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Turris eburnea

Nel documento Schermi multipli e plurime visioni (pagine 39-44)

50 Cfr. G. Sanga, Campane e campanili, in M. Isnenghi ( a cura di), I luoghi della memoria. Simboli e miti

dell’Italia unita, Editori Laterza, Bari, 2010, pagg. 77-87.

Il nesso unitario Campana/Campanile, dunque, nel primo quindicennio del XX secolo da un lato rinforza, sul piano della significazione, elementi già presenti nella narrazione visuale del Risorgimento e concorre a definire maggiormente quella religione sacra della Patria e quell’intento nazionalizzatore presenti nei film a partire da

Il Piccolo garibaldino. Dall’altro, ne inserisce di nuovi, funzionali a celebrare,

tutt’insieme, la pace e l’armonia d’intenti finalmente raggiunta dall’Italia tra le sue componenti laiche e clericali all’interno ma anche la forza guerriera, il sangue, la stirpe, l’istinto bellicistico all’esterno. È il segnale della guerra lanciato ai nemici, è chiamata a raccolta per i pericoli che incombono sulla perimetrazione spazio-temporale della comunità locale o nazionale.

Proprio nel 1911, peraltro, la Campana aveva trovato la sua massima celebrazione pubblica e ufficiale nella Mostra delle Campane organizzata a Torino nell’ambito dell’Esposizione universale, in concomitanza colle manifestazioni celebrative del Giubileo della Nazione. Al Parco del Valentino tra i vari padiglioni spiccava infatti quello dedicato espressamente alla Campana. Campane di tutte le misure e di tutte le fogge, provenienti da tutto quanto il Paese, la Grande Italia, erano state allineate per allietare e stupire col loro suono e la loro vista i visitatori. Gli organizzatori non avevano mancato di sottolineare, in uno degli opuscoli esplicativi dell’Esposizione, l’importanza che la Campana aveva rivestito e rivestiva per la vita sociale, culturale dell’intera comunità nazionale, una sorta di tratto paesaggistico unificante che contraddistingueva le più lontane contrade come le più vicine, le più grandi come le più piccole, e le includeva nel perimetro materico dei confini fisici del suolo natio; che scandiva il tempo della vita e della morte ma che chiamava l’uomo alle sue responsabilità di cittadino e di credente, sciogliendo così. i destini dei singoli nella più ampia appartenenza nazionale52.

Se anche al cinema la Campana crea il tempo lungo della Nazione e il campanile lo spazio della sua esistenza, l’immagine così elaborata costituisce una sorta di correlativo oggettivo del concetto superiore di Madre-Patria, sostanziatasi storicamente attorno alla monarchia sabauda, ma ad essa preesistente, tant’è che in alcuni casi la campana si accompagna visivamente, per sovrapposizione analogica, al Tricolore

(l’immagine conclusiva del film di Blasetti, nella versione purgata del dopoguerra, oppure quella inziale di Viva l’Italia di Rossellini, in cui per dare il segnale della rivolta viene sventolato il Tricolore dal campanile del convento della Gancia di Palermo). Il tricolore, infatti, simbolo moderno della monarchia sabauda, è frutto compiuto di quell’unione.

Dal punto di vista iconografico e iconologico il nesso Campana/campanile, quindi, poté tranquillamente sostituire nei film l’immagine dell’Italia come giovane turrita (in cui la giovane sta alla campana come la torre al campanile) presente ancora fino al

Piccolo garibaldino nei quadri delle varie Apoteosi. Il cinema, che nel secondo

decennio del ‘900 aveva imparato a sviluppare narrativamente storie e racconti in mediometraggi e lungometraggi dall’intreccio più elaborato, ad introdurre un linguaggio più complesso con variazioni di campi e piani, ad abbozzare movimenti di macchina e raccordi narrativi (ne I Mille, ad esempio), nella necessità di rispettare la regola della verosimiglianza, aveva bisogno infatti di semplificare e inserire nel flusso normale della narrazione simboli più realistici e meno statici di quelli pittorici. Nel complesso campana/campanile trova quindi la sostituzione più logica e più comprensibile l’icona costituita dalla giovane turrita avvolta nel tricolore per raffigurare la Madre-Patria. Questo slittamento semantico poté avvenire senza che il pubblico che frequentava le sale cinematografiche si stupisse perché la simbologia del nesso è antropologicamente portatrice di significati più profondi. Se il campanile è evoluzione della Torre, divenuta poi torre campanaria, la funzione della torre-campanile si completa nel momento dell’inserimento della campana nella torre. In questo senso al complesso Campanile/ Campana si può anche attribuire una funzione primaria di principio generativo, sessuato: il campanile come principio maschile, la campana come principio femminile, stretti insieme in unico nodo, richiamerebbe sul piano dell’archè e della geometria simbolica il punto di congiunzione tra terra e cielo, l’inscrizione del cerchio nel quadrato, la fusione di uomo-donna. La riconoscibilità del «significante», la «consonanza cognitiva» degli spettatori che andarono a vedere La lampada della nonna veniva garantita dal fatto che esso faceva già parte dell’universo simbolico a cui attendevano anche le altre «figure del profondo» risalenti al discorso nazionale

ottocentesco. L’allegoria non era infatti nata sullo schermo cinematografico ma aveva più matrici letterarie, poetiche e narrative, ed era già stato più volte utilizzata.

La novella Libertà di Verga, ad esempio, pubblicata nel 1882, comincia proprio col richiamare questi simboli, cioè con lo sventolio di un fazzoletto (Verga si astiene dall’identificarlo con il Tricolore italiano, vedremo in seguito il perché) dall’alto di un campanile: «Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: - Viva la libertà!».

Prima ancora si era affermata nei resoconti apologetici del Risorgimento, come ad esempio nell’opera Rosolino Pilo e la rivoluzione siciliana di Felice Venosta pubblicato nel 1863 a Milano: «Lo scoppio delle armi giunse all’orecchio dei congiurati della Gancia i quali non tardarono guari a saperne la causa. […] Se non che infiammati dal santissimo amore di libertà, non istettero un momento perplessi a fare olocausto delle vite sull’altare della patria. Due, fra i congiurati, corsero al campanile; uno vi piantò il vessillo tricolore, l’altro afferrò la corda della maggior campana, e suonò il rintocco. E questo segnale di guerra di popolo, era tosto seguito dal rimbombo del cannone della repressione borbonica»53.

Due modi diversi, come si può ben vedere, di interpretare il complesso identitario: non a caso alla novella verghiana guarderà Vancini, nel pieno dell’affermazione di una lettura revisionista del processo risorgimentale, mentre alla descrizione di Venosta, che chiaramente identifica il campanile con un «altare della patria» e i rintocchi della campana con «i segnali di guerra», probabilmente si riallaccerà l’anonimo sceneggiatore del film Le campane della morte dell’Ambrosio, nel 1913, oltre che Rossellini in Viva

l’Italia.

L’immagine della Campana, prima di giungere ne La Lampada della nonna, cioè in un film di argomento risorgimentale, a una sua prima compiuta espressione visuale, era stata portata sugli schermi dalla Cines, nel 1910 o forse nel 1911, con un altro film intitolato proprio La campana54, ispirato direttamente al famoso poema di Friedrich 53 F . Venosta, ivi, pag 7. Riteniamo, paraltro, che proprio questo brano abbia potuto costituire una delle

fonti ispiratrici del film.

Schiller La canzone della campana. Gli sceneggiatori della Cines avevano riproposto, con riferimento alla scritta incisa sulla grande campana del Duomo di Sciaffusa (Vivos

voco, mortuos plango, fulgura frango), una serie di quadri animati in cui erano

visualizzati tutti i momenti, tristi o lieti, della vita del singolo individuo e della comunità in cui egli era inserito55 presenti nel poemetto di Schiller. Prima ancora la

stessa Ambrosio, nel 1910, su preciso suggerimento dei propri distributori tedeschi Thierman e Reinhardt56, aveva realizzato due film, Il guanto57 e L’andata alla fucina58

(nell’edizione predisposta per il mercato francese il titolo del film era Le forge de

Schiller), entrambi su sceneggiatura di Arrigo Frusta e con la regia di Maggi59, ispirati

rispettivamente alle opere poetiche Der Handschuh e Der Gang nach dem

Eisenhammer di Friedrich Schiller, il grande poeta tedesco amico di Goethe, che nella

percezione dell’Ottocento europeo era divenuto eroe e simbolo stesso delle idealità nazionali.

Questa circostanza, l’uso cioè di opere di Schiller a fini cinematografici, riportata incidentalmente da Riccardo Redi nella sua ricerca sulla casa cinematografica Cines ma confermata dai riscontri archivistici, ci appare di particolare rilievo e necessita di essere approfondita. In prima istanza se ne potrebbe dedurre che i due rappresentanti tedeschi della Ambrosio, essi stessi produttori cinematografici, suggeriscano alla società torinese, e quindi all’Ufficio-soggetti della stessa, di realizzare film ispirati alle opere di Schiller guardando all’esportazione nell’area tedesca delle pellicole italiane. In realtà, invece, l’attenzione ai temi schilleriani non era esclusiva dell’area tedesca, ma diffusa anche in Italia in tutto il corso dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento. Più in generale, riteniamo che anche le opere di Schiller fornirono elementi importanti nella formazione del «discorso nazionale» ottocentesco, non solo in relazione ai valori patriottici ma anche in relazione alle sue riflessioni sull’educazione estetica e sul concetto di Sublime. Nel cinema, così come nella letteratura, questa influenza torna

55 Ibidem.

56 Ibidem

57 A. M.N.C.To., Arrigo Frusta, Il guanto, sceneggiatura, s.d., manoscritto, 2 ff., A345/8. 58 Ivi, Arrigo Frusta, L’andata alle fucine, sceneggiatura, s.d., manoscritto, 4 ff., A345/22. 59

prepotentemente con alcuni cronotopi: oltre che con l’immagine della Campana, proprio con l’immagine della Fucina, entrambi reinterpretati, a mano a mano che ci si allontanava dal modello originario, in senso sempre più nazionalistico e fortemente identitario, fino a cancellare l’esaltazione della Pace e della Concordia presenti in Schiller e ad accentuare le implicazioni legate al tema del Sangue, della discendenza biologica, della Razza.

Pace e Concordia rimarranno sì, come valori auspicati per la comunità nazionale all’interno della sua perimetrazione fisica, ma non come riferimento per lo spazio esterno alla Madre-Patria, verso il quale ci si può rivolgere in modo aggressivo, forti del primato italiano e delle origini latino-romane della propria Stirpe.

Come non cogliere il complesso sotterraneo di tutte queste implicazioni concettuali, ad esempio, negli endecasillabi del Coro dell’Adelchi, Dagli atri muschiosi dai fori

cadenti, nell’invito rivolto al vulgo che nome non ha ad uscire dalle proprie arse fucine?

Come non coglierla nel Congedo a Le rime nuove di Carducci, nell’immagine dell’artiere che, con muscoli d’acciaio, lavorando nella fucina, forgia strali da lanciare alti nel cielo per sé, dopo aver forgiato spade per la libertà, per il passato e l’avvenire, serti per la vittoria, diademi per gloria, Tabernacoli per i Penati? Per le glorie dei suoi padri e di sua gente? Come non coglierne gli echi e i cascami nell’espressione l’officina

del poeta utilizzata dai critici letterari ancora oggi per spiegare il modus operandi del

Poeta colto nell’atto creativo?

Nel documento Schermi multipli e plurime visioni (pagine 39-44)