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La tutela del lavoratore nei confronti del datore di lavoro:

Capitolo II: La pari dignità sociale

4. Dignità e libertà religiosa

9.2 La tutela del lavoratore nei confronti del datore di lavoro:

Una serie di sentenze riguarda il momento critico della cessazione del rapporto di lavoro; in esse si da prevalente tutela al lavoratore che è parte debole del rapporto. Con una prima sentenza236 la Corte esamina il ricorso presentato da

diversi ricorrenti con il quale si impugna art. 1 della legge 7/1963, per contrarietà agli articoli 2, 3, 37 e 41 della Costituzione, in forza del quale sono considerati nulli i licenziamenti attuati a causa di matrimonio delle lavoratrici. L’impugnazione è tesa a far dichiarare l’illegittimità della norma nella parte in cui prevede il licenziamento effettuato nel periodo intercorrente fra il giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio fino ad un anno dopo la celebrazione di questo si presume determinato da causa di matrimonio. Se si escludono le ipotesi previste alle lettere a,b,c, del comma 2 dell'art. 3 della 860/1950, in cui la presunzione è relativa, negli altri casi si ha una presunzione assoluta insuperabile per il datore di lavoro. La Corte rileva, per quello che qui interessa, che “la tutela accordata alle lavoratrici che contraggono matrimonio trova legittimo fondamento in una pluralità di principi costituzionali che concorrono a giustificare misure legislative che, in definitiva, perseguono lo scopo di sollevare la donna dal dilemma di dover sacrificare il posto di lavoro per salvaguardare la propria libertà di dar vita ad una nuova famiglia o, viceversa, di dover rinunziare a questo suo

235 Sent. 18/1974, cons. dir. , punto 2, paragrafo 5. 236 Sent. 27/1969

fondamentale diritto per evitare la disoccupazione”237. Il legislatore è tenuto a circondare di idonee garanzie il tema del licenziamento soprattutto in questo caso in cui la minaccia di esso può comportare il sacrificio di una libertà riconosciuta all’articolo 2 Cost. ossia la libertà di contrarre matrimonio. Viene anche in gioco l’articolo 3 comma 2 secondo cui il legislatore tramite la sua opera deve rimuovere ostacoli, che come in questo caso, impediscono il pieno sviluppo della personalità. La mancata protezione della donna relativamente al licenziamento per causa di matrimonio violerebbe anche l’articolo 31 Cost. che impone al legislatore di creare norme che agevolino la formazione della famiglia, nonché dell’articolo 37 Cost. che stabilisce che le condizioni di lavoro devono consentire alla donna l'adempimento della sua funzione familiare.

In un’altra sentenza 238 esamina il ricorso del Pretore di Milano teso a far

dichiarare l’illegittimità costituzionale per contrarietà all’articolo 3 Cost. dell'art. 10 della legge 15 luglio 1966, n. 604, nella parte in cui non prevede l'applicabilità della legge medesima al personale navigante, facendo sopravvivere la possibilità di recesso ad nutum previsto dal Codice della navigazione invece del recesso per giusta causa o giustificato motivo previsto dalla stessa legge. Impugna inoltre l’art. 35, ultimo comma Statuto dei lavoratori secondo cui l’articolo 18 si applica alla categoria del personale navigante solo se previsto dalla contrattazione collettiva. Dalla normativa emerge quindi un trattamento di sfavore in tema di licenziamento per il personale navigante; trattamento che viene considerato discriminatorio. Con riguardo alla prima censura la Corte stabilisce che “sussistono, dunque, valide ragioni per escludere il personale marittimo navigante dalla disciplina della l. n. 604 del 1966 ed è da riconoscere fondato il sospetto di illegittimità costituzionale dell'art. 10 di questa legge nella parte in cui non prevede la sua applicabilità anche a tale personale. La sostanziale omogeneità delle relative situazioni afferenti ai lavoratori comuni ed a quelli nautici impone l'uniformità delle discipline, nella mancanza di fondate ragioni per

237 Sent. 27/1969, cons. dir. , punto 3, paragrafo 2. 238 Sent. 96/1987

differenziarle”239. È da dichiarare pertanto illegittima tale norma. Con riguardo

alla seconda censura, preso atto del fatto che in materia la contrattazione collettiva non ha raggiunto un risultato di estensione dell’articolo 18 alle varie categorie del personale nautico, la Corte osserva che tale norma è invece di diretta applicabilità al rapporto di lavoro quindi rappresenta una tutela necessaria per tutti i lavoratori a cui deve applicarsi lo Statuto.

9.3 La tutela del lavoratore nei confronti del datore di lavoro: lo svolgimento del rapporto

In questo tema si esamina una prima sentenza240 della Corte emessa su ricorso presentato dal Pretore di Milano e diretto a far dichiarare l’illegittimità

costituzionale dell’articolo 6 Statuto dei lavoratori per contrasto con gli articoli 2, 3, 13 e 41, comma2, della Costituzione nella parte in cui tale norma consente i controlli coattivi del personale da parte del datore di lavoro. Tale norma

colliderebbe con gli artt. 2 e 13 della Costituzione in quanto le visite personali di controllo previste nell'articolo denunziato violerebbero i diritti essenziali

dell'uomo e la libertà personale dell'individuo. La Corte non ritiene questa prima questione fondata in quanto i controlli sarebbero legittimi perché diretti a proteggere il patrimonio aziendale sempre che siano rispettosi della dignità del lavoratore, della sua libertà personale e della riservatezza. Essi rispettano tali valori se sono effettuati all’uscita dei luoghi di lavoro con l'applicazione di sistemi di selezione automatica riferiti alla collettività o a gruppi di lavoratori.

La Corte emette una pronuncia241 a seguito di ricorso del Tribunale di Ferrara, diretto a far dichiarare l’illegittimità costituzionale, per contrasto con l’articolo 3 Cost., dell’articolo 2751-bis, numero 1, c.c. , nella parte in cui non munisce di privilegio generale sui mobili il credito del lavoratore subordinato per danni da demansionamento subiti a causa dell'illegittimo comportamento del datore di lavoro. Per quello che qui interessa ci si limita ad osservare che la Corte prima

239 Sent. 96/1987, cons. dir. , punto 7, paragrafo 1. 240 Sent. 99/1980

osserva con riferimento all’attività in concreto prestata dal lavoratore, l’articolo 2103 cod. civ., nel testo sostituito dall’art. 13 della legge 20 maggio 1970, n. 300, il quale stabilisce, nella prima parte del comma 1, che il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito, ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte.

Successivamente stabilisce il principio per cui “dalla violazione da parte del datore dell'obbligo di adibire il lavoratore alle mansioni cui ha diritto possono derivare a quest'ultimo danni di vario genere: danni a quel complesso di capacità e di attitudini che viene definito con il termine professionalità, con conseguente compromissione delle aspettative di miglioramenti all'interno o all'esterno dell'azienda; danni alla persona ed alla sua dignità, particolarmente gravi nell'ipotesi, non di scuola, in cui la mancata adibizione del lavoratore alle mansioni cui ha diritto si concretizza nella mancanza di qualsiasi prestazione, sicché egli riceve la retribuzione senza fornire alcun corrispettivo; danni alla salute psichica e fisica”. 242

Sempre in relazione ai danni subiti dal lavoratore sul posto di lavoro la Corte243 affronta la problematica del mobbing. In questo caso il ricorso è proposto dal Presidente del Consiglio dei ministri che impugna la legge della Regione 16/2002, perché avrebbe leso la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile nonché di ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali in contrasto con l'art. 117, secondo comma, lettere l) e g), della Costituzione. A parte tale questione quello che qui interessa è osservare come la Corte affronti la problematica del mobbing. Stabilisce innanzitutto che tale pratica consiste in una serie di comportamenti vessatori prolungata nel tempo posta in essere nei confronti del lavoratore dagli appartenenti al gruppo di lavoro o dal suo capo caratterizzata da un intento di persecuzione ed emarginazione volto ad escludere la vittima dal gruppo. Osservando i soggetti attivi si vede come essi possono integrare il reato con condotte commissive o omissive che possono consistere anche in atti leciti,

242 Sent. 113/2004, cons. dir. , punto 4, paragrafo 4. 243 Sent. 359/2003

legittimi o irrilevanti se presi singolarmente i quali acquisiscono scopo di emarginazione e esclusione se considerati nel complesso. Nei confronti del soggetto passivo il mobbing può determinare danni di vario genere fra cui patologie psicotiche indicate come stress postraumatico; può determinare inoltre comportamenti dannosi contrari alla volontà del lavoratore come l’interruzione prematura del rapporto di lavoro o l’adozione di comportamenti penalmente rilevanti come reazione al trattamento subito.

La normativa sul mobbing ha come finalità sia la prevenzione che la repressione dei comportamenti dei soggetti attivi, sia l’accesso a cure mediche di cui il soggetto ha necessità in seguito ai danni prodotti dal mobbing, sia, infine, la disciplina degli atti compiuti dal lavoratore come reazione alla persecuzione. Lo scopo principale di tale normativa è quello di salvaguardare la dignità del lavoratore.

Il datore di lavoro oltre all’obbligo di non essere lui stesso soggetto attivo del reato ha, in virtù dell’articolo 2087 c.c. l’obbligo di adottare misure di prevenzione idonee a tutelare l’integrità fisica e la personalità del lavoratore.

9.4 Tutele sociali del lavoratore

La Corte244, esaminando l’istituto delle liste di collocamento e l’assunzione in base ad esse, stabilisce che tale istituto non viola l’articolo 2 Cost. né il principio di eguaglianza e pari dignità sociale sanciti dall’articolo 3 Cost. , poiché tali istituti rientrano negli interventi statali diretti al soddisfacimento degli interessi dei lavoratori e, più in particolare, rientrano nelle misure che lo Stato deve adottare per promuovere le condizioni che rendano effettivo il diritto al lavoro come sancito dall’articolo 4 Cost. Si vede come tali misure possano essere dirette all’eliminazione degli ostacoli di natura sociale ed economica che impediscono lo sviluppo della personalità del cittadino.

Una tutela sociale è assicurata al lavoratore dalla normativa sull’infortunio tramite il sistema previdenziale di assistenza; il lavoratore è posto in una

situazione più favorevole dei comuni cittadini che subiscono un infortunio non connesso al rapporto di lavoro infatti, come rilevato dalla Corte245, l’indennizzo erogato dall’INAIL spetta al lavoratore anche in caso il danno derivi da caso fortuito o addirittura da sua colpa e sotto l’aspetto procedurale è caratterizzato dall’automaticità del risarcimento che lo solleva dal promovimento dell’azione giudiziale e di conseguenza dall’onere della prova. L’indennizzo erogato dall’INAIL solleva il datore di lavoro da tale obbligo, ma la Corte ritiene246 che se

il danno deriva dalla mancata attuazione del datore di lavoro degli obblighi di protezione del lavoratore e tale comportamento penalmente rilevante è stato accertato con sentenza penale, nasce in suo carico il risarcimento del danno nella misura integrale a prescindere dall’indennizzo già ottenuto dal lavoratore tramite l’INAIL. Il legislatore elimina poi una diseguaglianza estendendo tale disciplina anche agli sportivi professionisti, ai soggetti che prestano attività domestica e ai lavoratori parasubordinati.

La Corte247, sempre in materia di tutela sociale del lavoratore, affronta il tema

dei minimi pensionistici. In questa pronuncia decide sui ricorsi promossi da diversi attori diretti a far dichiarare l’illegittimità degli artt. 2 e 9 della legge 160/1975 nella parte in cui prevedono un diverso trattamento minimo di pensione per i lavoratori autonomi rispetto ai lavoratori dipendenti, per contrarietà agli articoli 2 e 38 della Costituzione. Poiché i minimi pensionistici, sostengono i ricorrenti, sono diretti a soddisfare l’esigenza di mera sopravvivenza ed essendo essa identica per tutti i lavoratori non si possono fare distinzioni fra lavoratori dipendenti e autonomi. La Corte esamina la problematica del se davvero i minimi pensionistici sono diretti a soddisfare unicamente le esigenze vitali dei soggetti. Esaminando l’articolo 38 Cost. individua due diverse ipotesi regolate al primo comma e al secondo. Le differenze stanno innanzitutto nell’individuazione delle categorie protette: nel primo comma infatti si parla genericamente di cittadini, mentre nel secondo ci si riferisce nello specifico ai lavoratori che abbiano subito infortuni sul lavoro. Il secondo profilo di differenza sta nella diversità di fatti

245Sent. 22/1967 246 Sent. 74/1981 247 Sent. 31/1986

giuridici dai quali nascono i due rapporti: nel primo caso il rapporto assistenziale nasce dal fatto di essere sprovvisti dei mezzi necessari per vivere e dall’inabilità al lavoro, mentre nel secondo caso il rapporto nasce da fatti riguardanti la malattia, l’infortunio, la disoccupazione volontaria o l’anzianità. In terzo luogo, osserva la Corte, come l’assicurazione dei mezzi necessari per vivere data dal primo comma sia cosa diversa dall’assicurazione dei mezzi adeguati alle esigenze di vita del lavoratore prevista dal secondo comma infatti i secondi comprendono i primi ma non si esauriscono in essi; vale a dire che i mezzi necessari per vivere sono quelli che assicurano la sopravvivenza del cittadino mentre i mezzi adeguati alle esigenze di vita sono mezzi che assicurano il soddisfacimento di esigenze di vita ulteriori e in particolare il mantenimento di un tenore di vita adeguato per il lavoratore e quindi, a differenza dei primi, possono variare, in base alla categoria a cui appartiene il lavoratore. L’ultimo profilo di differenziazione sta nel fatto che l’assicurazione dei mezzi necessari per vivere, non essendo la somma finanziata dall’attività del lavoratore, è totalmente a carico della collettività mentre la somma, diretta all’assicurazione dei mezzi adeguati alle esigenze di vita è creata tramite il contributo pensionistico pagato dal lavoratore durante la sua attività.

L’istituto del minimo pensionistico potrebbe essere collegato al primo comma dell’articolo 38 in base all’idea di solidarietà lì richiamata mentre potrebbe essere collegato al secondo comma in quanto nasce dal rapporto di lavoro; e infatti proprio per questo motivo, e perché spetta ai lavoratori, viene ricollegato al secondo comma. Di conseguenza è ammissibile una diversificazione dell’entità della pensione minima in base alla diversa categoria a cui appartiene il lavoratore.

Infine la Corte248 esamina il ricorso presentato dal Pretore di Oristano teso a far dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’articolo 128 R.D.L. 1827/1935, nella parte in cui non prevede la pignorabilità parziale per causa di alimenti delle pensioni di invalidità erogate dall'INPS. La norma sarebbe in contrasto con l'art. 29 della Costituzione, in quanto esclude la tutela del diritto agli alimenti, compreso nei diritti di famiglia, e con l'art. 3 della Costituzione, in quanto stabilirebbe un trattamento ingiustificatamente più favorevole dei titolari di

pensioni INPS rispetto ai titolari di pensioni corrisposte dallo Stato e dagli enti pubblici, pignorabili fino alla concorrenza di un terzo per causa di alimenti. La Corte dichiara la questione fondata in quanto “dinanzi all'esigenza di tutelare i crediti alimentari, non vi è ragione di concedere ai titolari di pensioni INPS un trattamento privilegiato nei confronti di coloro che fruiscono di pensioni dello Stato o di altri enti pubblici, e tanto meno di porre in una condizione deteriore i rispettivi creditori di assegni alimentari”249. Il pensionato infatti deve godere di

un trattamento pensionistico che gli assicuri il soddisfacimento delle sue esigenze di vita e questo può ben comportare limitazioni dei diritti dei creditori che però non può essere totale e indiscriminato. E’ necessario un bilanciamento fra le due contrapposte esigenze che le renda entrambe soddisfatte. Non spetta però alla Corte, ma al legislatore, stabilire in concreto quale sia l’ammontare della parte di pensione che non può essere attaccato dai creditori in quanto necessario per assicurare al pensionato i mezzi adeguati alle sue esigenze di vita.

9.5 Conclusioni

Il lavoro viene posto dalla Costituzione come un dovere in capo al cittadino ma tale dovere ha anche un significato di realizzazione della dignità del soggetto. Tramite il lavoro infatti si ottiene un ruolo nella società, e quindi un riconoscimento della propria identità, ma soprattutto si realizza lo sviluppo della propria personalità e di conseguenza si ha una concretizzazione della dignità. Per questa connessione del lavoro con lo sviluppo della propria personalità, e per il fatto che direttamente lo Stato deve impegnarsi a rimuovere gli ostacoli di natura sociale ed economica che impediscono tale sviluppo, il legislatore deve impegnarsi a creare le condizioni per una piena occupazione anche se da ciò non deriva poi un diritto pretensivo all’ottenimento e al mantenimento del posto di lavoro.

Elemento necessario della realizzazione della propria dignità è avere risorse economiche che permettano di soddisfare i propri bisogni materiali. Così esplicitamente previsto dall’articolo 36 Cost. il quale stabilisce che la retribuzione

deve assicurare un’esistenza libera e dignitosa al lavoratore e alla sua famiglia. Come si osserva dalla prime pronunce esaminate l’attuazione di tale scopo non riguarda solamente la retribuzione ma anche la previsione di apposite indennità che permettano di mantenere una quantità di risorse sufficienti anche dopo l’estinzione del rapporto di lavoro (TFR) e di mantenere effettiva la sufficienza del reddito (indennità integrativa speciale). Si osserva come la sufficienza dei mezzi necessari alla sopravvivenza e al soddisfacimento delle esigenze di vita, essendo elemento necessario alla realizzazione della dignità, sia da assicurare anche ai soggetti inabili al lavoro e sprovvisti di mezzi oppure a quei soggetti che hanno subito un infortunio sul lavoro. A questo proposito sono pensati gli strumenti assistenziali previsti dall’articolo 38 Cost. infatti, l’assicurazione dei mezzi necessari per vivere e di quelli adeguati alle esigenze di vita del lavoratore, pur essendo diversi come istituti sono finalizzati entrambe ad assicurare una vita dignitosa a soggetti che altrimenti non potrebbero soddisfare le proprie esigenze di vita; si pongono inoltre come attuazione dell’articolo 3 comma 2 Cost. in quanto istituti diretti ad eliminare gli ostacoli di natura economica che impediscono il pieno sviluppo della persona.

Proprio perché il rapporto di lavoro integra la suddetta realizzazione della dignità deve essere assistito da garanzie che si sviluppano nelle varie fasi del rapporto; durante lo svolgimento del rapporto si osserva il generale dovere che l’attività imprenditoriale si realizzi col rispetto della dignità del lavoratore e così sono giustificati i limiti ai controlli per la tutela del patrimonio aziendale, e nel dovere di garantire la sicurezza sul posto di lavoro che nello specifico assume rilevanza nella problematica del mobbing. Infatti la disciplina sul mobbing è diretta,, da una parte, a tutelare la dignità di essere umano del lavoratore sicuramente lesa dalle persecuzioni poste in essere dal datore e dai colleghi in quanto tale soggetto diviene oggetto dell’altrui potere, e dall’altra, è diretta a tutelare la salute del prestatore di lavoro messa a rischio, soprattutto nella parte psichica, dal comportamento dei soggetti attivi del reato. Una sicura violazione della dignità si avrebbe poi, durante lo svolgimento del rapporto di lavoro, tramite il demansionamento del soggetto: è chiaro infatti che assegnare al soggetto

mansioni inferiori a quelle per cui è stato assunto e quindi per cui è qualificato significa svilire la sua capacità professionale. Se questo non fosse sufficiente il demansionamento comporta, alla stessa capacità professionale, dei danni che vanno a pregiudicare lo sviluppo della personalità del lavoratore.

10. Il caso Englaro

Il processo che ha portato alla sentenza della Cassazione inizia con un ricorso al Tribunale di Lecco e diretto a interrompere l’alimentazione forzata nei confronti di Eluana Englaro che versa in coma vegetativo irreversibile dal 1992. Tale Tribunale dichiarava inammissibile il ricorso sulla base del fatto che ne’ il tutore ne’ il curatore speciale di Eluana avrebbero avuto la di lei rappresentanza in quanto la domanda posta coinvolgeva diritti personalissimi per i quali l’ordinamento non ammette rappresentanza. Continuava il Tribunale dicendo che anche se tale rappresentanza vi fosse stata la domanda sarebbe comunque da respingere in quanto il suo accoglimento contrasterebbe con i principi costituzionali posti dagli articoli 2 e 32 della Costituzione. Secondo tale ricostruzione un trattamento terapeutico che tiene in vita un soggetto incapace di prestare il suo consenso all’interruzione, sarebbe obbligatorio in quanto espressione del dovere di solidarietà. In sostanza, secondo il Tribunale, se il soggetto sottoposto a trattamento da cui dipende la sua sopravvivenza è in grado di prestare consenso, tale trattamento può essere interrotto su sua richiesta; se invece il paziente non è in grado di manifestare la sua volontà deve prevalere il diritto alla vita sulla libertà di autodeterminazione che, in tal caso, dato lo stato di incoscienza, nemmeno può ritenersi sussistente.

Contro tale decisione viene proposto ricorso alla Corte di appello di Milano,

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