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Umiltà, carità, obbedienza, allegria

Nel documento e Superiora generale dell’Istituto FMA (pagine 22-27)

Sono le note distintive della comunità di Mornese che, impian-tate da suor Angela nelle prime comunità d’America, danno i loro frutti di santità, se di una delle più umili e nascoste tra queste prime missionarie FMA don Cagliero ebbe a dire: «Non fa miracoli perché non vuole».30

Sono le virtù cristiane fondamentali, vissute da suor Angela come se le fossero connaturali. «Il silenzio non è tanto osservato in questa casa: la colpa è veramente mia; ho dato occasione al rilassamento e non sono capace di rimediare!» (L 34). Lei, così fedele alla Regola, secondo le testimonianze riportate dalle biografie, in quelle situazioni estreme di vita e di lavoro, si addossa le debolezze comunitarie, pre-occupata solo che si mantenga lo spirito delle origini. È sicura, infatti, che la fecondità apostolica viene da questa sorgente.

Quando nel 1913 è ormai a Nizza Monferrato e capisce che vi deve rimanere perché le energie vitali sono ormai esaurite, continua a scrivere alle sorelle lasciate a Punta Arenas. È come la preoccupa-zione di una madre che i suoi figli crescano bene e non devìino dalla strada su cui l’amore li ha incamminati.

A suor Felicita Genoni, direttrice della comunità a Punta Arenas, scrive: «Oh, rallegriamoci mentre abbiamo lavoro, perché è una ere-dità lasciataci da Don Bosco [...]. È da desiderare che si unisca al la-voro la preghiera ben fatta [...]. Con questo raggiungiamo la bella virtù della carità, tanto desiderabile nelle nostre case» (L 131).

Un mese prima della morte, ancora a suor Felicita consiglia:

«Abbia molta carità con le Sorelle; e lei, Suor Felicina, procuri di dis-simulare quando una cosa è solo una mortificazione del suo amor proprio» (L 169).

Grande sapienza: umiltà, carità, verità su se stessi, capacità di discer-nimento spirituale, equilibrio, le vengono dall’esperienza di vita co-munitaria vissuta con lo sguardo al mistero del Dio-Amore che le si fa incontro nei fratelli e nelle sorelle.

Sembra di ascoltare S. Paolo quando suor Angela scrive: «E tu, mia cara sorella, sta’ allegra sempre nel Signore» (L 62). Rimangono in lei ben distinte la pace del cuore e la fiducia nel Signore dall’assenza di problemi e difficoltà.

Come in S. Maria Mazzarello, molto spesso torna nelle lettere l’invito all’allegria, che sempre nasce dalla certezza di un futuro felice.

L’acuto senso della precarietà del vivere, che sempre accompagna suor Angela, le è motivo non di tristezza, ma di grande serenità e conforto.

«La morte verrà quando meno penseremo. Amiamo Gesù, ma pro-prio di cuore, e Gesù sarà la nostra consolazione in punto di morte»

(L 146).

Riguardo ai genitori, scrive alla sorella: «Amali e tienili allegri nel Signore» (L 150).

Interessante la riflessione sull’obbedienza: chiede a don Bosco che mandi una suora a sostituirla nel compito direttivo, perché le pare

«che sia più facile l’andare in Paradiso per la via dell’obbedienza, che non per quella del comando» (L 6 ).

In altra lettera raccomanda alla sorella: «Quello che devi fare è ubbi-dire sempre al confessore e sta’ certa [...] che non la sbaglierai» (L 51).

Ad un certo punto della vita pareva che la sorella si orientasse alla vita religiosa e suor Angela le scrive: «Intanto preparati con buona volontà a obbedire [...]. Incomincia dunque a vivere obbediente a tutto ciò che Iddio dispone» (L 151).

Alla nipote, che era entrata nel postulato a Nizza, scrive: «Sii umile, obbediente, rispettosa» (L 159).

Suor Angela non aveva studiato teologia spirituale, ma ascoltava la voce del Maestro interiore e andava all’essenziale. L’impossibilità di tornare alla missione per l’eccessiva debilitazione fisica le è causa di sofferenza profonda che solo la fede può consolare e che finalmente si esprime in alcune lettere alle consorelle che in America avevano condiviso con lei vita e fatiche apostoliche. «“Il tuo volere si faccia,

Signore, non il mio. Al tuo amaro calice bere voglio anch’io”. È una giaculatoria che mi è toccata nell’estrarre a sorte la massima del mese.

Bella, e a proposito» (L 132). E dopo qualche riga: «Devo dirle che ho molta nostalgia e che ci sono giorni in cui piango molto, e alcune notti non dormo quasi niente. Con questo ho detto tutto».

Lo strappo definitivo dalla terra che era diventata la sua, dagli indigeni ai quali aveva donato tutta la forza della sua maternità do-vette essere per lei un dolore umanamente insopportabile, ma a una sua figlia spirituale in Punta Arenas, suor Adela Alarcón, scrive: «È vero che i miei pensieri non solo vanno lì, ma sono quasi sempre lì.

Però cerchiamo di essere buone e facciamo sempre con piacere la santa volontà di Dio» (L 134).

4.4 “Nati nello stesso focolare carismatico”:

il lavoro apostolico con i Salesiani

Meriterebbe ben altro approfondimento il tema del lavoro d’in-sieme tra FMA e SDB soprattutto nei primi tempi della presenza missionaria in luoghi di frontiera, in condizioni estreme di vita, che oggi hanno dell’incredibile, dove tutto manca e tutto è da inventare, da impiantare..., dovendo inoltre difendersi dagli attacchi anticlericali e dagli indigeni sospettosi dei bianchi.

I Salesiani, invitati, attraverso don Bosco, dai Vescovi locali, chia-mano a loro volta le FMA perché avvertono che la presenza di donne consacrate, libere da interessi personali, é indispensabile per avvici-nare donne e bambini, oltre che per un supporto all’attività aposto-lica con i lavori domestici.

L’Istituto delle FMA risponde con entusiasmo all’appello.

Come in genere gli Istituti femminili di vita attiva, esso non era au-tonomo. Dipendeva dai Salesiani. Nel primo abbozzo delle Costitu-zioni, ancora manoscritto e corretto di propria mano da don Bosco, si legge: «L’Istituto delle suore o FMA è sotto l’immediata dipendenza del Superiore Generale della Società di S. Francesco di Sales, cui danno il nome di Superiore Maggiore».31

31Costituzioni per l’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Edizione anastatica

delle prime Costituzioni corrette da san Giovanni Bosco. Manoscritto D, Roma, Istituto FMA 2008, 3, Titolo 2° art 1°.

Così fu, se pure con accenti più sfumati, fino al 1907, quando si diede concreta attuazione alle Normae secundum quas, di cui alla nota 440 della Lettera N. 123.

Tuttavia, dalle lettere si avverte che né suor Angela e la sua co-munità si sentivano in inferiorità, né i Salesiani consideravano le FMA come dipendenti. Era la fraternità ad avere la meglio. Il buon senso unito allo slancio missionario e alle emergenze quotidiane gio-cavano a favore di una relazione collaborativa naturale dove l’io e il tu diventavano spontaneamente noi e il bene di uno era bene per tutti e di tutti.

Molto significative le parole che don Costamagna unisce alla prima lettera delle missionarie giunte in America: «Tocco sempre più con mano che la Madonna vuol bene alle sue figlie, ma bisogna amarla e farla amare. Qui in queste parti non si sente parlar d’altro che d’interessi e peggio... per l’interesse si suda e si soffre... e noi che dovremmo fare pel grande interesse del Paradiso?». (L 1).

Ecco toccata la nota dominante che compone gli interessi singoli in coralità, perché la posta è altissima: l’annuncio del Vangelo, sal-vezza del mondo. Questa coralità o gioco di squadra, per usare me-tafore di immediata evidenza, consente a suor Angela di chiedere a don Bosco altre FMA perché si possano “condurre a salute” tante ra-gazze indigene e di pregarlo perché mandi rinforzi anche ai Salesiani che le appaiono stremati dalle fatiche (cf L 8).

Da parte dei confratelli, don Cagliero può aggiungere, in una lettera di suor Angela a don Giovanni Bonetti: «Le attuali Suore che sono in Patagonia [...] si sono guadagnate la stima della popolazione e l’at-tenzione delle ragazze grandi e piccole. E se noi possiamo fare alcun-ché di bene, lo dobbiamo a loro. Esse ci preparano e presentano a Dio le anime che vogliamo cacciare e regalare al Signore» (L 22).

Leggiamo in altre lettere: «Quanto bene fanno mai questi Sale-siani, ma quanti denari ci vogliono e la Provvidenza non viene mai meno: i buoni Cooperatori fanno una carità eroica aiutando queste missioni della Terra del Fuoco» (L 45).

La Famiglia salesiana già stava dando i suoi frutti di bene nella condivisione dell’ardore missionario che costituiva la vitalità di ogni gruppo. La figura di Salesiano con cui più da vicino suor Angela col-labora è don Giuseppe Fagnano, a cui don Bosco, per averlo profon-damente compreso, accorda una fiducia enorme, nonostante le intemperanze, soprattutto nelle spese, che dall’America gli venivano segnalate. Egli è il direttore della comunità salesiana in Punta Arenas ed entrambi, con sede in questa città, hanno incarichi istituzionali di rilievo: lei Visitatrice della Patagonia meridionale e delle Terre Ma-gellaniche, lui Prefetto apostolico della Patagonia Meridionale, delle Malvine e della Terra del Fuoco. L’intrepido ex-garibaldino e l’umile, ma determinatissima donna hanno un ruolo fondamentale nell’evan-gelizzazione delle terre nominate.

Nelle lettere sia ai parenti, sia ai superiori salesiani, suor Angela nomina don Fagnano ben settantotto volte e sempre con parole di grande stima e riconoscenza per il ministero della Parola e dei Sacra-menti svolto a bene della comunità, per l’attenzione fraterna accor-data a quest’ultima e per il suo non sottrarsi mai alla fatica quando si tratta di evangelizzare e di portare gli indigeni a condizioni uma-namente dignitose.

Don Cagliero e don Costamagna vengono spesso ricordati come portatori di una forte passione missionaria, oltre che di grande auto-revolezza in campo formativo-spirituale. Si affacciano poi, nelle let-tere, volti familiari e cari al mondo salesiano: don Pietro Rota, compaesano di suor Angela, don Pietro Ricaldone, don Paolo Albera, don Francesco Bodrato, don Domenico Tomatis, don Giovanni Ma-renco, don Giovanni Bonetti, don Gioacchino Berto e tanti altri an-cora... che suor Angela nomina con la gioia di chi vede in essi

“superiori” autorevoli per la loro santità e fratelli che condividono il dono della comune vocazione.

Mi piace concludere questo capitoletto citando un pensiero del Rettor Maggiore Don Juan E. Vecchi, che, da quanto detto sopra, risulta già sperimentato nella vita dei primi missionari e missionarie SDB e FMA: «Entro la Famiglia Salesiana, formata da vari rami, sorti in tempi diversi, i nostri due Istituti hanno un rapporto unico che rende più intensa la comunione, più simili le fattezze spirituali, più stretta la corresponsabilità. Il vincolo di parentela non è con tutti allo stesso grado. L’appartenenza alla Famiglia non livella, ma valorizza

32Omelia del Rettor Maggiore Don Juan Edmundo Vecchi nella celebrazione conclusiva del Capitolo generale XX, Roma, 14 novembre 1996, in Atti del Capitolo Generale XX delle Figlie di Maria Ausiliatrice, 18 settembre -15 novembre 1996. “A te le affido” di generazione in generazione, Roma, Istituto FMA 1997, 151-152.

quello che è maturato nella storia. La nostra relazione proviene dal fatto che siamo nati come consacrati per la missione giovanile, nello stesso focolare carismatico, fratelli di sangue».32

Nel documento e Superiora generale dell’Istituto FMA (pagine 22-27)

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