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Capitolo III: Cooperazione giudiziaria ed orientamenti della Corte

2. Ulteriori pronunce della Corte di Strasburgo in tema di processo

In questo paragrafo analizzeremo due sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, cronologicamente successive rispetto al caso Sejdovic v. Italia, che ci aiuteranno a focalizzare i principi che permeano un giudizio contumaciale “giusto”, sia per quanto riguarda il primo che il secondo grado di merito.

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La prima sentenza riguarda il caso Kollcaku v. Italia429 in cui il nostro Paese è stato condannato dalla Corte di Strasburgo per violazione dell’art. 6 commi 1 e 3 CEDU, poiché contro il ricorrente è stata irrogata una pena detentiva all’esito di un giudizio contumaciale non conforme alle prescrizioni convenzionali.

Il fatto vede protagonista il signor Kollcaku, un cittadino albanese che, dichiarato contumace e rappresentato da un difensore d’ufficio, fu condannato nel 1997 in primo grado dal Tribunale di Padova per gravi reati. Tale pronuncia passò in giudicato per mancata proposizione d’appello da parte del legale e, vista la situazione di irreperibilità in cui versava il reo, fu conosciuta dallo stesso in occasione del suo arresto, avvenuto sei anni dopo430. Nominato un difensore di fiducia, il condannato propose l’incidente di esecuzione ai sensi dell’art. 670 c.p.p. eccependo la mancata effettuazione ex art. 159 c.p.p. delle «nuove ricerche» nel suo Stato d’origine: vedendosi respinta tale istanza sia dal Tribunale che dalla Cassazione, decideva di adire la Corte di Strasburgo, lamentando che la sua condanna era scaturita da un processo ingiusto perché, nonostante non avesse mai effettivamente rinunciato a partecipare al proprio giudizio, non aveva potuto ottenerne la riapertura431. Il Governo italiano sottolineava, invece, il mancato previo esperimento dei ricorsi interni poiché l’interessato, non avendo proposto richiesta di rimessione in termini ai sensi dell’art. 175 comma

429 V. Corte eur. dir. uomo, 8 febbraio 2007, Kollcaku v. Italia, in www.camera.it. 430 L’arresto concerneva anche l’applicazione di una misura di detenzione

provvisoria inflittagli in occasione di un altro procedimento penale nel frattempo instaurato nei suoi confronti presso il Tribunale di Firenze.

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Per il ricorrente la violazione dell’art. 6 CEDU comprendeva anche l’impossibilità di interrogare un teste irreperibile che aveva rilasciato dichiarazioni incriminanti sulle quali, a detta sua, era basata la decisione di condanna. Lamentava, altresì, ai sensi dell’art. 14 CEDU, un atteggiamento discriminatorio che le autorità italiane gli avrebbero riservato in ragione della sua nazionalità. Queste due doglianze non furono accolte; la prima perché le dichiarazioni del teste erano state corroborate da altri elementi, per cui la condanna non derivava esclusivamente dalle stesse, mentre la seconda non fu esaminata perché ritenuta assorbita nella violazione di cui all’art. 6 CEDU.

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2 c.p.p., non aveva in concreto usufruito di tutti gli istituti approntati dal codice di procedura penale per rimediare all’emanazione di una sentenza contumaciale.

La Corte, dopo aver analizzato gli argomenti delle parti, notò la comunanza tra la causa sottoposta al suo esame e quella Sejdovic: infatti, sebbene il signor Kollcaku non fosse detenuto all’estero al momento dell’arresto, non vi era la prova certa che egli fosse a conoscenza dell’opportunità di poter essere restituito nel termine per proporre appello avverso la sentenza di condanna. E comunque, anche se fosse stato informato di questa evenienza, avrebbe avuto ben poche possibilità di successo visto l’onus probandi che ai tempi gravava sul richiedente e il breve termine di dieci giorni previsti a pena di decadenza per proporre l’istanza.

Questo caso è importante perché nella parte motiva la Corte di Strasburgo ha esposto nuovamente tutti i principi che connotano o dovrebbero connotare un giudizio in absentia.

Il ricorrente certamente non aveva ricevuto una comunicazione ufficiale dell’accusa, e ciò osta ad un processo penale conforme all’art. 6 CEDU in quanto «avvisare qualcuno delle azioni intentate contro di lui costituisce un atto giuridico di una importanza tale da richiedere condizioni di forma e di merito adeguate a garantire l’esercizio effettivo dei diritti dell’accusato»432

; ciononostante, potrebbero venire in rilievo fatti e circostanze che rendano palese una conoscenza del giudizio da parte del contumace ed un suo conseguente disinteresse a partecipare allo stesso. Nel caso di specie, però, non erano presenti elementi che potevano far ritenere provato che il ricorrente fosse stato messo a conoscenza dell’imputazione, che avesse voluto sottrarsi alla

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La Corte con questo passaggio si è rifatta alle stesse conclusioni già adottate nei casi Somogyi v. Italia e T. v. Italia.

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giustizia ovvero rinunciare in maniera inequivoca al suo diritto di comparizione433.

Ma vi è di più: come affermato in occasione della sentenza Sejdovic, né l’art. 175 c.p.p. né l’art. 670 c.p.p., allora vigenti, rappresentavano rimedi idonei a far ottenere ad un soggetto inconsapevolmente giudicato in contumacia un processo in sua presenza, motivo per cui il nostro Paese aggiunse questa condanna alle già molte ricevute in tema di giudizio in absentia.

Per la Corte il risarcimento più appropriato in casi come questi è la constatazione della violazione, seguita dal conseguente obbligo per lo Stato condannato di far ottenere un nuovo processo o, almeno, una riapertura del procedimento su domanda del condannato434: questa è una sorta di obbligazione di risultato imposta al nostro Paese che è lasciato libero di optare per le modalità che ritiene più opportune al fine di raggiungere l’obiettivo di «porre il più possibile il ricorrente in una situazione equivalente a quella in cui si sarebbe trovato se non ci fosse stata violazione della Convenzione».

Come abbiamo già avuto modo di sottolineare in precedenza435, i principi enunciati all’art. 6 CEDU in materia di processo equo si “allentano” nei gradi successivi al primo: di questo argomento si occupa la seconda sentenza che analizzeremo, inerente al caso Hermi

433 La rinuncia alla partecipazione oltre a non dover essere equivoca deve essere

assistita da un minimo di garanzie corrispondenti alla sua gravità e non deve porsi in contrasto con alcun interesse pubblico significativo. Inoltre, prima di poter affermare che un imputato abbia voluto rinunciare per facta concludentia al diritto di comparizione processuale, deve essere stabilito che tale soggetto poteva ragionevolmente prevedere le conseguenze della propria condotta : v. GAMBINI- TAMIETTI, sub art. 6 CEDU, in BERTOLE – DE SENA – ZAGREBELSKY,

Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Cedam, 2012,

pag. 203.

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Così anche in Somogyi v. Italia: v. supra, capitolo I, paragrafo 7.

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v. Italia436, su cui il 18 ottobre 2006 si è pronunciata la Grande Camera.

Il ricorrente era un cittadino tunisino che, condannato in primo grado con giudizio abbreviato ai sensi degli artt. 438 e 443 c.p.p., aveva presentato appello per motivi di diritto. Nell’udienza di secondo grado manifestò la sua volontà di essere tradotto in udienza, ma la richiesta fu respinta dalla corte d’appello, che confermò poi la condanna di primo grado. L’imputato propose allora ricorso per cassazione per far valere la sua impossibilità di comparizione all’udienza e la mancata traduzione dell’atto di vocatio in iudicium in arabo, la lingua che lui parlava: la sua istanza fu però respinta perché per la Corte la traduzione degli atti nella lingua dell’imputato non rappresenta un adempimento obbligatorio e, soprattutto, perché l’interessato non poteva lamentare la sua non comparizione in giudizio, visto che non aveva prontamente comunicato la propria volontà di essere parte attiva dell’udienza437

.

Il signor Hermi decise, allora, di adire la Corte di Strasburgo per far accertare la lesione del diritto di difesa e, più nello specifico, del suo diritto di partecipazione personale che, a detta sua, non era stato tutelato nel procedimento svoltosi in Italia. La IV Sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo non si conformò all’orientamento dei giudici nazionali e alle tesi del Governo italiano e, in data 26 giugno 2005, ritenne accertata la violazione dell’art. 6 CEDU, poiché sulla base degli elementi di causa438 non era possibile stabilire in modo certo

436 V. Corte eur. dir. uomo, 18 ottobre 2006, Hermi v. Italia, in www.duitbase.it. 437

Infatti, nella sentenza n. 6665 del 1995, qui richiamata, i giudici di legittimità avevano affermato che l’imputato in vinculis per essere sentito deve fare richiesta entro il termine previsto dall’art. 127 comma 2 c.p.p., cioè cinque giorni prima dell’udienza.

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Il giudice nazionale aveva ritenuto integrata la rinuncia a comparire poiché l’imputato, che era stato condotto d’ufficio al dibattimento di primo grado, non aveva manifestato la volontà di presenziare in occasione della notifica di un avviso relativo alla facoltà di richiedere il trasferimento in udienza. La Corte europea, invece, ritenne più opportuno dare rilievo, da un lato, al fatto che l’avviso non sia stato tradotto in

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che l’interessato avesse inequivocabilmente voluto rinunciare al diritto di comparire in appello.

Il Governo si oppose alla decisione de qua e la causa veniva quindi rinviata alla Grande Camera che ribaltò completamente la statuizione della IV Sezione, ritenendo non sussistente alcuna violazione della disposizione convenzionale sul giusto processo.

La motivazione di questa “inversione di rotta” aveva come premessa l’assunto per cui, nonostante il diritto alla presenza dell’imputato, desumibile dall’oggetto e dallo scopo del terzo paragrafo dell’art. 6 CEDU lettere c), d) ed e), stia alla base di un processo penale equo, esso va graduato a seconda dei diversi gradi del processo, di modo che la partecipazione personale in appello non riveste quell’importanza capitale propria del primo grado di giudizio. Infatti, l’art. 6 CEDU non implica sempre e comunque il diritto ad una pubblica udienza e in tale grado la partecipazione attiva dell’imputato si reputa necessaria soltanto qualora il giudice sia chiamato a decidere sulla colpevolezza o meno dello stesso.

In via generale, i giudici europei affermano che la rinuncia a comparire per essere sussistente deve essere non equivoca, non lesiva di alcun interesse pubblico rilevante ed accompagnata da un minimo di garanzie corrispondenti alla sua gravità; inoltre l’imputato deve aver potuto preliminarmente prevedere le conseguenze di tale comportamento. Correlativamente a ciò, incombe sul giudice l’obbligo di verificare se l’accusato abbia conosciuto la data di udienza e fosse al corrente degli adempimenti da porre in essere per prendervi parte. Con riferimento alle circostanze particolari del caso sottopostole, la Grande Camera ha ritenuto che il diritto alla presenza del signor Hermi non è stato leso perché egli, prontamente informato della data di

arabo pur nell’incertezza in ordine all’effettiva comprensione della lingua italiana da parte del ricorrente e, dall’altro, alla richiesta di traduzione dell’imputato effettuata dal suo legale in udienza, indicativa della volontà di presenziare del suo assistito.

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udienza, ha consapevolmente rinunciato a comparire alla stessa. Il ricorrente infatti da un lato aveva preso parte al giudizio di primo grado, svoltosi secondo la disciplina del rito abbreviato, e dall’altro la sua presenza fisica in appello non avrebbe comunque influito sulla condanna perché non aveva proceduto a negare i fatti posti a base dei capi d’accusa; inoltre il giudice di seconde cure non avrebbe potuto riformare in peius la sentenza di condanna perché il pubblico ministero non ha il potere di appellare contro le sentenze di condanna che non modificano la definizione giuridica del reato emesse a seguito del giudizio abbreviato.

I giudici europei hanno altresì chiarito che, nonostante nell’avviso avrebbe potuto essere indicata la facoltà di richiedere almeno cinque giorni prima dell’udienza la traduzione, non esiste alcun obbligo per lo Stato di indicare in modo dettagliato e preciso in ogni atto procedimentale i diritti e le facoltà di cui potrebbe in astratto usufruire l’imputato, poiché queste informazioni rientrano tra quelle che il difensore dovrebbe comunicare all’assistito439

.

Invece, dal punto di vista del diritto di essere informato delle accuse a suo carico, anch’esso ritenuto leso nei procedimenti avanti ai giudici nazionali, la Corte europea ha affermato che è vero che nell’art. 6 CEDU è previsto un certo rigore circa la notificazione della vocatio in iudicium, ma in esso è sancito come obbligatorio il solo diritto all’assistenza gratuita di un interprete, e non anche la traduzione scritta di ogni atto. In più dai fascicoli del primo grado è emerso che il ricorrente non solo conosceva la lingua italiana, in quanto non aveva richiesto la traduzione, ma aveva altresì dichiarato di aver pienamente compreso il contenuto dell’imputazione.

439 La Corte ha criticato l’assenza di comunicazioni tra il ricorrente e i suoi avvocati

ma ha anche precisato che non può essere considerato responsabile lo Stato per le mancanze dei legali, siano essi di fiducia o d’ufficio.

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Alla luce di tali considerazioni la Corte ha dichiarato non sussistente la violazione dell’art. 6 CEDU e confermato la valutazione del giudice d’appello italiano, che aveva identificato la mancata richiesta di essere tradotto in udienza nei termini 440 quale rinuncia implicita ed inequivocabile a comparire in giudizio.

440 La previsione ex lege di un termine per la presentazione di tale richiesta ha la sua

ratio nel fatto che il trasferimento del detenuto richiede l’adozione di misure sia

organizzative che di sicurezza, per la messa in atto delle quali è ragionevole prevedere un certo preavviso.

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C

ONCLUSIONI

Arrivati al termine di questo lavoro, è giunto il momento di chiederci se l’attuale sistema processualpenalistico italiano in materia di giudizio in absentia possa essere considerato a tutti gli effetti compatibile con i principi contenuti nell’art. 6 CEDU e chiariti nelle sentenze della Corte di Strasburgo.

Come abbiamo avuto modo di capire, quello del diritto dell’imputato a partecipare personalmente al processo di merito che lo vede coinvolto è stato di uno degli argomenti “caldi” del panorama processualpenalistico italiano. Infatti, l’approvazione della legge n. 67 del 2014 è stata preceduta da un travagliato iter che ha visto susseguirsi nel tempo molteplici censure dottrinarie, giurisprudenziali e sovranazionali che hanno accompagnato ogni modifica alla disciplina del processo contumaciale che il Legislatore ha reputato opportuna. Il brocardo «tres sunt personae quae faciunt processum» evidenzia come già in tempi remoti fosse chiara l’importanza della presenza dell’accusato al giudizio, soggetto che più di tutti può fornire un contributo dialettico idoneo a far ottenere un accertamento della regiudicanda il più allineato possibile alla realtà dei fatti. Ciò nonostante da sempre il nostro ordinamento ha legittimato lo svolgimento di procedimenti nell’assenza del principale protagonista processuale, a differenza di quanto accade in altri Paesi, quali quelli di common law, in cui nei confronti dell’imputato si attuano delle vere e proprie coercizioni al fine di costringere lo stesso a presenziare all’udienza.

Il nostro è stato un Legislatore che ha risposto in maniera tardiva ai suggerimenti di gran parte della dottrina, che da tempo auspicava sia l’abbandono dell’istituto della contumacia, vista come una “cattiva eredità” dei codici precedenti, sia la predisposizione di un meccanismo sospensivo correlato all’interruzione della prescrizione per evitare che

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si svolgessero processi inutili nei confronti di imputati che nella maggior parte dei casi rimanevano ignari non solo dell’instaurazione e del conseguente svolgimento di un procedimento penale a loro carico, ma anche dell’emanazione della sentenza definitiva che, nei fatti, rimaneva ineseguita per l’impossibilità di reperire il condannato. Ma il 28 aprile 2014 è stata approvata la legge, denominata “Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili” con cui, finalmente, è stata eliminata la contumacia ed è stata predisposta la stasi del procedimento per mancata reperibilità dell’imputato. Con essa è stato creato un particolare tipo di giudizio che può svolgersi senza la presenza dell’imputato e sono stati riformati i rimedi restitutori, al fine di rendere il processo in absentia più allineato alle previsioni convenzionali e garantire la celebrazione di un nuovo processo per il soggetto assente ed ingiustamente processato. Ad oggi risulta legittimato il processo in assenza dell’imputato ove egli abbia personalmente ricevuto il provvedimento di vocatio in iudicium o manifestato la sua volontà di non presenziare ovvero quando, secondo tutta una serie di casi elencati nel disposto del comma 2 dell’art. 420-bis c.p.p., possa rinvenirsi nell’atteggiamento dello stesso una conoscenza non qualificata dello svolgimento del giudizio. In questa seconda ipotesi però, vista la maggiore incertezza circa l’effettiva conoscenza del processo si accorda all’absens un rimedio restitutorio grazie al quale, laddove esso riesca a fornire la prova della sua incolpevole ignoranza della citazione o della celebrazione del giudizio, potrà proporre istanza al fine di acquisire atti, documenti, prove e richiedere il giudizio abbreviato o l’applicazione della pena su richiesta.

Per fronteggiare una possibile irreperibilità dell’imputato è stata anche predisposta la sospensione del procedimento fino al reperimento dello

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stesso, correlata all’interruzione del decorso della prescrizione per un termine massimo pari a quello previsto dall’art. 161 c.p.; inoltre i rimedi restitutori previsti per l’incolpevole assente rimettono, oggi, l’accusato nella medesima posizione processuale di cui avrebbe potuto godere se avesse da subito partecipato al giudizio.

Tanti pregi quelli che caratterizzano la nuova disciplina che però, se viene analizzata attentamente, contiene anche taluni difetti.

In primis si può segnalare come da una lettura del “nuovo” art. 175 comma 2 c.p.p., oggi limitato alla sola ipotesi di decreto penale di condanna divenuto definitivo in mancanza di effettiva conoscenza da parte del condannato, sembra esserci stata una regressione dal punto di vista della tutela del diritto alla difesa personale, perché è stato nuovamente invertito l’onus probandi, ritornato ad essere posto in capo al condannato. Stessa cosa vale per la richiesta di rescissione del giudicato in cui, ai sensi dell’art. 625-ter c.p.p., è l’istante a dover fornire la prova della mancata incolpevole conoscenza del procedimento.

Si tratta di inversioni probatorie che potrebbero in futuro costare al nostro Paese altre censure da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, che da sempre ha ritenuto non conforme ai canoni di un equo processo tutte quelle previsioni statali che collocano in capo all’imputato l’onere di provare che la mancata partecipazione al giudizio non è stata voluta: infatti, tale soggetto, escluse le ipotesi in cui abbia rinunciato a presenziare o abbia messo in atto comportamenti incompatibili con la volontà di difendersi attivamente, deve essere ritenuto ignaro dello svolgimento del processo fino a prova contraria che deve essere fornita dall’autorità giurisdizionale procedente.

Problematica è anche la mancata previsione di una disciplina transitoria, applicabile a tutti quei procedimenti penali già cominciati e in cui magari, alla data di entrata in vigore della normativa de qua, sia stata già dichiarata la contumacia. Si è ritenuto opportuno far

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riferimento al principio tempus regit actum di cui all’art. 11 comma 1 delle preleggi che prevede la non retroattività della nuova legge processuale penale e la sua immediata efficacia dal momento della sua entrata in vigore: nel caso di specie l’actus cui la disposizione farebbe riferimento sarebbe la verifica della regolare costituzione delle parti nell’udienza preliminare e negli atti introduttivi del dibattimento, di modo che l’applicabilità o meno della nuova normativa sarebbe connessa alla connotazione di tale momento processuale rispettivamente quale atto a struttura monofasica o plurifasica.

Questo problema, che può sembrare astratto, è recentemente diventato concreto perché è già pervenuta alla Corte di cassazione la prima istanza di rescissione del giudicato: si è ritenuto opportuno assegnare il ricorso alle Sezioni Unite che il 17 luglio 2014 sapranno dirci se la legge n. 67 del 2014 possa essere applicata anche a processi già iniziati e, con riferimento al caso di specie, se il rimedio della rescissione del giudicato possa travolgere anche sentenze divenute irrevocabili prima della sua entrata in vigore.

Solo a seguito del sedimentarsi della nuova normativa e dell’applicazione della stessa da parte della giurisprudenza interna si

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