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L'imputato e il suo processo: il diritto a partecipare personalmente al proprio giudizio alla luce dei più recenti sviluppi giurisprudenziali e normativi

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I

NDICE

Capitolo I: Genesi storica del processo contumaciale

1. Premessa ... 3

2. La disciplina della contumacia nei c.p.p. del 1865 e 1913 ... 4

3. Il codice Rocco del 1930 ... 8

4. (Segue): la riforma del 1955 e le pronunce della Corte costituzionale ... 11

5. Il caso Colozza: una spinta per una revisione del sistema ... 14

6. Il codice di procedura penale del 1989 ... 20

7. La Corte di Strasburgo ricondanna l’Italia: il caso Somogyi ... 26

8. (Segue): la sentenza Sejdovic ... 33

9. La novella del 2005 ... 41

Capitolo II: Processo in absentia e diritto di difesa 1. Premessa ... 49

2. L’irreperibilità ... 50

3. (Segue) Una particolare ipotesi di irreperibilità qualificata: la latitanza ... 60

4. La contumacia ... 65

5. (Segue) Differenze tra contumace ed assente ... 85

6. La restituzione nel termine “ordinaria” ... 92

7. La restituzione in termine ex art. 175 comma 2 c.p.p.: presupposti ... 98

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9. Le Sezioni Unite e la previa impugnazione della sentenza

contumaciale da parte del difensore ... 113

10. La decisione sull’istanza e gli effetti derivanti dalla concessione della restitutio in integrum ... 119

11. Il problema della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello ... 125

12. Il giudizio in Cassazione ... 131

13. La restituzione nel termine in fase esecutiva ... 133

14. La svolta: l’approvazione della legge sulla sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili ... 138

Capitolo III: Cooperazione giudiziaria ed orientamenti della Corte europea 1. Mandato d’arresto europeo e condanne in absentia ... 150

2. Ulteriori pronunce della Corte di Strasburgo in tema di processo contumaciale ... 160 Conclusioni ... 168 Bibliografia ... 172 Giurisprudenza ... 187 Sitografia ... 192 Ringraziamenti ... 193

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C

APITOLO

I:

G

ENESI STORICA DEL PROCESSO

CONTUMACIALE

SOMMARIO: 1. Premessa – 2. La disciplina della contumacia nei c.p.p. del 1865 e 1913 – 3. Il codice Rocco del 1930 – 4. (Segue): la riforma del 1955 e le pronunce della Corte costituzionale – 5. Il caso Colozza: una spinta per una revisione del sistema – 6. Il codice di procedura penale del 1989 – 7. La Corte di Strasburgo ricondanna l’Italia: il caso Somogyi – 8. (Segue): la sentenza Sejdovic – 9. La novella del 2005.

1.

Premessa

La contumacia è la situazione processuale dell’imputato il quale, benché ritualmente citato, non si presenta in udienza senza aver addotto un legittimo impedimento o manifestato volontà in ordine ad una sua non partecipazione al processo.

Se oggi viene considerato una legittima strategia difensiva, in passato, l’istituto della contumacia - complice anche l’etimologia latina del vocabolo1, che da alcuni veniva ricondotta a contenere (id est: disprezzare la legge), mentre da altri a tumère e tumèscere (cioè gonfiarsi di superbia tanto da ribellarsi ai comandi legislativi non comparendo in udienza) - era disciplinata in modo sfavorevole.

Il Legislatore italiano ha da sempre escluso che la mancata presenza dell’imputato potesse inibire lo svolgimento del processo 2

e, soprattutto in passato, ha preferito rinunciare all’apporto conoscitivo

1 V. CAPRIOLI, “Giusto processo” e rito degli irreperibili, in Legisl. pen., 2004,

pag. 586.

2

Già il diritto romano che disciplinava, sotto diversi aspetti, la mancata partecipazione al giudizio disconosceva un obbligo di difesa, trattando il fenomeno contumaciale alla stregua di un’inosservanza di un ordine officioso di comparire in giudizio, e non come un presupposto inibitore del processo: v. CORTESE,

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4

che soltanto tale soggetto può offrire, adottando forme e conseguenze accessorie afflittive nei suoi confronti.3

2.

La disciplina della contumacia nei c.p.p. del 1865 e

1913

Nei codici di procedura penale del 1865 e del 1913, sulla scorta del modello francese, dopo la dichiarazione di contumacia si procedeva con stringenti limitazioni probatorie e difensive per l’imputato. Il disinteresse per la partecipazione di tale soggetto al processo derivava da una visione autoritaria – in conformità al modello inquisitorio adottato da entrambi i codici – per cui il giudice, dotato di poteri di ricerca, acquisizione e valutazione della prova, non necessitava, per giungere alla verità materiale, dei contributi dichiarativi dell’accusato4 che, in un certo senso, “subiva”il processo penale.

Nel c.p.p. del 1865, il primo successivo all’Unità d’Italia, la posizione processuale dell’imputato dichiarato contumace era soggetta a conseguenze irrimediabili: non era, infatti, ammessa la difesa tecnica ed erano, altresì, vietate al giudice acquisizioni probatorie richieste a suo nome.

L’ordinamento reagiva in modo diverso a seconda del tipo di giudizio da instaurare e disciplinando, all’art. 279 c.p.p., forme differenti per i procedimenti di competenza della corte d’assise, del pretore ovvero del tribunale accomunati, tutti, dall’esclusione della partecipazione del difensore.

3 Esempi erano l’impossibilità di essere rappresentato da un difensore e il valore di

indizio di reità e, poi, di prova piena della colpevolezza attribuito alla mancata costituzione in giudizio, considerata equipollente alla confessione: v. QUATTROCOLO, Contumacia (dir. proc. pen.), in Enciclopedia del diritto, 2008, pag. 134.

4 Unica eccezione era data dalla confessione dell’accusato, soggetto ritenuto fonte

di dichiarazioni autoindizianti : v. QUATTROCOLO, Contumacia (dir. proc. pen.), in Enciclopedia del diritto, 2008, pag. 135.

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5

Nel giudizio di corte d’assise, l’emanazione dell’ordinanza di contumacia presupponeva l’impossibilità di eseguire l’ordine di carcerazione o l’inosservanza dell’obbligo di presentarsi entro cinque giorni al presidente della corte, ambedue contenuti nel provvedimento di rinvio a giudizio: dalla declaratoria de qua decorreva un breve termine per la comparizione dell’imputato, trascorso inutilmente il quale aveva luogo una sorta di fase preparatoria in cui egli avrebbe potuto provare l’esistenza di un legittimo impedimento o la propria minore età. Ad esito del giudizio contumaciale si distingueva a seconda che la condanna fosse stata ad una pena “criminale”5 ovvero ad una pena correzionale o di polizia e, rispettivamente, erano previsti i rimedi straordinari della purgazione e dell’opposizione.

Con la prima si cercava di rimediare alle limitazioni difensive che avevano caratterizzato il giudizio appena concluso6, consentendo la celebrazione di un nuovo dibattimento: tuttavia, con la presentazione del condannato si annullava, sì, la sentenza contumaciale ma, contraddittoriamente, il provvedimento di rinvio e l’atto di accusa, precedentemente emanati in assenza di contraddittorio, conservavano la loro efficacia.

Il rimedio dell’opposizione, invece, prendeva le mosse dall’errore commesso dal giudice istruttore nella ricostruzione o qualificazione giuridica del fatto, errore che provocava l’inappellabilità della sentenza, che avrebbe potuto essere impugnata con gli strumenti ordinari se il procedimento fosse stato incardinato di fronte al giudice competente. A differenza di quanto accadeva con il rimedio della

5 Le pene “criminali” erano ergastolo, reclusione superiore a tre anni ed

interdizione perpetua dai pubblici uffici. Solo in quest’ultimo caso la sentenza diventava esecutiva, mentre l’applicazione di una pena restrittiva non dava luogo ad esecutività poiché la comparizione, volontaria o coattiva, dell’imputato consentiva l’instaurazione del giudizio di purgazione.

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purgazione, nel giudizio di opposizione vigeva un divieto di reformatio in peius, condizionato alla presenza personale del contumace.

Nei giudizi di competenza del pretore e del tribunale, tendenzialmente assimilabili fra loro, l’insussistenza di un legittimo impedimento che potesse giustificare la mancata presentazione dell’imputato all’udienza fissata, dava seguito al giudizio contumaciale, che si svolgeva senza l’apporto di difensore, testimoni, periti e nell’impossibilità di produrre documenti. Per le condanne maggiormente afflittive il rimedio era l’appello - con tutte le limitazioni scaturenti da tale rito - mentre per le condanne inappellabili vigeva l’istituto dell’opposizione che determinava, se l’imputato si fosse presentato ad un’udienza fissata ad hoc, la perdita di efficacia della sentenza contumaciale; in caso contrario la sentenza di condanna emessa ad esito ad un giudizio svoltosi senza la presenza dell’imputato sarebbe stata pienamente esecutiva.

Il codice di rito Finocchiaro Aprile del 19137 non si allontanava dalla visione della contumacia come scelta riprovevole dell’imputato8, fatta propria dal c.p.p. del 1865, ma ne attenuava le conseguenze ammettendo la facoltà di difesa tecnica. Le limitazioni per chi ometteva di presentarsi al giudizio non mancavano poiché era previsto, all’art. 473 c.p.p., che il difensore, pur presente, non avrebbe potuto addurre prove a discarico9, che il giudice non avrebbe potuto disporre d’ufficio assunzioni testimoniali, ed era, altresì, inapplicabile il beneficio della sospensione della pena.

Per i giudizi innanzi a pretore, tribunale e corte d’assise la contumacia era dichiarata previo controllo della rituale notificazione, sentiti il

7 Ricostruisce il dibattito che ha accompagnato il passaggio da un sistema all’altro:

UBERTIS, Dibattimento senza imputato e tutela del diritto di difesa, Giuffrè, 1984, pagg. 11 e seguenti.

8 V. LATTANZI, Costretti dalla Corte di Strasburgo, in Cass. pen., 2005, pag.

1128.

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Si aveva sostanzialmente quello che oggi chiamiamo contraddittorio “sulla” prova già assunta ad iniziativa di altri.

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pubblico ministero e i difensori: nell’ipotesi di non regolare notifica o di grave e legittimo impedimento dell’imputato l’art. 471 c.p.p. prevedeva che il giudice procedente disponesse il rinvio dell’udienza pena, in caso contrario, la rinnovazione degli atti nulli. Una volta pronunciata la declaratoria di contumacia, un’eventuale comparizione dell’accusato prima della discussione finale avrebbe comportato la possibilità di rendere interrogatorio, di presentare documenti ed indicare prove a discarico.

I rimedi per l’abnormità della sentenza contumaciale, fondata su un’istruzione dibattimentale incompleta, erano, come nella disciplina previgente, opposizione e purgazione10.

L’opposizione dipendeva da un’apposita domanda dell’interessato e riguardava le sentenze di condanna inappellabili rese dinanzi al pretore, al tribunale o quelle emanate ad esito di un procedimento rientrante nella competenza della corte d’assise ma non sottoponibili a purgazione: con essa l’accusato otteneva la celebrazione di un processo completamente nuovo ma che non rescindeva totalmente il collegamento col precedente giudizio, poiché vigeva il divieto di reformatio in peius della condanna contumaciale, ex art. 499 c.p.p., salva la facoltà del giudice di riqualificare il fatto secondo una fattispecie più grave.

Fu introdotto in questo codice, per la prima volta, l’istituto della restituzione nel termine11 – restituzione consentita una sola volta nel corso del procedimento – che legittimava a proporre utilmente opposizione la parte che avesse dimostrato, ai sensi dell’art. 126 c.p.p., l’assenza di colpa nella mancata conoscenza della notificazione o, comunque, l’intervento di cause di forza maggiore.

10 V. PANSINI, La contumacia dell’imputato nel diritto processuale penale,

Jovene, 1963, pag. 28.

11

V. ANGELONI, L’istituto della rimessione in termini può travolgere il giudicato

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Diversamente dal codice di rito del 1865, invece, la purgazione, sancita per i processi di competenza di corte d’assise12

, operava in ogni tempo 13 , salva la prescrizione dell’azione penale, ed indipendentemente da qualsiasi manifestazione di volontà del soggetto interessato14. Se il condannato si costituiva in carcere o veniva arrestato, la sentenza contumaciale era automaticamente annullata ed esso aveva diritto ad un nuovo processo in sua presenza ove, però, gli atti compiuti nel giudizio precedente conservavano efficacia, posto che la legge non ne dichiarava espressamente la nullità.

Come nel precedente corpus normativo, dunque, sentenza di rinvio e atto di accusa mantenevano la loro efficacia, dando vita ad un contraddittorio solo apparente che non rimetteva l’imputato nella stessa situazione processuale in cui si sarebbe trovato se avesse partecipato al primo giudizio.

3. Il codice Rocco del 1930

Nella sua stesura originaria il codice di rito del 1930 disciplinava il giudizio contumaciale unitamente al giudizio direttissimo e a quello per decreto, nell’ambito, cioè, dei “giudizi speciali”, agli artt. 497-501. L’art. 498 c.p.p. enunciava i presupposti della contumacia, identificandoli nella mancata comparizione dell’imputato in udienza senza la prova positiva che lo stesso fosse stato impossibilitato a parteciparvi a causa di un legittimo impedimento15, in presenza di una rituale notificazione della vocatio in ius.

12 Il codice del 1930 escludeva l’intervento dei giurati per i processi contumaciali

rientranti nella competenza della corte d’assise.

13 In dottrina venne definita “restitutio giurisdizionale”: cit. MOSCARINI, La

contumacia dell’imputato, Giuffrè, 1997, pag. 4.

14 V. FILIPPI, Rito contumaciale: quale “equo processo”?, in Cass. pen, 2005,

pag. 2193.

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La disciplina del legittimo impedimento determinava l’obbligo di rinvio dell’udienza ogniqualvolta il giudice avesse discrezionalmente ritenuto comprovata

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L’istituto contumaciale in questo codice mutava la sua fisionomia, affrancandosi da quella connotazione negativa che in passato l’aveva caratterizzato, per identificarsi in una mera scelta processuale dell’accusato, non più obbligato a partecipare personalmente al dibattimento e a cui erano garantite l’assistenza da parte di un difensore16 - di fiducia o d’ufficio -, la lettura dei verbali di interrogatori e di ogni altra dichiarazione eventualmente resa dallo stesso nel corso del procedimento e la celebrazione di un giudizio parificato ad uno svoltosi in contraddittorio.

Nonostante fosse stato ispirato da una logica prettamente inquisitoria, il Legislatore del 1930 non prevedeva alcuna sanzione, neppure indiretta, volta a limitare le facoltà probatorie del difensore, o ad escludere l’accusato contumace dal beneficio della sospensione condizionale della pena. Tutto questo non significava, tuttavia, che l’imputato venisse tutelato, dal momento che si era provveduto ad eliminare gli strumenti della purgazione17, opposizione e restituzione nel termine18, che precedentemente erano stati i rimedi approntati a suo

l’assoluta impossibilità di partecipazione del contumace. La valutazione giudiziale, in quanto discrezionale, era insindacabile ed inoppugnabile.

16 La posizione dell’imputato era ritenuta sufficientemente garantita in virtù della

presenza del suo difensore: in tal modo, peraltro, non si teneva conto del fatto che l’intervento del legale non avrebbe mai potuto interamente surrogare il contributo dialettico dell’accusato, onde l’esito di quel giudizio sarebbe risultato sminuito in quanto a credibilità: v. MOSCARINI, La contumacia dell’imputato, Giuffrè, 1997, pag. 153.

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Alla soppressione della purgazione della contumacia si oppose soltanto l’Università di Milano che, per mezzo del suo relatore Grispigni, evidenziò la mancanza di rimedi ad un’abusiva dichiarazione di contumacia ed il rischio che il processo potesse svolgersi senza che l’imputato ne abbia notizia: v. UBERTIS, La

contumacia: finzione e realtà in Argomenti di procedura penale, III, Giuffrè, 2011,

pagg. 220-221; SCAPARONE, Evoluzione ed involuzione del diritto di difesa, Giuffrè, 1980, pag. 17.

18 I motivi di questa scelta venivano enunciati dal guardasigilli Rocco nella

Relazione al progetto preliminare del codice e coinvolgevano l’operato del Legislatore del 1913, ponendone addirittura in dubbio la correttezza: coordinando l’art. 126 c.p.p. del 1913 con l’art. 6 comma 1 delle norme di attuazione, il suddetto istituto, in quanto funzionale all’impugnazione delle decisioni passate in giudicato, finiva col trovare limitata applicazione. Non significativa sarebbe stata, quindi, per l’imputato, la mancata previsione della disciplina restitutoria poiché quelle ipotesi

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favore. Solo impropriamente, infatti, era definito purgazione il rimedio disciplinato dall’art. 501 c.p.p., in base al quale in caso di comparizione dell’imputato nel corso del dibattimento - ma prima dell’inizio della discussione finale - veniva revocata di diritto l’ordinanza dichiarativa della contumacia: tale revoca ex nunc e la conseguente prosecuzione del dibattimento in contraddittorio non potevano, però, essere paragonati agli effetti della purgazione “vera e propria”, così come disciplinata dal codice di rito del 1913, che interveniva dopo la pronuncia della sentenza di condanna determinandone la caducazione.

Quella che emergeva era una contraddizione insita nella stessa struttura codicistica, nella quale da un lato era disciplinato l’istituto dell’assenza - che accordava rilievo all’intenzione dell’imputato, informato dell’esistenza di un procedimento a suo carico, di non prendere parte al dibattimento19 - e dall’altro, con l’eliminazione dei rimedi esperibili contro la sentenza emessa in contumacia, si negava all’accusato l’opportunità di far successivamente valere la propria impossibilità a presenziare al giudizio e la contraria volontà di intervenirvi. Ci si trovava, quindi, di fronte ad un ordinamento totalmente indifferente sia alla mancata partecipazione dell’imputato al processo che ad una sua effettiva conoscenza dello stesso nel quale, benché a prima vista il venir meno dell’obbligo di comparire per il dibattimento poteva far pensare all’emersione di una concezione della contumacia come libera

eccezionali cui la restituzione nel termine sarebbe stata chiamata a far fronte, avrebbero trovato adeguata soluzione tramite la revisione: v. GARUTI, Contumacia,

restituzione nel termine per impugnare e diritto di difesa, in Diritti individuali e processo penale nell’Italia repubblicana, Giuffrè, 2011, pag. 224; CAVALLARI, La restituzione in termine nel sistema processuale penale, Cedam, 1957, pag. 45.

19 L’assenza dell’imputato non produceva effetti particolari: il giudice prendeva atto

della volontà dell’accusato di non presenziare al processo senza essere obbligato ad emanare l’ordinanza declaratoria della contumacia – considerandosi l’imputato come se fosse presente - ed a notificare l’estratto della sentenza contumaciale.

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scelta difensiva, si era giunti, in realtà, ad una svalutazione del principio di autodifesa.

4. (Segue): la riforma del 1955 e le pronunce della

Corte costituzionale

L’insoddisfazione verso il codice Rocco cominciò a farsi strada quando ancora il territorio italiano non era stato completamente liberato dal nazifascismo, per raggiungere la sua massima espressione nel 1948, anno di entrata in vigore della Costituzione repubblicana, portatrice di un nuovo modo di intendere i rapporti tra individuo e Stato. Tra le tante disposizioni degne di nota ivi contenute, per quanto ci interessa, spiccava l’art. 24 Cost., disciplinante il diritto di difesa che, definito inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, garantiva – e tuttora garantisce - ad ogni individuo, in ossequio al principio di uguaglianza enunciato dall’art. 3 Cost., la possibilità di ricorrere al sistema giudiziario per ottenere tutela dei propri diritti soggettivi ed interessi legittimi.

Fu subito chiaro, perciò, che sarebbe stato necessario coordinare il codice di procedura penale con la Costituzione, da un lato eliminando tutte le espressioni dell’autoritarismo fascista, che limitavano i diritti fondamentali dell’individuo nel processo e, dall’altro, tutelando l’imputato quale naturale portatore di un interesse di libertà20

. Durò per quasi un decennio il dibattito in cui si imbatté la dottrina, divisa tra l’alternativa di redigere un nuovo codice o limitarsi ad un’opera di aggiornamento legislativo: questa seconda opzione prevalse, e portò all’emanazione della l. 18 giugno 1955, n. 517. Tale legge pur lasciando inalterato l’impianto codicistico, interessò circa duecento

20 V. COLAO, Processo penale e garanzie dal «limbo» alla «novella» del 1955, in

Diritti individuali e processo penale nell’Italia repubblicana, Giuffrè, 2011, pagg.

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articoli dell’allora vigente codice di rito21, con l’intento di adeguarli alla Carta costituzionale.

Tra le moltissime modifiche22 una coinvolse, eliminandola, la sanzione rappresentata dall’obbligo di costituzione in carcere per il contumace latitante – che fungeva da condizione di ammissibilità per impugnare la sentenza – ed inserì nell’impianto codicistico l’art 183-bis c.p.p. Tale disposizione, nell’ottica di concedere ulteriori garanzie, ripristinava l’istituto della restituzione nel termine, facoltà già prevista dal corpus normativo del 1913 ma non dal codice Rocco23, grazie alla quale le parti potevano essere rimesse, una sola volta nel corso del procedimento, in uno spirato termine decadenziale dietro prova di non avervi potuto adempiere per caso fortuito o forza maggiore. In riferimento all’impugnazione della sentenza contumaciale non era previsto nulla di specifico, ma si riteneva che le condizioni ivi indicate potessero operare anche per tale ipotesi. La scelta effettuata dal Legislatore del 1955 appariva come l’esito di una valutazione politica con cui si era riconosciuto all’interesse della parte un ruolo sovraordinato rispetto al consolidamento delle situazioni processuali. A partire dal 1956, con l’entrata in funzione della Corte costituzionale, cominciò un periodo di nuovi aggiustamenti, volti ad adeguare la normativa processuale ai principi costituzionali: anche la contumacia

21 CHIAVARIO, Procedura penale: un codice tra “storia” e cronaca, Giappichelli,

1996, pagg. 34-35.

22 Tra i punti cardine della novella legislativa si segnalano, a titolo esemplificativo,

la mutazione dell’istruttoria per ammettere la difesa ad una parte più consistente delle attività, la necessità di convalida ad opera della magistratura per gli atti della polizia giudiziaria, una riduzione dei casi di obbligatorietà del mandato di cattura e la fissazione di termini massimi di custodia cautelare: v. COLAO, Processo penale e

garanzie dal «limbo» alla «novella» del 1955, in Diritti individuali e processo penale nell’Italia repubblicana, Giuffrè, 2011, pag. 214.

23 Ritiene che i motivi determinanti la soppressione dell’istituto siano da ricondurre

alla volontà, dichiarata dal Legislatore del 1930 di razionalizzare il codice di rito privilegiando un ordinato sviluppo delle attività processuali e le numerose esigenze collegate all’irrevocabilità del giudicato: GARUTI, Contumacia, restituzione nel

termine per impugnare e diritto di difesa, in Diritti individuali e processo penale nell’Italia repubblicana, Giuffrè, 2011, pag. 225.

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fu oggetto di alcune questioni di legittimità costituzionale, in particolare sotto il profilo della compatibilità con l’art 24 Cost.

La Corte costituzionale nel 196324 salvò l’istituto in commento, affermando che, poiché «la norma del terzo comma dell’art. 497 regola, sostanzialmente, un particolare giudizio che verte sulla volontarietà o meno della mancata presentazione al dibattimento dell’imputato», «tutto il giudizio contumaciale – comunque svolto – non importa alcuna restrizione alla difesa dell’imputato, in quanto la contumacia non è più guardata con quel disfavore di cui un tempo era circondata, ed in quanto al contumace vengono riconosciuti (art. 499 codice di procedura penale) gli stessi diritti di cui gode l’imputato presente nel dibattimento» .

La Consulta, poi, nei primi anni Settanta ha avuto modo di pronunciarsi in merito all’ipotesi di imputato detenuto all’estero25

, ribaltando la costante interpretazione giurisprudenziale dell’art. 497 c.p.p. giusta la quale la detenzione dell’accusato al di fuori dei confini nazionali non poteva integrare un legittimo impedimento, poiché derivante da un comportamento contra ius del soggetto. Il ragionamento della Corte prese le mosse dal fatto che, mentre nel caso di detenzione dell’imputato in Italia è sempre possibile una sua traduzione in giudizio, quando tale soggetto si trova all’estero possono venire in rilievo ipotesi in cui l’estradizione non può tempestivamente operare, perché inammissibile, ovvero non richiesta o non accordata in tempo: come ha correttamente osservato la Corte costituzionale, negare la sospensione o il rinvio del dibattimento in simili casi comporterebbe un’irragionevole disparità di trattamento, in violazione dell’art. 3 Cost.

24 Corte cost. 3 maggio 1963, n. 59 in Giur. cost., 1963. 25

Corte cost, sent. n. 186 del 1973: v. CASSANO – CALVANESE, Giudizio in

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5. Il caso Colozza: una spinta per una revisione del

sistema

La mancata previsione, nel codice del 1930, degli istituti della purgazione e dell’opposizione, ambedue comportanti la totale caducazione del precedente giudizio contumaciale, ha portato gli interpreti a domandarsi come si sarebbe potuto recuperare quel giudizio di primo grado, svoltosi nella lesione del diritto di difesa personale dell’imputato incolpevolmente assente. Le disposizioni della CEDU26 ed i principi elaborati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo hanno rappresentato un faro verso cui il Legislatore italiano ha cercato di arrivare, sia per quanto concerne il profilo dell’effettiva conoscenza del processo da parte dell’accusato, sia per quello della possibilità di riaprire il procedimento dopo la pronuncia di una sentenza passata in giudicato.

L’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, nella sentenza Colozza del 198527, per violazione dell’art 6 comma 1 CEDU28- disposizione che tutela il diritto ad un equo processo - in relazione alla disciplina del giudizio contumaciale, prevista dall’allora vigente codice Rocco, nei riguardi di un imputato giudicato in

26

Trattasi della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, comunemente denominata Convenzione europea dei diritti dell’uomo, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata dall’Italia il 26 ottobre 1955, con l. 4 agosto 1955, n. 848.

27 Corte eur. dir. uomo, 12 febbraio 1985, Colozza v. Italia, in Cass. pen., 1985,

pagg. 1241 e seguenti.

28 Prima della pronuncia relativa al caso Colozza, la Corte di Strasburgo aveva già

esaminato il processo in absentia italiano (Corte eur. dir. uomo, 9 aprile 1984, Goddi

v. Italia) in riferimento ad una lamentata violazione dell’art 6 comma 3 lettere b) e c)

CEDU. Il caso era quello di un imputato detenuto, giudicato in contumacia senza che il suo difensore di fiducia fosse stato avvertito della data fissata per l’udienza e senza permettere al difensore nominato d’ufficio di usufruire del tempo necessario per preparare un’adeguata difesa e cercare di contattare l’assistito. La Corte, pur rilevando una violazione dell’art. 6 comma 3 lett. c) della Convenzione, dal punto di vista della carente tutela del diritto ad un’efficiente difesa tecnica, aveva ritenuto non provata la responsabilità dello Stato italiano in ordine alla mancata partecipazione dell’imputato al suo processo.

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contumacia che dapprima era stato dichiarato irreperibile e, poi, latitante a seguito dell’emissione di tre mandati di cattura rimasti ineseguiti. In tale occasione i giudici di Strasburgo avevano potuto accertare come, in concreto, l’applicazione giurisprudenziale della normativa nazionale italiana avesse condotto ad una situazione in cui l’imputato era stato privato dei diritti sanciti dall’art 6 CEDU: infatti, dovendo essere concessa ad ogni imputato la possibilità di difendersi personalmente, il soggetto condannato in absentia, salva una sua rinuncia non equivoca, deve poter concretamente fruire di un meccanismo in base al quale, una volta presa conoscenza della condanna, possa ottenere che una diversa autorità giudiziaria si pronunci nuovamente, dopo averlo sentito, in ordine alla fondatezza dell’accusa29

.

Colozza, nel caso di specie, dopo essere stato processato in contumacia nel 1976, pur non essendo stato precedentemente informato che nel giugno 1972 era stato aperto un procedimento penale a suo carico, fu condannato a sei anni di reclusione per truffa, diventati definitivi per mancata impugnazione del difensore. Dopo essere stato arrestato, l’imputato proponeva incidente di esecuzione contestualmente ad un appello tardivo affermando di essere stato illegittimamente dichiarato latitante, dal momento che era stato convocato dal commissario di polizia del quartiere in cui risiedeva ed aveva ricevuto vari atti giudiziari per altri procedimenti avviati nei suoi confronti nella nuova abitazione e che, in conseguenza di ciò, le notificazioni del decreto di citazione e della sentenza contumaciale erano nulle30. Dopo aver adito

29 V. VIGONI, Giudizio senza imputato e cooperazione internazionale, Cedam,

1992, pagg. 62 e seguenti.

30

Oltre a questo, Colozza dichiarò di aver vissuto per un certo tempo in albergo, cosa che sarebbe dovuta risultare se le ricerche fossero state effettuate con diligenza.

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16

Tribunale, Corte d’appello e Corte di Cassazione31

, senza ottenere alcun risultato, decideva di rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo32

, ottenendo una pronuncia positiva33.

La Corte di Strasburgo rilevava come il diritto dell’imputato a presenziare al processo, nel silenzio del testo convenzionale34, dovesse essere ricavato, in via interpretativa, «dall’oggetto e dallo scopo» dell’art. 6 CEDU, atteso che i diritti elencati alle lettere c), d) ed e) del comma 3 della stessa disposizione necessitano della presenza dell’accusato per essere espletati35

; si tratta, rispettivamente, di clausole che riconoscono all’accusato la facoltà di difesa personale e di assistenza da parte di un difensore; di interrogare i testimoni a carico e far interrogare quelli a discarico e, infine, di ottenere l’ausilio di un interprete laddove non comprenda o non parli la lingua impiegata in udienza.

31 Nell’ordine, il Tribunale respinse l’incidente di esecuzione, la Corte d’appello

dichiarò l’appello irricevibile, perché tardivo, ed infine la Corte di Cassazione respinse il suo ricorso.

32 La Commissione europea aveva riunito il caso Colozza con quello, analogo, del

ricorrente Rubinat. La Corte europea, però, una volta investita dei due ricorsi, aveva disposto lo stralcio e, successivamente, la radiazione dal ruolo del caso Rubinat, poiché aveva ravvisato nel provvedimento di grazia del Presidente della Repubblica italiana, concesso a tale soggetto, un fatto di natura tale da fornire una soluzione della lite: v. PITTARO, Irreperibilità, latitanza e contumacia: una normativa da ripensare

alla luce di una recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Legisl. pen. 1985, pag. 714; UBERTIS, Latitanza e contumacia secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, in Cass. pen., 1985, pag. 1251.

33 Colozza ottenne dalla Corte di Strasburgo una sentenza che condannava il

Governo italiano alla corresponsione di un indennizzo di sei milioni di lire, sulla scorta dell’allora vigente art. 50 CEDU, ma non ebbe mai un nuovo processo. Morì, infatti, in carcere il 2 dicembre 1983 durante il procedimento davanti alla Corte europea, che era stato proseguito dalla moglie: v. LATTANZI, Costretti dalla Corte

di Strasburgo, in Cass. pen., 2005, pag. 1125.

34 Lo richiama espressamente, invece, l’art. 14 comma 3 lett. d) del Patto

internazionale sui diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo in Italia con l. 25 ottobre 1977, n. 881, che garantisce ad ogni individuo accusato di un reato il diritto ad essere presente al processo ed a difendersi personalmente o mediante un difensore di sua scelta.

35

In dottrina è stata usata l’efficace espressione “diritto-presupposto” per indicare la necessaria consequenzialità tra il diritto alla presenza processuale e le facoltà previste nell’art. 6 comma 3 lett. c), d) ed e) CEDU: v. FRIGO, L’onere probatorio sulla

mancata notifica inceppa la restituzione automatica dei termini, in Guida al diritto,

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17

La Corte ebbe anche modo di precisare che ogni Stato membro è libero di prevedere la celebrazione di un processo in assenza dell’imputato – per evitare inquinamenti probatori, la prescrizione dell’illecito o la paralisi dell’azione penale – ma, quando ciò accade, è di fondamentale importanza che tale soggetto, previamente messo a conoscenza dell’imputazione elevata a suo carico, abbia rinunciato inequivocabilmente alla partecipazione al processo36, ovvero che, una volta conosciuto il procedimento a suo carico, sia per lui possibile «ottenere che un giudice si pronunci di nuovo, dopo averlo ascoltato, sulla fondatezza dell’accusa mossagli»37

. Agli Stati è lasciata un’ampia libertà nella scelta dei mezzi da apprestare per consentire al loro sistema di conformarsi all’art. 6 comma 1 CEDU: detti mezzi devono, però, risultare effettivi e non far ricadere sull’accusato l’onere di provare che non intendeva sottrarsi alla giustizia ovvero che la sua assenza è dipesa da un caso di forza maggiore. In altri termini, chi deve provare che l’imputato ha rinunciato all’esercizio di un suo diritto è lo Stato.

Nel giungere ad una pronuncia positiva per il ricorrente, la Corte negava l’esistenza di un obbligo di collaborazione dell’imputato, non onerato di comunicare alle autorità locali il cambiamento di residenza: appurato, infatti, che Colozza non aveva usufruito in nessuno stadio del procedimento «della possibilità di essere udito da un tribunale dotato di piena giurisdizione e che si riunisse in sua presenza»38”, i

36 La Corte di Strasburgo chiarì che la rinuncia deve emergere in maniera non

equivoca, non potendo mai, ad esempio, essere desunta, presuntivamente, dalla semplice qualifica di latitante.

37 Questi principi ricalcano alcuni di quelli previsti dalla Risoluzione n. 11, adottata

il 21 maggio 1975 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, contenente nove regole minime che dovrebbero essere rispettate da quegli ordinamenti che prevedono un processo senza imputato.

38 Sottolinea l’importanza di ciò anche la Convenzione europea sulla validità

internazionale dei giudizi repressivi, adottata a L’Aia il 28 maggio 1970 e ratificata dal nostro Paese con l. 16 maggio 1977, n. 305, la quale, agli artt. 21 e seguenti, si oppone all’esecuzione di una sentenza in contumacia se l’imputato non ha prima

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18

giudici di Strasburgo ritennero «manifestamente sproporzionato, avuto riguardo al ruolo eminente che il diritto ad un equo processo occupa in una società democratica», far ricadere su di lui la responsabilità per non aver reso noto il nuovo domicilio. I motivi di tale affermazione erano, da un lato, l’incertezza in merito alla conoscenza dell’accusato dell’apertura di un procedimento a proprio carico39

e, dall’altro, il fatto che la legge italiana punisse la mancata comunicazione all’autorità del cambio di domicilio con una mera sanzione amministrativa. Per la Corte il giudice competente, prima di occuparsi della fondatezza o meno dell’accusa, avrebbe dovuto verificare se erano state rispettate le disposizioni da osservare per dichiarare legittimamente la latitanza e notificare ritualmente atti del procedimento; ritenne, altresì, inconcepibile che ricadesse sull’interessato l’onere di dimostrare che non aveva inteso sottrarsi alla giustizia.

Dal punto di vista dei rimedi a favore dell’imputato giudicato in contumacia, nella sentenza veniva evidenziata la mancanza, nell’allora vigente disciplina processuale italiana, di una normativa ad hoc che eliminasse il pregiudizio in cui si fosse trovato il contumace, privato delle sue garanzie difensive, 40 garantendogli, al contempo, la possibilità di un nuovo giudizio in sua presenza una volta che avesse

beneficiato di un processo in contraddittorio: v. PITTARO, Irreperibilità, latitanza e

contumacia: una normativa da ripensare alla luce di una recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Legisl. pen., 1985, pag. 720; UBERTIS, Latitanza e contumacia secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, in Cass. pen.,

1985, 1250.

39 I giudici italiani avevano ritenuto, semplicemente, che Colozza dovesse esserne al

corrente grazie alle notificazioni depositate nelle cancellerie del giudice istruttore e del tribunale.

40 Per sopperire a tale lacuna la giurisprudenza, nelle ipotesi di mancanza, nullità o

inesistenza della notificazione dell’estratto contumaciale, aveva elaborato l’istituto dell’appello tardivo che, nella prassi, aveva, però, fatto sorgere numerose problematiche in ordine all’individuazione delle questioni sulle quali avrebbe potuto legittimarsi l’intervento giudiziale successivamente alla scadenza del termine per impugnare, rispetto all’area devoluta alla cognizione del giudice dell’esecuzione: v. MANGIARACINA, Garanzie partecipative e giudizio in absentia, Giappichelli, 2010, pag. 245.

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19

avuto conoscenza del procedimento iniziato a suo carico41, tenuto conto che le condizioni per ottenere la restituzione del termine erano eccessivamente rigorose e negavano al condannato, il più delle volte, la fruizione di tale inviolabile diritto42.

In sede di analisi della pronuncia fu nitidamente rilevato che la Corte europea dei diritti dell’uomo si era attestata su una posizione ancora più avanzata di quella accolta dalla Risoluzione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa del 1975: infatti, mentre in base alla Regola n. 9 di detta Risoluzione l’imputato giudicato in contumacia ha diritto ad ottenere la celebrazione di un nuovo processo unicamente qualora fornisca la prova che la sua assenza ed il mancato preavviso dell’impedimento sono stati dovuti ad una causa indipendente dalla propria volontà, la Corte, nella sentenza de qua, si è spinta oltre, ritenendo che il riconoscimento di questo diritto prescindesse da una simile dimostrazione, eccettuata solo l’ipotesi di un’espressa rinuncia da parte dell’interessato43

.

La dottrina sottolineò come, dal tenore delle affermazioni della Corte e dalla normativa delle Convenzioni internazionali, non potesse

41

V. LUCENTE, Contributo della Corte europea dei diritti umani all’evolversi

della restituzione in termine nel processo penale italiano, in www.sioi.org/Sioi/Lucente.pdf.

42 La normativa del c.p.p. del 1930 rendeva, altresì, estremamente difficoltosa

l’estradizione verso l’Italia di soggetti giudicati in absentia dai nostri organi giudiziari. Numerosi Stati, infatti, rifiutavano di acconsentire all’estradizione, rilevando come la nostra legislazione non offrisse agli individui condannati in contumacia una reale possibilità di ottenere la celebrazione di un nuovo processo, bensì vanificasse il diritto, spettante ad ogni soggetto, salvo sua volontaria rinuncia, di difendersi personalmente di fronte ai magistrati che lo devono giudicare. L’estradizione, in ogni modo, poteva essere accordata, se lo Stato richiedente si impegnava a garantire all’estradando il diritto ad un nuovo processo con l’osservanza dei diritti di difesa: v. RIVELLO, La vicenda Somogyi di fronte alla Corte di

Cassazione: un’importante occasione di riflessione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007,

pag. 1093.

43 Considerando rinunciabile il diritto soggettivo dell’imputato ad essere presente al

proprio processo, la Corte trascurava il valore oggettivo della presenza processuale di tale persona e l’essenzialità del contraddittorio dal punto di vista “epistemologico”, finalizzato al raggiungimento di un più attendibile accertamento della res iudicanda: v. MOSCARINI, Il giudizio in absentia nell’ottica delle giurisdizioni internazionali

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20

desumersi l’obbligo di introdurre un meccanismo diretto a configurare la successiva rinnovazione del giudizio come una sorta di passaggio automatico – alla stregua della purgazione, delineata dalla più remota legislazione in materia – potendosi, invece, limitare l’adozione di uno strumento garantistico a quelle ipotesi in cui l’assenza dell’imputato ed il mancato tempestivo preavviso concernente l’impossibilità da parte dello stesso di partecipare al giudizio non siano stati intenzionalmente provocati.

6. Il codice di procedura penale del 1989

Dopo la condanna in sede europea, l’ordinamento italiano provò ad allinearsi al dictum della Corte di Strasburgo e, nel farlo, cercò di rendere più garantita la presenza dell’imputato configurandola, non più, come quella di un semplice spettatore interessato, bensì quale quella di un protagonista attivo della vicenda processuale.

Inizialmente ciò avveniva con la l. 23 gennaio 1989, n. 22, recante “Nuove norme sulla contumacia”, elaborata contestualmente al nuovo codice di procedura penale44 di cui, almeno in parte, anticipava le soluzioni: la legge de qua interpolava l’art. 183-bis c.p.p. 1930 prevedendo, in caso di sentenza contumaciale o di decreto penale di condanna, la possibilità di formulare richiesta di restituzione nel termine per proporre impugnazione od opposizione anche da parte dell’imputato che avesse provato di non aver avuto effettiva conoscenza del provvedimento a suo carico, sempre che non risultasse

44 Al momento dell’emanazione della l. 23 gennaio 1989, n.22 il codice Vassalli era

in attesa di entrare in vigore, essendo già stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale: la sua disciplina ha trovato corrispondenza in quella contenuta nel codice previgente dopo le modificazioni apportate dalla l. n. 22 del 1989. Entrambe hanno, senza successo, cercato di conformarsi alle indicazioni della Corte europea: V. LATTANZI, Spunti critici sulla disciplina del processo contumaciale, in Legisl.

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21

che egli si fosse sottratto volontariamente alla conoscenza degli atti45 o che il fatto fosse dovuto a sua colpa.

A partire dal 24 ottobre 1989 fu il nuovo codice di procedura penale a valere in subiecta materia: esso, infatti, disciplinava in modo innovativo la contumacia, il potere di impugnazione della sentenza emessa in absentia da parte del difensore, l’istituto della restituzione nel termine per impugnare una sentenza contumaciale ed ampliava i casi di rinnovazione in appello dell’istruzione dibattimentale, allo scopo di garantire alla parte incolpevolmente assente quel “nuovo processo” richiesto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo quale presupposto per riconoscere la validità di una condanna in contumacia. Il Governo della Repubblica era stato delegato, mediante legge delega 16 febbraio 1987, n. 81, ad emanare un nuovo codice di procedura penale, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle disposizioni delle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e, con specifico riguardo al tema che qua ci interessa, l’art. 2 n. 77 della legge delega prevedeva «l’obbligo di sospendere o rinviare il dibattimento quando risulti che l’imputato o il difensore sono nell’assoluta impossibilità di comparire per legittimo impedimento».

In attuazione della delega46, con il d.P.R. 22 settembre 1988, n. 447, la disciplina della contumacia venne originariamente inserita negli artt.

45 Tale disposizione era conforme al disposto di cui all’art. 2, n. 82 della legge

delega 16 febbraio 1987, n.81, che configurava il “diritto della persona giudicata in contumacia di essere restituita nel termine per proporre impugnazione, quando la mancata conoscenza del provvedimento da impugnare non dipende da sua colpa”: v. RIVELLO, La vicenda Somogyi di fronte alla Corte di Cassazione: un’importante

occasione di riflessione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, pag. 1094.

46

Diversamente da quanto era avvenuto prima dell’approvazione del codice del 1913, durante i lavori preparatori del codice Vassalli il tema della contumacia non è stato adeguatamente considerato complici, forse, il limitato interesse della dottrina e la mancanza di proposte significative. Il Legislatore ha omesso di affrontare il problema di fondo che la contumacia pone in un sistema tendenzialmente accusatorio: se, infatti, il processo è una contesa ad armi pari fra parti contrapposte, non è concepibile che il dibattimento si svolga mancando l’intervento personale dell’imputato, a meno che la non comparizione derivi da una scelta cosciente e volontaria : v. LATTANZI, Costretti dalla Corte di Strasburgo, in Cass. pen., 2005,

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22

486 e 487 c.p.p., riguardanti la fase del dibattimento e, poi, a seguito delle modifiche introdotte dagli artt. 19 e 39 della l. 16 dicembre 1999, n. 479, fu ricollocata negli artt. 420-ter e 420-quarter c.p.p., relativi all’udienza preliminare, ma applicabili anche alla fase dibattimentale in forza del rinvio contenuto nell’art. 484 comma 2-bis c.p.p..

Agli artt. 420-bis e 420-ter c.p.p. era previsto il rinvio del dibattimento, non solo in mancanza di una valida notificazione dell’atto di citazione a giudizio od in presenza della prova di un legittimo impedimento dell’imputato ma, anche, allorché apparisse probabile che esso non avesse avuto conoscenza di tale atto – fuori dai casi di notificazione a norma degli artt. 159, 161, comma 4 e 169 c.p.p. – o che la sua assenza fosse dovuta ad un’assoluta impossibilità di comparire.

All’art. 175 comma 2 c.p.p. venivano disciplinate due fattispecie in cui l’imputato giudicato in contumacia aveva diritto47

ad essere restituito nel termine per impugnare la sentenza contumaciale o per opporsi avverso il decreto penale di condanna: da un lato, quando avesse provato di non avere avuto effettiva conoscenza del provvedimento, sempre che l’impugnazione non fosse stata proposta dal difensore ed il fatto non fosse dipeso da sua colpa48; dall’altro, nell’ipotesi di sentenza contumaciale notificata con il rito degli irreperibili - mediante consegna al difensore nei casi previsti dagli artt. 159, 161 comma quarto, e 169 - se non si fosse sottratto volontariamente alla

pag. 1128; MARZADURI, Sulla necessità di una riforma del giudizio in contumacia, in Cass. pen., 2004, pag. 612.

47

Mentre l’art. 183-bis c.p.p. adottava la dizione “possono essere restituiti”, l’art. 175 comma 2 c.p.p., utilizzando l’espressione “sono restituiti”, evidenzia la sussistenza di un vero e proprio diritto: v. GARUTI, La restituzione nel termine, Cedam, 2000, pag. 18.

48

L’assenza di colpa nell’ipotesi di mancata conoscenza della decisione contumaciale si aveva se l’imputato avesse correttamente adempiuto a tutti gli oneri relativi alla dichiarazione o elezione di domicilio per le notificazioni, compresa la comunicazione di eventuali mutamenti: v. GARUTI, La restituzione nel termine, Cedam, 2000, pagg. 115 e 116.

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23

conoscenza degli atti del procedimento. Quanto alle condizioni per attivare la procedura, l’istanza andava presentata al giudice procedente, a pena di decadenza, entro dieci giorni dal momento in cui era cessato il fatto costituente caso fortuito o forza maggiore, ovvero da quello in cui l’imputato aveva avuto effettiva conoscenza dell’atto.

Così connotato l’istituto de quo, riconducibile alla categoria dei rimedi processuali - mediante i quali si tende a rimuovere situazioni anomale ed ostative alla realizzazione delle finalità connesse al compimento delle attività procedimentali49 - configurava uno strumento di tutela della corretta amministrazione della giustizia e di garanzia per le parti. Sotto il profilo impugnatorio, la l. n. 22 del 1989 e l’originaria previsione del codice del 1989 stabilivano, all’art. 571 comma 3 c.p.p., che, contro una sentenza contumaciale, il difensore dell’imputato, di fiducia o d’ufficio, potesse proporre impugnazione solo se munito di “specifico mandato50”, al fine di evitare che un eventuale esercizio del potere di impugnazione da parte del legale del contumace potesse vanificare il diritto di impugnazione dell’imputato, dapprima ignaro del procedimento a suo carico e venuto a conoscenza della condanna solo in seguito all’arresto per l’esecuzione della pena. E’ evidente, quindi, una chiara volontà da parte del Legislatore di rendere l’impugnazione del difensore effettivamente riconducibile all’imputato. Tuttavia, a distanza di circa dieci anni dall’entrata in vigore del codice, l’art. 46 della l. 16 dicembre 1999, n. 479 ha abrogato la necessità dello specifico mandato al fine di impugnare la sentenza contumaciale poiché si è ritenuto che potesse costituire un’indebita limitazione per il difensore51

: aumentarono, in questo

49 V. GARUTI, La restituzione nel termine, Cedam, 2000, pag. 18. 50

La dottrina, talora, equiparava la nozione di “specifico mandato” a quella di procura speciale, il cui rilascio presuppone l’avvenuta pronuncia del provvedimento alla cui impugnazione è funzionale il conferimento della procura speciale.

51

L’eliminazione della previsione dello specifico mandato, quale presupposto del potere del difensore di proporre impugnazione senza, però, occuparsi

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24

modo, i casi in cui la persona condannata, senza averne avuto conoscenza, si è trovata nell’impossibilità di ottenere un nuovo processo e, parallelamente, l’avvocatura è stata gravata dell’onere di proporre impugnazione avverso tutte le condanne contumaciali, anche al fine di scongiurare possibili forme di responsabilità disciplinare, con indubbi effetti inflattivi del complessivo carico penale.

Il nuovo codice di procedura penale ampliava, inoltre, all’art. 603 comma 4 c.p.p., i casi di rinnovazione in appello dell’istruzione dibattimentale; veniva, quindi, accordata all’imputato già contumace che avesse provato di non aver avuto, senza colpa, conoscenza della citazione a giudizio, di non essere potuto comparire per caso fortuito o forza maggiore ovvero, nel caso di notifica con il rito degli irreperibili – con atto di consegna al difensore nei casi previsti dagli artt. 159, 161, comma quarto e 169 c.p.p. – di non essersi sottratto volontariamente alla conoscenza degli atti del procedimento. Infine, ai sensi dell’art. 489 c.p.p., previa dimostrazione di non aver avuto conoscenza del processo, il contumace poteva chiedere di rendere dichiarazioni anche quando era in corso il giudizio di cassazione o quello di revisione, oppure nella fase dell’esecuzione.

L’impressione, nei primi anni di vigenza del nuovo codice di rito, fu quella di aver raggiunto una soluzione soddisfacente, dal momento che c’era stato un avallo da parte della Commissione europea dei diritti dell’uomo che, il 10 settembre 1997, dichiarando irricevibile il ricorso Chindamo52, pareva aver, implicitamente, ammesso l’efficacia della

dell’armonizzazione dell’art. 571 c.p.p. con l’art. 175 c.p.p., nella parte in cui escludeva la restituzione del termine in caso di impugnazione del difensore, ha destato perplessità in dottrina: v. QUATTROCOLO, sub art. 46 l. 479/1999, in

Legisl. pen, 2000, pag. 558.

52 Nel caso di specie il ricorrente, quasi contestualmente ai fatti che avevano

determinato il suo rinvio a giudizio, si era recato in Spagna e, perciò, era stato condannato in contumacia. Una volta arrestato aveva proposto istanza di restituzione nel termine, che fu respinta dalla Corte d’appello di Milano in virtù della scadenza del termine perentorio di dieci giorni previsto dal codice: decise, dunque, di adire gli organi europei. La Commissione europea dichiarò, però, il ricorso irricevibile, dando

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restituzione in termini. Tuttavia, nonostante le buone intenzioni del Legislatore, la nuova disciplina della contumacia fu giudicata negativamente dalla dottrina, che osservò come l’adozione del processo contumaciale contrastasse con il modello accusatorio a cui il nuovo codice avrebbe dovuto ispirarsi poiché, risultando maggiormente congeniale ad un sistema inquisitorio53, impediva, di fatto, l’effettiva realizzazione del principio del contraddittorio.

Anche il “controllo” ad opera degli organismi europei ebbe esito negativo. Primo ad esprimersi fu il Comitato dei diritti umani dell’ONU con un parere del 199954

, ove si ritenne integrata da parte dell’Italia la violazione dell’art. 14 comma primo del Patto internazionale dei diritti civili e politici, nell’ambito di un processo contumaciale terminato con la condanna dell’imputato. Il Comitato affermò che, nel caso di celebrazione di un processo in absentia, occorre che l’imputato sia convocato in tempo ed informato dell’avvio di un procedimento penale nei suoi confronti, gravando sullo Stato contraente l’onere di dimostrare l’osservanza di tali principi. L’Italia non essendo stata in grado, a detta di tale organismo, di fornire tale prova, e non avendo concesso al Sig. Malaki la possibilità di essere sottoposto ad un nuovo processo in sua presenza, una volta consegnato

ragione ai giudici italiani: v. MILANI, Il processo contumaciale tra garanzie

europee e prospettive di riforma, in Cass. pen., 2009, pag. 2182.

53

Parla di processo contumaciale come damnosa hereditas del sistema inquisitorio: FILIPPI, Rito contumaciale: quale “equo processo”?, in Cass. pen., 2005, pag. 2194.

54 Trattasi del parere emanato in data 27 luglio 1999, sul caso Ali MalaKi v. Italia,

in cui l’imputato, un camionista iraniano discutibilmente dichiarato latitante, informato dal suo avvocato in merito al procedimento avviato in Italia nei suoi confronti, fu condannato a dieci anni di reclusione per reati in materia di stupefacenti in base ad un’intercettazione telefonica. Il Comitato ha ritenuto che l’avviso dato dal difensore all’assistito fosse palesemente insufficiente, poiché spettava al tribunale che ha trattato la causa l’onere di verificare se l’autore fosse stato informato della pendente lite, prima di procedere al processo contumaciale: v. Cass. Pen., 2000, pagg. 2487 e seguenti.; THOMAS, Il diritto dell’imputato a partecipare al processo

nella giurisprudenza del Comitato dei Diritti Umani, in www.sioi.org/Sioi/Thomas.pdf.

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26

alle autorità italiane, fu condannata per aver violato il diritto dell’imputato ad essere giudicato in sua presenza.

Il monito del Comitato dei diritti umani dell’ONU, sebbene in linea con la propria consolidata giurisprudenza e con quella della Corte di Strasburgo, rimase tuttavia pressoché inascoltato, probabilmente perché il nostro Paese aveva erroneamente ritenuto di essersi adeguato agli obblighi internazionali con l’emanazione del nuovo codice di procedura penale55.

7. La Corte di Strasburgo ricondanna l’Italia: il caso

Somogyi

L’insoddisfazione per la nuova disciplina dei giudizi in absentia crebbe sempre più, fino a sfociare in due importantissime pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo56

che, a distanza di poco tempo l’una dall’altra, mostrarono i difetti strutturali del sistema processuale italiano e guidarono il Legislatore verso una riforma del sistema.

55

V. LATTANZI, Spunti critici sulla disciplina del processo contumaciale, in

Legisl. pen., 2004, pag. 599.

56 Ci si riferisce alle sentenze Somogyi v. Italia e Sejdovic v. Italia, ambedue del

2004. Va comunque segnalato che, prima di esse, nella pronuncia F.C.B v. Italia del 28 agosto 1991 la Corte di Strasburgo aveva rilevato una violazione della Convenzione da parte dell’autorità giudiziaria italiana, rea di aver ritenuto, presuntivamente, che l’imputato assente avesse rinunciato a partecipare al processo, senza aver verificato, in concreto, se questi fosse stato effettivamente consapevole dell’instaurazione del giudizio o se la sua rinuncia fosse stata non equivoca. Riproponendo i rilievi già esposti nel caso Colozza ribadì, altresì, che non era possibile “sanzionare” l’imputato, che aveva omesso di comunicare le variazioni di domicilio, fino al punto di negargli la fruizione di un giudizio equo: v. QUATTROCOLO, Contumacia (dir. proc. pen.), in Enciclopedia del diritto, 2008, pag. 153.

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27

Il caso Somogyi57 rappresentò il primo monito con cui la Corte di Strasburgo, ribadendo sostanzialmente quanto enunciato nella sentenza Colozza, condannò lo Stato italiano per violazione dell’art. 6 CEDU. La vicenda era quella di un cittadino ungherese, Tamas Somogyi, arrestato in Austria ed estradato in Italia, all’esito di un dibattimento svoltosi senza la sua partecipazione, nell’ambito di un processo per violazione delle normative sulle armi.

La dichiarazione di contumacia derivava dalla non presentazione dell’accusato all’udienza preliminare ed al dibattimento, nonostante il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Rimini gli avesse notificato l’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, mediante lettera raccomandata 58 tradotta nella sua lingua, ed egli, apparentemente, avesse restituito la ricevuta di ritorno firmata. Rappresentato da un difensore d’ufficio era stato, allora, processato in absentia e condannato ad otto anni di reclusione e ad oltre due milioni di multa, con sentenza diventata definitiva il 22 giugno 1999 per mancata interposizione di appello da parte del legale rappresentante. Giunto in Italia, dopo esser stato arrestato in Austria ed estradato verso il nostro Paese, ricorse dinanzi alle giurisdizioni nazionali sostenendo di dover essere rimesso nei termini, ai sensi dell’art. 175 c.p.p., per impugnare la sentenza di condanna, della cui emanazione era rimasto totalmente ignaro: non ottenne, però, alcuna pronuncia positiva59.

57 V. Corte eur. dir. uomo, 18 maggio 2004, Somogyi v. Italia, in Cass. pen., 2004,

pagg. 3797 e seguenti con nota di TAMIETTI, Iniquità della procedura

contumaciale ed equa riparazione sottoforma di restitutio in integrum: un passo verso un obbligo giuridico degli Stati membri alla celebrazione di un nuovo processo?.

58 La notifica era stata effettuata mediante posta, secondo Somogyi, in violazione

delle disposizioni contenute nella Convenzione tra Italia e Ungheria del 1977 e senza far uso, in via alternativa, dei meccanismi previsti dalla Convenzione europea di mutua assistenza legale in materia penale: v. RIVELLO, La vicenda Somogyi di

fronte alla Corte di Cassazione: un’importante occasione di riflessione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, pag. 1072.

59

Somogyi eccepiva, tramite un difensore di fiducia nel frattempo nominato, la nullità dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, poiché disconosceva sia la

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28

Decise, pertanto, esauriti i mezzi di impugnazione previsti dall’ordinamento statale ai sensi dell’art. 34 CEDU, di rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, lamentando la celebrazione di un processo non conforme ai principi del fair trial, così come disciplinato all’art. 6 CEDU, perché l’Italia aveva emesso una pronuncia di condanna senza mai fornirgli la possibilità di conoscere dell’esistenza di azioni penali promosse contro di lui e, conseguentemente, di far valere le proprie ragioni.

La Corte di Strasburgo, in data 18 maggio 2004, ravvisò una violazione della normativa convenzionale da parte del nostro Paese, poiché si incorre in un diniego di giustizia se un individuo, condannato in absentia, «non possa ottenere che una giurisdizione deliberi di nuovo, dopo che egli sia venuto a conoscenza del fondamento dell’accusa, in fatto ed in diritto».

Nel suo iter argomentativo la Corte europea si è focalizzata sul cuore della causa: la paternità o meno della firma60 apposta sulla ricevuta di ritorno della lettera raccomandata, unico elemento suscettibile di provare se l’imputato fosse stato o meno informato dell’instaurazione del processo nei suoi confronti. La Corte, non essendo chiamata a pronunciarsi sull’esattezza dell’identificazione fisica del condannato ma dovendo verificare se, nel suo insieme, la condanna in contumacia dell’interessato avesse leso i principi dell’art. 6 CEDU, ritenne non manifestamente infondate le argomentazioni del ricorrente – che aveva ripetutamente contestato la firma apposta sulla ricevuta di ritorno - in

firma sia l’indirizzo indicati sulla cartolina di ritorno. Tutte le istanze furono respinte dalle autorità giudiziaria italiane.

60 Il nome del firmatario risultava essere Thamas e non Tamas e gli errori

sull’indirizzo di recapito potevano ingenerare un effettivo dubbio, vista la quasi omonimia di due località ungheresi. Parlano degli errori commessi dai giudici italiani, a partire dalla non compiuta perizia grafologica: UBERTIS, Come rendere

giusto il processo senza imputato, in Legisl. pen., 2004, pag. 606; TAMIETTI, Un ulteriore passo verso una piena esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo in tema di equo processo: il giudicato nazionale non è di ostacolo alla riapertura dei processi, in Cass. pen., 2007, pagg. 1036 e 1037.

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quanto la rinuncia ad un diritto garantito dalla Convenzione deve essere non equivoca. Nel caso di processo contumaciale, infatti, la normativa convenzionale richiede che sia accertato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il condannato sia stato effettivamente e ritualmente informato della natura e dei motivi dell’accusa e del luogo e del giorno dell’udienza.

In linea con la giurisprudenza espressa nel caso Colozza, la Corte ribadì che il processo in absentia non è, di per sé, incompatibile con l’art. 6 CEDU ma, ove non sia stabilito in modo non equivoco che il condannato abbia rinunciato al suo diritto di comparire e difendersi, si concreta un diniego di giustizia se egli non può, successivamente, ottenere che l’autorità giudiziaria decida di nuovo, dopo averlo ascoltato, sul fondamento dell’accusa. Nell’ipotesi di dubbio circa l’effettiva conoscenza da parte dell’imputato della pendenza di un processo penale a proprio carico e della data di fissazione dell’udienza, come nel caso di specie, spetta all’autorità giudiziaria procedere alle verifiche del caso, quando, su questo punto, sia sorta una contestazione che non appare prima facie immediatamente e manifestamente infondata.

Dunque, alla stregua di siffatte considerazioni, la Corte ritenne che, nell’affaire in oggetto, le circostanze della consegna relativa all’avviso per l’udienza preliminare fossero rimaste incerte 61

e che, una conoscenza vaga ed ufficiosa, come quella di Somogyi sulla vicenda giudiziaria che lo vedeva protagonista, (aveva avuto notizia del procedimento poiché era stato intervistato da un giornalista) non fosse certamente conforme ai principi dell’equo processo62.

61

V. MOSCARINI, Condanna in contumacia e restituzione nel termine per

impugnarla: la Cassazione penale “ridecide” il caso Somogyi, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, pag. 418.

62

La Corte europea dei diritti dell’uomo aveva già enunciato come fosse necessario avvisare in modo chiaro e preciso l’imputato delle imputazioni elevate a suo carico

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