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un’indagine laboratoriale tra design e biologia

Introduzione

Il paper illustra alcune delle metodologie del design making, attra- verso un’indagine laboratoriale che usa, come strumenti della ricer- ca, le attrezzature e i materiali affini al settore scientifico della bio- logia. Al confine tra programma e imprevisto, metodologia e libera sperimentazione, il design non si preoccupa solo di realizzare og- getti finiti e industrializzabili, ma esplora mondi, inventando prati- che di progettazione condivisa e nuove manipolazioni della materia. Il paradigma produttivo si trasforma da una vecchia concezione di prodotto industriale verso un nuovo orizzonte di manifattura vivente. Le possibilità offerte dalle più recenti tecnologie di la- vorare con organismi in grado di evolversi secondo una propria natura, insieme a una serie di sperimentazioni pilota nel campo della biologia sintetica e della medicina rigenerativa, conducono a nuove frontiere finora considerate inesplorabili.

In questa direzione, la ricerca ha esplorato le nuove pratiche della

DIY Biology strettamente connesse al settore della microbiologia

e dell’ingegneria delle macchine, in relazione alla loro possibile applicazione nei processi di stampa 3D. L’esito della ricerca ha condotto all’elaborazione di protocolli produttivi al confine tra tecniche di 3Dprinting e bioprinting, attraverso l’adozione di orga- nismi viventi come funghi, muschi, cellulosa microbica.

Design come transdisciplina

Il design assume il ruolo di “transdisciplina” nella misura in cui è in grado di gettare un ponte tra mondi diversi, quello scienti- fico e quello umanistico, proponendo una terza via, denominata da alcuni studiosi “terzo sapere”1. Una delle chiavi interpretati-

ve di tale trasversalità conoscitiva è affidata al design, poiché in grado di miscelare sapientemente studi umanistici, come filo- sofia, estetica e antropologia, insieme a studi scientifici, come, ad esempio, le scienze naturali, l’ingegneria dei materiali, delle macchine, dei processi produttivi.

Il design transdisciplinare è frutto di una contaminazione cultura- le trasversale che supera quelli che sono i confini netti e specifici tra le varie discipline coinvolte. È un’ibridazione necessaria, e al contempo una prassi metodologica indispensabile per un’inno- vazione conforme alle crescenti complessità del mondo.

1 Kostic A. (2011) X-OP. Interdisciplinary art as a cultural paradigm. Maribor, KIBLA, p.3.

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Quest’idea di cultura del design come fenomeno totale che abbrac- cia sia i rami empirici della conoscenza che quelli teorici, si configu- ra essere come un piano zero per una nuova ontologia del design, che trae linfa vitale proprio da questa duplice relazione umanisti- co-scientifica. In numerosi scritti, Andrea Branzi, attraverso la me-

tafora del pulviscolo,2 descrive la pervasività capillare connotativa del

design contemporaneo che ibrida le discipline e progressivamente, da fluido avvolgente, diventa matrice sistemica. “Il mondo degli og- getti è l’effetto evidente di un’energia produttiva policentrica, debo- le e diffusa, che non costruisce cattedrali, ma produce un plancton dinamico, una linguistica fatta di miti e di decori”3.

Come afferma Flusser, talvolta sembra che le conoscenze scienti- fiche attuali ci obbligano a interpretare il mondo intero che ci cir- conda attraverso un calcolo razionale, che segue logica del numero e non del pensiero. Ma, “in passato, almeno sin dall’epoca dei greci, il mondo veniva invece descritto in termini alfabetici. A quel tempo, perciò, esso probabilmente si atteneva alle regole del discorso, alle regole della logica, piuttosto che alle regole della matematica.”4

In linea con il pensiero di Martha Craven Nussbaum,5 all’interno

di una prassi metodologica transdisciplinare che si nutre anche di saperi scientifici, come ad esempio, la biologia, la genetica, la neurologia, è di fondamentale importanza la presenza di una dimensione umana e filantropica del progetto, affinché il design possa operare con sensibilità e in maniera inclusiva. L’obsole- ta visione che artificiosamente separava la realtà scientifica da quella umanistica ci conduce ora a una diversa interazione col reale, imponendoci in qualche modo una riflessione critica all’in- terno del dibattito tra scienza e non scienza, tra prassi dialogica e calcolo matematico.

Nella misura in cui il designer usa gli strumenti e le prassi operative proprie della scienza, tessendo relazioni insolite e anti settoriali, è in grado di cogliere le potenzialità inespresse e i connubi possibi- li che si celano tra i territori separati delle conoscenze. In questa prospettiva, si fa strumento originale per l’esplorazione di nuovi mondi, per un’indagine innovativa sulla produzione degli oggetti.

Un approccio metodologico feyerabendiano

Il rapporto paritetico tra le diverse discipline in relazione alla loro fruibilità metodologica, fu sostenuto sin dall’inizio dal filosofo della scienza Paul Feyerabend, che, in Contro il metodo, sostenne una durissima battaglia contro ogni prassi metodologica assolu- ta. Il pensiero di Feyerabend affermava che solo attraverso una libertà d’azione transdisciplinare si può far riflettere in maniera radicale su quelli che saranno gli scenari futuri.

2 Branzi A. (2005). Il declino degli oggetti. in La Rocca F. Il tempo opaco degli oggetti. Roma, Franco Angeli, p.153.

3 Ibidem.

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Al di là di ogni supremazia gerarchica tra i saperi, Feyerabend so- steneva che “la tradizione scientifica non è un’autorità superiore a quella di altre tradizioni di pensiero, come ad esempio la filoso- fia, la metafisica,… e che, in certe occasioni, è addirittura benefico riportare in auge principi scientifici che si consideravano superati o persino assunti magico-religiosi.”6

D’altra parte, soprattutto se si ha a che fare con discipline di natura artistico-umanistiche, non si può pensare di ottenere dei risulta- ti importanti nella ricerca o delle innovazioni rilevanti, esclusiva- mente dedicandosi a un’investigazione monodisciplinare, chiusa in se stessa. “La storia della scienza non consta solo di fatti e di conclusioni tratte da fatti. Essa contiene anche idee, interpretazioni di fatti, problemi creati da interpretazioni contrastanti, errori e cosi via…”.7 Se si guarda al passato, sia le scienze esatte che le scienze

umane si sono ritrovate più volte dinnanzi a fenomeni inspiegabili e a problematiche impreviste, dove sono state ben altre le doti uti- li allo studioso per progredire nella propria ricerca. La storia della conoscenza, infatti, ci dimostra che hanno sempre avuto un ruolo molto importante anche logiche non appartenenti alla sfera della razionalità, come la serendipità, l’intuizione, la casualità, l’esperien- za diretta, l’errore. Una metodologia rigida, applicata esclusivamen- te per scompartimenti stagni, per specifici rami disciplinari, difficil- mente potrà tener conto di tutta una serie di variabili e imprevisti, che seguono percorsi diversi da quelli propriamente programmati. In questa prospettiva di apertura trasversale alle discipline, è ne- cessario che il designer esplori anche queste “zone di errore” e d’imprevedibilità, attraverso l’uso di un pensiero laterale, non sem- pre affine a una metodologia ortodossa. Riguardo quest’interse- zione tra i piani delle conoscenze, in Contro l’autonomia, Feyerabend declama il cammino comune delle scienze,8 auspicando in manie-

ra decisa il confronto tra saperi diversi, il dialogo tra gli studiosi, nonché l’uso di un’immaginazione letteraria utile a un potenzia- mento delle pratiche sperimentali e a un’elaborazione di proposte multiple. Tra le varie teorie scientifiche sul metodo, la posizione di anarchismo epistemologico sostenuta per assurdo da Mario de Caro rappresenta il punto di vista estremo nell’accettazione di tutte le possibilità sperimentali come strade percorribili e degne di essere indagate. “E se arrivassimo a sostenere che il metodo della scienza non esiste affatto?”9. Certamente è una visione radicale,

ma è sostenuta anche da parte delle teorie feyerabendiane che ci ricordano come “la linea di demarcazione tra scienza e non scienza non è ben definita, tanto che quello che oggi è scienza in un futuro prossimo potrebbe non esserlo più e viceversa”.10

5 Nussbaum M. (2011) Non per profitto. Perchè le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica. Milano, Il Mulino, p.126.

6 Feyerabend P. (2002) Contro il metodo. Milano, Feltrinelli, pp.16-17. 7 Ibidem.

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Nella pratica del progetto, una posizione di tipo “relativista” è piuttosto frequente, in particolar modo per quanto concerne gli aspetti più sperimentali della ricerca laboratoriale. La consta- tazione che il design non sia una scienza vera e propria, ma sia considerata più che altro come una disciplina, mutevole e aperta, gli consente una grande apertura e versatilità. Diversamente dai laboratori propri delle discipline scientifiche, in un laboratorio che indaga il design in maniera transdisciplinare, non sempre vengo- no seguiti protocolli e procedure metodiche rigide.11

Questa caratteristica di maggiore elasticità, consente dunque molta più libertà di pensiero nel mettere insieme aspetti del reale lontani tra loro, creare nuove connessioni, elaborare teorie diver- genti. In quest’accezione umanistica della ricerca laboratoriale, non sorprende, dunque, che il design abbia conquistato un ruolo strategico e che sia una delle discipline più idonee a immaginare gli scenari futuri.

Design “vivente”

“Il vivente è la declinazione più forte del biologico. Ed è il miele che oggi attira irresistibilmente i designer… Il design si coniuga in forme nuove con la ricerca chimica e la bioingegneria, creando dei cortocircuiti quanto mai interessanti tra scienza, tecnologia e arte; nell’indagare le “tecniche” della natura per trasporle nell’ar- tificiale, privilegia ora l’acquisizione dei processi biochimici all’i- mitazione dei sistemi meccanici.”12

Nello scenario internazionale, a conferma di questo connubio tra design e cultura scientifica, tra i progetti più interessanti ricor- diamo le sedie di Eric Klarenbeek, i vasi di Officina Corpuscoli, i tessuti di Sonja Bäumel, le pelli artificiali di Oron Catts & Ionat Zurr, le membrane di Naja Ryde Ankarfeldt, e gli abiti della fa- shion designer Suzanne Lee.

Questi prodotti, arrivati ormai a uno stadio non più soltanto spe- rimentale, trasformano radicalmente la tradizionale nozione di oggetto verso un nuovo tipo di esperienza intellettuale. Nella dimensione investigativa del design vivente, le strutture sono costruite ad hoc per diventare impalcature in grado di ospitare organismi vivi che le alterano e ne espandono le forme. I materiali viventi vengono processati attraverso sofisticati concept e meto- dologie operative: macchine biodigitali sono assemblate per as- secondare specifici fenomeni naturali che rielaborano sottoforma di installazioni e performance collettive; batteri e organismi sono incorporati nei prodotti per la loro valenza estetica, speculativa o funzionale alla costruzione di oggetti, interazioni, esperienze so-

9 De Caro M. (2012) Quando una teoria è scientifica? in Ferraris M., Scienza. Che cosa sanno gli scienziati? Roma, La Biblioteca di Repubblica, p. 25. 10 Ivi, p.37.

11 Langella C., Ranzo P. (2007) Design Intersections. Roma, FrancoAngeli, p.114. 12 La Rocca F. (2016) Design e Delitto. Critica e Metamorfosi dell’oggetto Contemporaneo. Roma, Franco Angeli, p.130.

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ciali; grazie a speciali impasti tra scarti organici e spore di micelio, è possibile infine costruire oggetti in grado di crescere e svilup- parsi autonomamente. Dalla moda all’arte, dal design di prodotto a quello della comunicazione, gli organismi vivi diventano materia integrante della progettazione contemporanea, sconvolgendone spesso i postulati filosofici ed etici. “Nella categoria del vivente il design non si preoccupa più soltanto di produrre l’oggetto fini- to e commercializzabile, ma indaga sul come poterlo realizzare, progettando strumenti nuovi, inventando processi, divulgando nuove pratiche di manipolazione della materia.”13

In questa visione d’integrazione totale tra uomo e natura, la sfida attuale è quella di sovvertire le logiche manifatturiere, ponendo il designer di fronte ad un nuovo paradigma produttivo: gli oggetti del futuro non sono più fabbricati passivamente da un’industria meccanica, ma sono vivi, come organismi.

Conclusioni: un’esperienza tra design e biologia

Attraverso un approccio transdisciplinare, la ricerca sta indagan- do le pratiche della DIY Biology14 strettamente legate al settore

della microbiologia e dell’ingegneria delle macchine, in relazione alla loro possibile applicazione nei processi di stampa 3D. I pro- cessi elaborati sono stati costruiti sulla base delle verifiche ef- fettuate di volta in volta in laboratorio. I protocolli, sperimentati in collaborazione con i biologi e gli scienziati della Waag Society di Amsterdam, per questa loro caratteristica evolutiva, si confi- gurano come dei modelli elastici e imperfetti che richiedono an- cora una successiva stabilizzazione. Tuttavia, nella loro effettiva riproducibilità, rappresentano un punto d’inizio importante per una produzione di design connessa al mondo organico. La ricer- ca ha condotto all’elaborazione di protocolli produttivi, al confine tra tecniche di 3Dprinting e bioprinting, attraverso l’adozione di orga- nismi viventi come funghi, muschi, cellulosa microbica, al posto dei composti polimerici solitamente usati per la stampa additiva. La sperimentazione in laboratorio qui riportata è iniziata con lo studio di alcuni metodi di coltura degli organismi viventi. Gli orga- nismi presi in esame sono stati scelti sulla base dei loro metodi di coltura cellulare, poiché ciascun organismo segue delle rego- le differenti. I batteri, ad esempio, possono crescere in due o tre giorni, fino a varie settimane. Per i funghi, invece, il discorso è più complesso: hanno bisogno di camere sterili e impiegano diverse settimane per il loro sviluppo. I muschi, infine, anch’essi impiega- no diverse settimane, ma le temperature cambiano notevolmen- te, poiché per la loro crescita il principio fondamentale è l’umidità e la presenza di acqua.

13 Scarpitti C., (2016) in La Rocca F., Design e Delitto. Critica e Metamorfosi dell’oggetto Contemporaneo. Roma, Franco Angeli, p.132.

14 Delfanti A. (2003) Biohacker. Scienza aperta e società dell’informazione. Milano, Elèuthera, p.10.

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Tra le varie ricerche progettuali, l’esperimento qui illustrato ri- guarda l’applicazione della cellulosa microbica nell’ambito della stampa 3D. In laboratorio si è compreso che organismi come bat- teri, muschi e alghe crescono molto bene all’interno di materiali come la cellulosa microbica, proprio a causa delle sue proprietà nutrienti. Per questi organismi la difficoltà maggiore nella stam- pa 3D è quella di costituirsi, infatti, in struttura rigida e definita. Da qui è nata l’idea, in collaborazione con il biotecnologo Fede- rico Muffatto, di utilizzare la cellulosa come impalcatura per la crescita dei questi organismi, in abbinamento al calcio lattato e all’alginato che ne rafforzano la solidità strutturale.

A questo scopo è stata modificata meccanicamente una stampan- te additiva 3D della MakerBoat, attraverso l’impianto di un parti- colare estrusore. Successivamente sono state eseguite differen- ti colture, per provare differenti strati e consistenze di cellulosa. Nella fase finale, questa è stata poi dissolta in speciali soluzioni chimiche ed estrusa per tastarne il grado di viscosità e possibile costruzione in 3D. Il grafico finale visualizza uno dei protocolli ope- rativi adottato per la stampa 3D della parola living: lo schema ne visualizza i software, i macchinari e le sostanze adoperate. Il fine ultimo della ricerca è quello di arrivare all’ottimizzazione strutturale di questo materiale vivente per la fabbricazione di og- getti in grado di evolversi e crescere autonomamente.

Didascalie immagini

1 Mediamatic Research Center, BioMe Conference | Coltura di muschi al Microscopio. Foto a cura dell’autore, 2014.

2 Immagini della sperimentazione di stampa 3D con cellulosa microbica. Foto a cura dell’autore, 2014.

Riferimenti bibliografici

Branzi A. (2006) Modernità debole e diffusa, in Il mondo del progetto all’inizio del XXI secolo, Milano, Skira.

Delfanti A. (2003) Biohacker. Scienza aperta e società dell’informazione. Milano, Elèuthera.

Feyerabend P. (2002) Contro il metodo. Milano, Feltrinelli.

Feyerabend P. (2012) Contro l’autonomia. Il cammino comune delle Scienze e delle Arti. Milano, Mimesis.

Ferraris M. (2012) Scienza. Che cosa sanno gli scienziati?. Roma, La Biblioteca di Repubblica.

Flusser V. (2003) Filosofia del design. Milano, Mondadori.

Kostic A. (2011) X-OP. Interdisciplinary art as a cultural paradigm. Maribor, KIBLA. La Rocca F. (2016) Design e Delitto. Critica e Metamorfosi dell’oggetto Contemporaneo. Roma, Franco Angeli.

La Rocca F. (2010) Il tempo opaco degli oggetti. Roma, Franco Angeli. Langella C., Ranzo P. (2007) Design Intersections. Roma, FrancoAngeli. Nussbaum M. (2011) Non per profitto. Milano, Il Mulino.

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