartiere, “un’unità armonica, economicamente equilibrata e urbanisticamente autonoma”8, chiamato QT8, in riferimento all’ottava edizione dell’istituzione milanese, è

concepito per essere studiato e valutato criticamente nell’arco di tempo poiché, a quanto scritto nel programma ufficiale, suscettibile a modifiche e aggiornamenti in relazione a quanto si va via via maturando nel campo dell’architettura moderna e delle arti decorative. La Triennale chiaramente non può assumersi l’enorme spesa che questa impresa richiede per cui coordina le iniziative di altri enti pubblici e privati tra cui il Comune di Milano, il Ministero dei lavori pubblici, l’Istituto case popolari ecc...

Ma oltre alla “mostra vivente”, anche al Palazzo dell’Arte si discute del tema abitativo attraverso esposizioni e convegni.

La mostra riguardante l’urbanistica è essenzialmente funzionale al progetto QT8 in quanto ne prende in esame il piano regolatore. Quella sull’abitazione, allestita dall’architetto milanese Marco Zanuso, è più complessa nel suo articolarsi in cinque sezioni: oltre a mostrare i disegni, le piante e le tavole del quartiere sperimentale, è un percorso didattico che ripensa i problemi della casa, del lavoro e dell’assistenza, esplicita in pannelli didascalici i bisogni degli abitanti, illustra l’illuminazione solare nei diversi ambienti della casa e, infine, rende evidenti studi condotti nell’igiene, nell’economia e nella politica

       apparsa sul n.2 della rivista “Metron”, 1945.  

6 M. TAFURI, Storia dell’architettura italiana 1944-1985, Torino, Piccola Biblioteca Einaudi, 2002, p. 21:

“D’altronde, non è certo con problemi formali che si confronta Bottoni nel progettare, per l’VIII Triennale di Milano, il quartiere sperimentale QT8. Iniziativa indubbiamente innovatrice, quella di Bottoni, che unifica una proposta di rivitalizzazione della Triennale con una chiamata a raccolta delle forze vive della cultura architettonica italiana intorno al tema della residenza popolare.” 

 

edilizia. L’architetto Vittoriano Viganò si occupa della piccola mostra avente come tema il verde nell’abitazione mentre un nutrito gruppo, Ciribini, Mattioni, Fratino, Gardella, Rusconi Clerici, Ciocca, Chessa, Gentili, Magistretti, sono impegnati in quella dedicata all’unificazione, modulazione e industrializzazione nell’edilizia. L’esposizione sull’arredamento si focalizza sul singolo pezzo, essenziale ai bisogni fisiologici e psicologici dell’utenza, producibile a basso costo. Tutto ciò che viene mostrato ha come prerogative l’utilità innanzitutto, l’essenzialità a dispetto dell’aspetto più squisitamente decorativo e il tipo di produzione, chiaramente industriale e di conseguenza più economica. Accanto a sezioni, se vogliamo, più tecniche e funzionali, salta all’occhio quella dedicata agli oggetti per la casa per la sua apertura nei confronti della tematica formale, sebbene parlare di forma in questa sede potrebbe risultare azzardato. Bisogna comunque sottolineare che, nonostante l’evidente presa di distanza dal dato estetico nell’ottica responsabile di quel principio informatore dell’VIII Triennale, che è la ricostruzione, la mostra degli oggetti per la casa comprende sia utensili prodotti dall’industria sia altri di stampo artigianale. Essa “ha voluto mostrare fra l’altro quali rapporti intercorrono tra produzione artigianale e produzione industriale, e come la creazione artistica dei pezzi unici influenzi la produzione di serie e industriale e viceversa”9.

Questi oggetti sono scelti dal gruppo formato, tra gli altri, da Caccia Dominioni10, Rogers e Sottsass jr, sulla base della capacità di coniugare bellezza/forma e utilità/funzione, attenendosi naturalmente ai bisogni del tempo.

Quello che è interessante notare è come in una Triennale devota totalmente al problema costruttivo-abitativo e urbanistico si inizi, pur in maniera edulcorata, a rivolgere l’attenzione al problema dell’aspetto nella vita domestica, seppur in un’esposizione “minore” che fa da corollario alle esperienze che, dal QT8 alle mostre sulla tecnica costruttiva e sull’abitazione, rappresentano maggiormente questa edizione.

      

8 P. BOTTONI, Il nuovo programma della Triennale di Milano in “Metron”, 3 ottobre 1945, p. 40.  9 Catalogo-guida VIII Triennale, Milano, 1947, p. 11.  

10 L’architetto, urbanista, e successivamente designer, Luigi Caccia Dominioni iniziò a collaborare con i

fratelli Castiglioni nel 1936 (aprì con Livio e Piergiacomo uno studio di architettura). Nel 1946, alla fine della guerra, separatosi dai Castiglioni, avviò una sua intensa carriera d’architetto soprattutto nel capoluogo meneghino. Fu uno dei primi progettisti per l’industria italiana. Di questa sua collaterale e florida attività, Maria Antonietta Crippa scrive: “Lo riconosciamo come designer di singolare, incidente, scatto inventivo; eccentrico per metodo e per esito – nel senso letterale, non stilistico, del termine – nel quadro della produzione italiana, ricchissima e celebrata in tutto il mondo. Egli stesso dichiara di aver voluto essere anche designer, per poter essere compiutamente architetto; per non segnalare che un esempio, la forma arrotondata di un mobile – forma <<scivolante>> è il termine da lui utilizzato – è coerente alla fluidità dei percorsi delle sue case.” M. A. CRIPPA, Luigi Caccia Dominioni: flussi, spazi e architettura, Torino, Testo & Immagine, 1996, p. 15. 

 

Nonostante sia costruito il “quartiere modello”, che raccoglie e sperimenta risultati di studi su urbanistica e abitazione, e nonostante gli sforzi degli organizzatori per creare una Triennale che vada incontro ai bisogni urgenti e alle problematiche reali del pubblico del 1947, l’edizione si chiude con un triste bilancio di visitatori.

Con affatto celata amarezza, ed evidente sarcasmo, Leonardo Sinisgalli, dalle pagine di “Comunità”, commenta in questa maniera un così inaspettato epilogo:

“Certo, nei saloni non c’è stato niente di chic, niente di inaccessibile, nè la poltrona monumentale (troppo alta per le piccole gambe di un Re), nè i baldacchini per le maîtresses, non ci sono stati trofei e corone, tigri e velluti. Eppure è spiaciuta ai ricchi che l’hanno trovata disadorna e presuntuosa, ed è stata trascurata dai poveri ai quali nessuno ha spiegato come mai dieci architetti possano discutere un mese intero per disegnare una sedia o un tegamino.”11

Tra polemiche e malcontenti diffusi si chiude la kermesse.

Pochi mesi dopo, il 18 aprile 1948, a seguito di una campagna elettorale molto accesa12, la

Democrazia cristiana vince le prime elezioni politiche della storia della repubblica. Il

      

11 L. SINISGALLI, Bilancio dell’ottava Triennale in “Comunità” n. 23, 15 novembre 1947, p. 5. 

12 G. MAMMARELLA, Op. cit. nota 3, pp. 203 a 207: “Fallito il tentativo di provocare la caduta del governo

con la pressione delle manifestazioni popolari, tutto lo sforzo dei socialcomunisti si concentrò nella preparazione delle elezioni politiche. Esse si preannunciavano come le più importanti del dopoguerra, rappresentando per l’opposizione di sinistra l’ultima occasione per interrompere il processo di consolidamento del quarto governo De Gasperi, ormai in fase avanzata dopo l’ingresso dei socialdemocratici e dei repubblicani. Pertanto la preparazione alla campagna fu intensa e l’impegno di tutti i partiti proporzionale all’importanza della posta in gioco. Durante il XXVI congresso del PSI, che ebbe luogo a Roma dal 18 al 24 gennaio, veniva ufficialmente annunciata la costituzione del Fronte democratico popolare, alleanza elettorale tra PCI e PSI, grazie alla quale i due partiti si sarebbero presentati agli elettori sotto un unico simbolo e con un’unica lista di candidati. Tale decisione si giustificava con la speranza dei due partiti di poter riportare congiuntamente la maggioranza relativa; ciò avrebbe permesso ad uno dei loro leaders di aspirare alla designazione per la formazione del nuovo governo post-elettorale. La costituzione del Fronte fu probabilmente una mossa controproducente. Essa ebbe infatti la conseguenza di chiarire davanti all’elettorato gli schieramenti di forze che si opponevano e di drammatizzare il contrasto. Inoltre la formazione del Fronte determinò ulteriori fughe dal PSI. Alcuni suoi componenti, quali Ivan Matteo Lombardo, Piero Calamandrei e Franco Venturi, contrari alla formula frontista, abbandonarono il partito di Nenni e, costituita l’Unione dei socialisti, si presentavano insieme al PSLI nella lista di Unità socialista. Al blocco socialcomunista si opponevano la Democrazia cristiana, i socialdemocratici, i repubblicani. Benché non vi fosse stato tra questi partiti alcun accordo per un’alleanza di tipo elettorale o post-elettorale, essi si presentavano davanti al paese come membri di una medesima coalizione. Nonostante le diverse tradizioni politiche che essi rappresentavano, la loro collaborazione al governo, anche se recente, sottintendeva un comune orientamento ideale e un’analogia di programmi e di fini. I due partiti conservatori, quello Liberale e ciò che rimaneva dell’Uomo Qualunque, ormai in fase di dissoluzione, si allearono unendosi nel cosiddetto Blocco nazionale. All’estrema destra stavano le varie correnti monarchiche e il MSI che, dopo la clamorosa ricomparsa degli ultimi mesi del ’47, si presentava per la prima volta alle elezioni. [...] Nonostante il ragguardevole numero di partiti, fin dalle prime battute della campagna elettorale apparve chiaro che la lotta si sarebbe svolta quasi esclusivamente tra il Fronte popolare e la Democrazia cristiana, mentre i partiti minori rimanevano relegati su posizioni secondarie; considerate le proporzioni delle forze che si fronteggiavano, non poteva essere diversamente. [...] L’una e l’altra parte, nel corso della serrata campagna elettorale, esaurirono tutta la gamma degli argomenti polemici. Ma, mentre i socialcomunisti concentrarono buona parte dei propri sforzi propagandistici su due motivi di dubbia efficacia dell’asservimento democristiano al Vaticano e agli Stati

 

Fronte popolare (socialisti e comunisti), perdente dinanzi ad uno schiacciante 48,5% dei voti ottenuti dalla Dc di De Gasperi, è escluso pertanto da tutte le questioni decisionali ed è confinato all’opposizione. Inizia l’epoca del cosiddetto “centrismo” con democristiani, repubblicani, liberali e socialdemocratici al governo. Mentre la situazione politica ed economica è destinata ad una lenta ma costante stabilizzazione, quella culturale pare piuttosto incerta.13 L’interessante humus artistico esistente, come si è visto nel capitolo precedente, dal movimento di Corrente al M.A.C., in realtà viene fuori gradualmente ma deve fare i conti con una platea poco recettiva, concentrata sulle urgenze della prima ora14.

       Uniti, la DC sfruttò la paura che la prospettiva di una vittoria comunista suscitava tra le classi medie oltre al sentimento di fedeltà verso la chiesa cattolica, diffuso a tutti i livelli sociali e presente soprattutto nei votanti di sesso femminile. In tal senso l’impegno della chiesa, sia attraverso l’azione capillare del basso clero che quella pubblica dei vescovi fu massiccio e si rivelò prezioso per la DC. [...] Il graduale assorbimento dei paesi dell’Europa orientale nel sistema comunista e i modi in cui esso era stato realizzato, la pressione militare sovietica che aumentava ai confini dei paesi occidentali, furono tutti elementi che favorirono la propaganda dei partiti democratici, mettendo a fuoco i termini reali della scelta cui l’elettore era chiamato: non solo scelta tra due partiti e due programmi, ma tra due concezioni opposte della politica, tra due civiltà alla cui base erano diversi e contrastanti valori. [...] La lotta elettorale si svolse senza esclusione di colpi, e vide anche l’interessamento attivo dei paesi-guida degli opposti blocchi. L’importanza delle elezioni politiche trascendeva infatti la situazione nazionale, dato che i suoi risultati si sarebbero necessariamente riflessi sull’equilibrio delle due parti. Secondo una interpretazione che rientrava ormai nella logica della politica dei blocchi, la vittoria dei partiti democratici avrebbe legato l’Italia al blocco occidentale, mentre un successo socialcomunista avrebbe portato il paese ad assumere in politica estera una posizione neutralista che avrebbe posto le premesse per un graduale slittamento nel campo sovietico. Pertanto lo sforzo elettorale dei partiti democratici fu abbondantemente sostenuto da aiuti finanziari d’oltre Atlantico, mentre il PCI ricevette i suoi attraverso il Cominform, recentemente costituito. [...] Notevole presa sull’elettorato ebbe anche la prospettiva degli aiuti economici promessi secondo il piano Marshall. Questi aiuti, la cui disponibilità venne apertamente condizionata al risultato delle elezioni, sembravano indispensabili per continuare il processo di consolidamento economico e per avviare a soluzioni problemi endemici della società italiana come quello della disoccupazione e del Mezzogiorno. Il riconoscimento di tale necessità non potè non pesare anche sul voto di coloro che, pur respingendo legami politici con l’uno e l’altro dei due blocchi, erano particolarmente sensibili alla soluzione dei molti problemi sociali ancora sospesi e alle necessità di un più alto tenore di vita per il popolo. Particolarmente efficace agli effetti elettorali, fu anche la dichiarazione tripartita anglo-franco- americana su Trieste. Con essa le tre potenze occidentali, constatata l’impossibilità di un accordo sulla scelta di un governatore per il Territorio libero, si impegnavano ad operare per il ritorno della città di Trieste sotto la sovranità italiana. L’annuncio, dato con ottima scelta dei tempi ai primi di marzo, rafforzò ulteriormente il governo De Gasperi e venne largamente sfruttato durante la campagna elettorale dei partiti democratici”.   13 A. PANSERA, Op. cit. nota 7, p. 68: “Se per un momento lo scatto eroico della Resistenza aveva colmato

di slancio le lacune latenti, in seguito, di fronte ai problemi concreti della ricostruzione, riaffiorava la matrice

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