IL MANTELLO DI ALBERTINE*1
fabiocoScia
Quando Marcel Proust, nell’agosto del 1907, partì da Parigi per Ca- bourg - la stazione balneare che lo scrittore scelse come luogo di vil- leggiatura per i successivi sette anni e che nelle pagine della Recherche prenderà il nome di Balbec - utilizzò un servizio di auto noleggio per le sue escursioni nella campagna della Normandia. Il suo autista si chia- mava Alfred Agostinelli, che alla guida di un taxi rosso fiammante, lo accompagnava a visitare chiese e abbazie per giornate intere e la sera orientava i fari dell’automobile per fargli ammirare le sculture dei portici delle cattedrali. Era un giovanotto di diciannove anni, di padre italiano, dal viso paffuto e la folta capigliatura nera, amante dello sport, con la passione delle corse, in bicicletta e in automobile. All’epoca Proust non poteva immaginare ancora che il suo autista – quella «suora della veloci- tà», come lo definì in un articolo su «Le Figaro», per via della sua divisa da automobilista - sarebbe diventato il più grande amore della sua vita.
Nella primavera del 1913, infatti, quando Agostinelli, a corto di soldi, si presentò a casa dello scrittore, sei anni dopo il loro primo incontro, chiedendogli un lavoro, Proust lo assunse come segretario per fargli tra- scrivere La strada di Swann, lo ospitò con la moglie in una camera del suo appartamento di boulevard Haussmann, e in poco tempo se ne innamorò follemente. Confessava di adorarlo, ammirava la sua «intelligenza deli- ziosa» e riteneva perfino che nelle sue lettere rivelasse un talento degno «dei più grandi scrittori». Una volta, confidandosi con un amico, Proust si definì «molto molto malato». Era malato d’amore: soffriva di gelosia, deperì a vista d’occhio, perdendo peso e sonno, e nemmeno l’imminente pubblicazione del primo volume della Recherche riusciva a distoglierlo dalle pene che gli procurava il giovane segretario. Nonostante le sue dif- ficoltà economiche, dovute alle perdite dei titoli in borsa, Proust copriva di soldi e regali Agostinelli, e sapendo che la sua ambizione era quella di diventare un pilota d’aerei, cercò invano di dissuaderlo dal prendere lezioni, preoccupato dei pericoli cui sarebbe andato incontro e forse ve- dendo in quella passione per il volo un inconscio desiderio di liberarsi dalle sue soffocanti attenzioni. Difatti, il 1° dicembre 1913 Agostinel- li, probabilmente spinto dalla moglie, lasciò la casa di boulevard Haus- smann, per trasferirsi a Monte Carlo. Per Proust fu un colpo durissimo: «pazzo di dolore», in preda all’ansia e alla disperazione, assoldò un inve- stigatore privato per ricevere informazioni dettagliate sugli spostamenti di Agostinelli, cercò perfino – senza riuscirci - di corrompere il padre del fuggitivo, affidando l’incarico a un amico, per convincere il figlio a tornare da lui a Parigi, e infine contattò più volte lo stesso Agostinelli, e gli comprò, nella speranza di ricondurlo a sé, una Rolls-Royce e un aeroplano, spendendo una cifra folle. Intanto, Agostinelli si era iscritto alla scuola di aviazione di Antibes col nome di Marcel Swann. Faceva rapidi progressi e il giorno stesso in cui ricevette la lettera di Proust che gli comunicava i suoi costosissimi doni, si recò a lezione e decollò su un monoplano da solo. Forse troppo sicuro di sé e spinto dalla sua natu- ra spericolata, Agostinelli uscì dall’area di volo autorizzata e sbagliando una virata toccò con l’ala la superficie della baia, precipitando in acqua. Nonostante i tentativi di soccorso, l’ex segretario di Proust annegò, af- fondando con l’aeroplano. Il suo corpo fu ritrovato solo otto giorni dopo l’incidente. Proust cadde in uno stato di prostrazione: oltre al dolore immenso per la perdita dell’amico, si struggeva per i sensi di colpa per-
ché a causa della sua debolezza aveva ceduto ad accontentare le richieste di Agostinelli, pagandogli le lezioni di volo che l’avevano condotto alla morte. In preda alla depressione, ogni volta che prendeva un taxi spera- va di finire schiacciato sotto un autobus, anche perché la scomparsa del giovane non fece che aumentare la sua gelosia retrospettiva, al punto che ancora durante la guerra continuava a chiedere informazioni e a cerca- re di scoprire dettagli sulla vita intima di Agostinelli dalla sua fuga alla morte. In una lettera lo scrittore confesserà che, insieme al padre e alla madre, il giovane segretario era stata la persona che aveva amato di più in vita sua. Alla fine, cercò salvezza nella sua opera: ispirandosi al suo amore per Agostinelli, creò il personaggio di Albertine Simonet, la jeune
fille en fleur dagli occhi ridenti, apparsa per la prima volta nell’orizzonte
visivo del Narratore sulla diga davanti al Grand Hotel di Balbec, in mez- zo a una piccola banda di cinque o sei ragazzine, diverse da tutte le altre e paragonate a «uno stormo di gabbiani», mentre spinge davanti a sé la sua bicicletta, con un berretto «polo» ben calcato sulla testa.
A Venezia, qualche anno fa, nelle Gallerie dell’Accademia, mi è ca- pitato di fermarmi a lungo davanti a un quadro di Vittore Carpaccio, Il
Miracolo della Croce a Rialto. È un grande telero della fine del Quattro-
cento che rappresenta il miracolo della guarigione dell’ossesso attraverso la reliquia della Croce, dove la vera protagonista, al di là del soggetto sacro relegato in secondo piano, nella loggia in alto a sinistra, è la luce, ariosa e vibrante, che bagna l’intero spazio urbano, brulicante di vita, colto nei suoi più minuti dettagli.
Ma il motivo del mio interesse e della mia curiosità per quel quadro era concentrato su un unico particolare: la mantella blu scuro poggiata sulle spalle di uno dei giovani della Compagnia della Calza, raffigurati davanti alla parte bassa del loggiato, in primo piano.
Sapevo bene, infatti, che per quel dettaglio il Narratore della Recher-
che, partito per Venezia tempo dopo la morte della sua Albertine, provo-
cata da una caduta da cavallo, aveva sentito al cuore «come un improv- viso, leggero morso». Perché? Che cosa era successo? Improvvisamente, aveva riconosciuto in quel mantello l’abito che Albertine aveva indossato durante la loro ultima passeggiata a Versailles, poco prima della fuga ina- spettata della ragazza. Come per incanto, la memoria involontaria rom-
pe gli argini e distrugge il lento, laborioso potere consolatore dell’oblio, per riportare al Narratore, con rinnovato strazio, l’immagine della jeune
fille en fleur, morta ormai, eppure straordinariamente viva nelle pieghe
sinuose di quella stoffa che aveva indossato sul suo corpo. «Posso venire così, se non scendiamo dall’auto», gli aveva detto Albertine, quella sera, prima di uscire, esitando un secondo «fra due mantelli di Fortuny per nascondere la vestaglia, come fra due amici diversi da condurre con sé», scrive Proust, e «ne prese uno azzurro cupo, bellissimo».
Il giorno seguente, la ragazza si portò via quel mantello, nella sua fuga. E da allora il Narratore non l’avrebbe più visto, fino a quell’inaspetta- ta restituzione. Fortuny, il pittore e stilista catalano, nel disegnare quel
mantello, infatti, lo aveva preso «dalle spalle di quel compagno della Cal- za» per «gettarlo su quella di tante parigine che certamente ignoravano (…) che il suo modello era lì in quel gruppo di signori, in primo piano» in un quadro esposto in una sala delle Gallerie dell’Accademia.
E dunque io, quel giorno, cercavo in quel dettaglio l’evocazione di un’evocazione, la traccia di un sentimento inquieto, «di desiderio e di malinconia» per qualcosa che era stato perduto per sempre, la cui per- dita, però, continua ad evocare il suo contrario, come un eterno ritorno; quel mantello «azzurro cupo» che è il paradigma stesso del desiderio amoroso, così come l’abito indossato dalla persona amata è il linguaggio esibito e cifrato di quel desiderio: qualcosa che è lì, a segnalare ma allo stesso tempo anche a nascondere l’Assenza.
Secondo molti biografi, dietro il personaggio di Albertine, oltre ad Alfred Agostinelli, si celerebbero altri modelli, sia maschili che femmi- nili. Del resto Proust considerava androgini la maggior parte degli esseri umani e dunque non esitava a prestare tratti e caratteristiche dei suoi amici ai personaggi femminili o quelli delle sue amiche ai personaggi ma- schili. La stessa brigata delle fanciulle in fiore, in realtà, era ispirata al gruppo di giovanotti che Proust conobbe durante le vacanze estive del 1908 e 1909 a Cabourg. Tra questi, lo scrittore frequentò assiduamente il ventiduenne Albert Nahmias, di famiglia benestante e futuro giornalista di economia, che diventò il consulente finanziario di Proust e il suo fede- le segretario, prima di Agostinelli, per la preparazione della copia mano- scritta de La strada di Swann. Nel novembre del 1911 Proust confessò al suo «piccolo Albert» il rammarico di non poter «cambiare sesso, volto ed età e prendere l’aspetto di una graziosa fanciulla» per abbracciarlo con tutto il suo cuore. I due resteranno amici anche quando Agostinelli entrò in scena prepotentemente nella vita di Proust: sarà proprio Nahmias, infatti, pregato dallo scrittore in preda alla disperazione, ad andare in Costa Azzurra per tentare di corrompere il padre di Agostinelli, quando il segretario di Proust fuggì. Ma se il giovane Nahmias prestò senza dub- bio il suo nome al personaggio di Albertine, nell’amore del Narratore per la fanciulla in fiore Proust trasferì anche i ricordi delle sue infatua- zioni giovanili per Marie de Bernardaky e Marie Finaly, e soprattutto la sua passione tardiva per il giovane cameriere dell’Hotel Ritz, lo svizzero Henry Rochat, anche lui assunto come segretario, alla fine del 1918. Lo
stato di «prigionia» in cui il Narratore tiene Albertine nella sua casa è lo stesso infatti che visse il giovane domestico, costretto per circa due anni e mezzo nell’appartamento di Proust, segregato nella sua camera – ma an- che ricoperto di doni e gioielli - al punto che il volume La prigioniera, già abbozzato prima dell’incontro con Rochat, in quegli anni di convivenza raddoppiò di dimensioni. Cupo e taciturno, Rochat aveva vaghe ambizioni di pittore (come Albertine) e presto si rivelò inadatto alle mansioni di se- gretario. Proust si stancò di lui, maturando nei suoi confronti quello stesso atteggiamento ambivalente che ha il Narratore nei confronti di Albertine quando, dopo averla tanto desiderata, nel momento in cui l’ha resa pri- gioniera nella sua casa e sottratta al mondo la considera come una Vittoria dalle ali mozzate, di cui si sarebbe sbarazzato volentieri. Lo scrittore fece così ripetuti tentativi per sistemare Rochat altrove, cercandogli un lavoro, e infine riuscì a trovargli un impiego in una banca a Buenos Aires. Partito per l’Argentina, il cameriere svizzero non diede più notizie di sé.
Chi era, dunque, Albertine? Chi si nascondeva dietro il suo nome, che nella Recherche compare più di duemila volte? Due volumi interi dell’o- pera sono dedicati al «romanzo d’amore» tra lei e il Narratore, eppure lo stesso Proust ripeté spesso che esistevano molte, troppe chiavi per ciascuno dei suoi personaggi, al punto da rendere inutile qualsiasi rivela- zione. In fondo, non ha alcuna importanza: Albertine, con le sue plurime incarnazioni, è come il mantello di Fortuny, un vuoto simulacro, un être
de fuite, l’emblema stesso dell’impossibilità contro la quale urta l’amore.
Quel giorno me ne andai dal museo con la sensazione di essermi av- vicinato a una verità scomoda da accettare. Avevo ancora negli occhi i colori e la luce del quadro di Carpaccio, che non sfiguravano con lo spet- tacolo che potevo ammirare adesso dalle calli veneziane, nell’aria prima- verile. Ma soprattutto avevo negli occhi quel mantello «azzurro cupo». Pensai che non era un caso, forse, se Albertine l’aveva indossato nell’ulti- mo incontro prima della fuga, perché esso stesso era lì e in un altro posto nel medesimo istante, sembrava coprire il corpo della persona amata, rivestito solo di una vestaglia, lì e in quel momento preciso, ma in realtà non era altro che il riflesso di qualcosa che era già in un particolare di un quadro di fine Quattrocento, a sua volta rappresentazione di una realtà il cui calco originale era ormai impossibile da ritrovare. Ho capito allora, come in una rivelazione improvvisa, tutta l’insensatezza che si nasconde
nel domandarsi perché si ama e che cosa si desidera quando si ama; quali fantasmi stiamo evocando, quali perdite stiamo cercando di compensare. Mi tornarono in mente le parole di Proust quando descrive la natura im- maginaria del desiderio: «Perdiamo tempo prezioso su una pista assurda, e passiamo accanto al vero senza averne alcun sospetto». Forse, allora, il mantello di Albertine è lì proprio per suggerirci che il «vero» è irrecu- perabile, perso una volta per sempre, e che l’unica operazione possibile, nell’arte come nella vita, resta quella della riparazione, della messinscena, della reviviscenza.
TESTI RITROVATI
Il saggio di Valerio Magrelli è uscito su «Nuovi Argomenti», n.s., 57 (gennaio-marzo 1978) e viene qui riproposto con una breve nota che l’au- tore ha redatto appositamente per la nostra rivista. Quello di Matteo Re- sidori è stato pubblicato nel 1998 in Padri e figli. Dialettica dell’avventuro-
so romanzesco, numero monografico (a cura di Arrigo Stara) della rivista
«Inchiesta Letteratura». Il testo saggistico-narrativo di Ezio Sinigaglia è un estratto (capitolo I) del romanzo Il pantarèi, Milano, SPS [Sapiens], 1985 (si legge anche online, in quattro puntate, nella rubrica proustiana di “FN” [“Quello strano Signor Proust”], a cura di Mariolina Bertini e Giuseppe Girimonti Greco, all’indirizzo: http://www.federiconovaro.eu/ categorie/indagini/quello-strano-signor-proust/).
SU “MARCEL PROUST E LA PESATRICE DI PERLE” (1977-2015) valerioMaGrelli
Avevo vent’anni quando redassi e pubblicai il mio primo intervento critico, ossia Marcel Proust e la pesatrice di perle (“Nuovi Argomenti”, Nuova Serie, n. 57, gennaio-marzo 1978, pp. 281-289). L’invito proveniva dal direttore della rivista, Enzo Siciliano, mentre l’idea era nata da un corso di Giovanni Macchia, che avevo seguito all’Università di Roma “La Sapienza”. In verità, baravo. Infatti, quando Siciliano mi aprì quelle pre- stigiose porte grazie ai miei versi, decisi di varcarle indossando due diffe- renti abiti, uno dello scrittore, l’altro del francesista (quel francesista che sarei divenuto davvero solo col dottorato del 1986, dopo una torturante tesi in Storia della Filosofia colpevole di avermi portato anni e anni fuori strada).
Baravo, dicevo, perché ovviamente nessuna rivista accademica avrebbe mai accettato il contributo di una matricola. Avevo frequentato il primo anno universitario presso la Sorbonne Nouvelle (Censier, Paris III), indi- rizzo Storia del Cinema, ottenendo la convalida di tre esami su nove. Mai equipollenza fu più veritiera, dato che, per qualsiasi studente italiano, il li- vello di preparazione francese risultava pressoché irrisorio. Baravo, insom- ma, sì, ma a fin di bene, in quanto sfruttai la voce della poesia-cicala per accumulare nutrimento con la fatica della critica-formica. E in effetti ancora oggi ringrazio Dio, o chi per lui, d’essere diventato un docente. Non per nulla, come è stato affermato, il professore è qualcuno che non si rassegna ad abbandonare la scuola. Certo, confesso, tutto questo ha avuto a che fare anche con la scellerata decisione di mio padre, il quale, dopo la laurea, “per uno scatto d’ira, abbandonò l’Università, ossia l’unico luogo dove avrebbe potuto rifugiarsi (e dove più tardi io stesso mi sono rifugiato!)”
Ma questa è un’altra storia. Oggi, dopo le mie nozze d’argento con l’insegnamento, posso dire che nella mia vita (a differenza della famosa fiaba) i due insetti sono sempre vissuti d’amore e d’accordo. Poesia-cicala e critica-formica hanno, in realtà, collaborato strettamente, scambiandosi spesso le parti. Ahimè, parliamo dei bei tempi andati, quando lo Stato finanziava ancora la scuola pubblica, invece di quella privata, e la sinistra si opponeva alla destra, invece di darle man forte. Comunque, con buona
pace dei duecento dirigenti statali pagati più del presidente degli Usa, dei pensionati d’oro e dei parlamentari pregiudicati che continuano a ricevere imperterriti il loro vitalizio, io sono riuscito, almeno finora, a compiere la mia missione impossibile: sopravvivere studiando e insegnando. Così, da ventisei anni, sono un professore pendolare, e dopo avere odiato il mio destino (Pisa adiuvante), ora lo benedico, e benedico la mia professione di “vu ‘mparà”. Sono un lavoratore cognitivo, che va in giro cercando di piazzare le proprie merci, ben sapendo, però, che queste merci sono il prezioso frutto del suo sacrosanto lavoro.
Finito il pistolotto, due parole sul testo. Dirò soltanto che c’è molta passione e buona volontà. Non manca una discreta confusione, e una for- te attrazione per il gergo di allora (da tempo sostengo che, con una ap- propriata analisi linguistica, ogni reperto critico si potrebbe datare alla stregua di un fossile esaminato col carbonio 14). Il risultato, oggi, mi pare mostri come buttare via un’idea interessante, relegandola in tre frettolose righe di chiusura. Per il resto, sorrido, invitando il lettore a far lo stesso, davanti a questo giovane che si impegnò con tanta diligenza.
P.S. In questa riproposta, mi sono limitato a correggere qualche pas- saggio, senza nulla aggiungere o togliere all’originale.
MARCEL PROUST E LA PESATRICE DI PERLE valerioMaGrelli
Il n’existe pas de choses ni d’esprits, il n’y a que des corps […] La biologie aurait raison, si elle savait que les corps en eux-mêmes sont déjà langage. Les linguistes auraient raison s’ils savaient que le langage est toujours celui des corps. Tout symptôme est une parole, mais d’abord toutes les paroles sont des symptômes.
Gilles Deleuze
I
All’inizio della Recherche, in Du côté de chez Swann, c’è una lunga sequenza narrativa che può per certi versi evocare forme cinematografi- che. La lanterna magica di Combray trasforma infatti la camera da letto in “salle de cinéma” (o forse, paradossalmente, in “salle de caméra”), disseminandola di ectoplasmi silenziosi1. Si assiste così alla lenta “tran-
svertébration” delle immagini, che, come più tardi sarà per le figure (o fantasmi) femminili, attraversano la pagina accendendola di riflessi.
Non posso non ricordare, a proposito di anticipazioni e “profezie” cinematografiche (spesso vere e proprie intuizioni di carattere tecnico), la sorprendente sensibilità di Baudelaire per quest’arte ancora in ge- stazione. Alle osservazioni di Macchia sulla Chanson du scieur de long2
e. sui famosi versi del Voyage (“Faites, pour égayer l’ennui de nos pri- sons, / passer sur nos esprits tendus comme une toile, / vos souvenirs avec leurs cadres d’horizons”), ne aggiungerei alcune sulla Morale du
Joujou3.
Tre i punti in cui l’allusione di Baudelaire alla meccanica cinemato- grafica si fa sorprendentemente precisa. Il primo recita: “Tous les enfan-