Una pagina di Enrico Bottini Massa, nel suo volumetto della Col
lana « Profili » del Formiggini, del lontano 1915, riporta, senza ci tarne la fonte, un passo di G. Cesare Abba, che successive ricerche mi hanno permesso di ritrovare nel manifesto che lo scrittore gari baldino rivolgeva ai suoi elettori del Collegio di Cairo Montenotte in data 21 ottobre 1876. Si era alla vigilia delle elezioni del 5 novembre 1876: la data doveva passare alla storia, segnando l’avvento ufficiale della Sinistra al potere, anche se in effetti, per la caduta del ministero Minghetti, gli uomini della Sinistra sedevano al Banco del Governo dal marzo ’76. L’Abba aveva accettata la candidatura per le affettuose pressioni di amici, nel Collegio della sua Cairo. Non vi era sconosciuto, se, oltre alle benemerenze delle Campagne garibaldine, alla decorazio
ne ottenuta nel ’66, aveva fatto parte dell’Amministrazione Comunale (era sindaco dal ’70 e lo sarebbe rimasto a lungo, fino al 1880). Ep pure quest’uomo che si era ritirato, dopo esperienze di guerra e av
venture indimenticabili, nel suo modesto borgo, sentiva il dovere di aprire se stesso («rivelarmi qual sono»), con schiettezza ma con ferma misura, ai suoi elettori, mosso con tutta certezza dal desiderio che si votasse con conoscenza di lui e delle sue idee, senza far cenno più che implicito alla più gloriosa impresa che aveva vissuto fino al Volturno.
Anche i più semplici manuali di storia rifiutano una definizione delle correnti politiche del tempo in termini di a partito ». Ma l’Abba si dichiara subito, invece, appartenente ad un partito ; e con precisa, concreta valutazione dei fatti, delle situazioni e delle opportunità non esita a vederne l’Opera, le Idee, « il tesoro dei fatti » « gettati » dal Cavour sui tavoli di Parigi, a farne risaltare evidente la condizione d’Italia. Se frettolose o deformate visioni storiche ci hanno traman
data un’immagine dei Garibaldini delusi per essere stati privati dalla monarchia Sabauda di un regno conquistato, come protestatari inca
paci di intendere la realtà di una situazione diplomatica e politica, questa pagina di Abba, una pagina pubblica, è lì a smentirle. E non per opportunismo egli scrive, giacche sa bene quale fu il valore dei misconosciuti ed avversati, è con loro. E li vede possibili protagonisti della vita politica europea, che l’eco, non ancor spento, della Comune parigina pareva porre dinanzi ad una svolta decisiva, di cui l’Abba già coglieva la gravità e i possibili sviluppi (« le allegre vendette » della
« vera plebe »), non dimentico del difficile momento politico che la Italia aveva vissuto nel ’70, con le giornate romane del settembre.
so
inesperto amministratore. L’Abba chiamerà quel de- i e pudica meditazione in fra il ’70 e 1’80 ozioso non fu. Mentre i immiserirsi ne erano nati, l’Abba, Sindaco di Cairo, non disde-i problemi dell’edilizia locale, delle fognature
mitero ; curava I_ ’ , ’ ’ * e
-piccola Banca, per fronteggiare l’usura, la Società di Mutuo soccorso, le migliorie agricole.
E che piglio deciso offre la breve, significativa ripresa del discor-(e si badi che l’Abba fu scrittore che pesava le parole, c’è chi le Di un'attualità che stupisce è quella decisa preminenza accordata (perfino sulla situazione finanziaria) al problema dell’istruzione « ob
bligatoria e gratuita » ; e la ragione che la sostiene pare d’un balzo superare quasi un secolo per rivivere in un problema di costume po
litico e civile che ancora è da risolvere oggi : l’inserimento di citta dini consapevoli nella vita dello Stato, che essi guardino come cosa loro. E quest’uomo, che pur è scrittore classico, guarda bene ad una cultura educatrice, secondo la concezione romantica ; il « poeta dei Mille » ha appena una frase (che quasi sfugge e forse sarà sfuggita a molti dei suoi elettori) per « le gioie dell’intelletto... », per l’arte, ove sarà famoso.
Davvero pare ben rilevata la figura di quest’uomo che noi, per ragioni letterarie, spesso non sappiamo disgiungere da quelle dell’Epo- pea garibaldina: vissute le giornate delle battaglie e delle marce, della fresca ma inflessibile disciplina dei Volontari, « il candidato Abba » vede nell’istruzione mezzo « per diminuire i bilanci della guerra » ...a beneficio di quelli dell’istruzione!...
Ricordo un discorso di P. Calamandrei sulla nostra Costituzione : ad ogni passo significativo di essa, esclamava stupito : « ...ma questo è Mazzini... ma questo è Cattaneo... ma questo è Garibaldi... ma que
sto, o studenti milanesi, è Beccaria...». Rileggiamo il manifesto di Abba: « credo nell’avvenimento dell’arbitrato internazionale e nella pace evangelica dell’umanità »: « ma questa è la Nostra Costituzio
ne», diremmo, anche là dove è invocata l’abolizione della pena di morte, in nome di così alti concetti cristiani.
Abba ci appare lungimirante precursore : più di cinquantanni do
po G. Salvemini definirà «tassazione » quello che Abba chiama qui
« il tributo della milizia » ; verrà più tardi l’auspicato allargamento del suffragio politico. E’ vero che si può ripensare al discorso di Depretis a Stradella, che queste aspirazioni erano nell’aria, nei tempi, non sol
tanto di un candidato in uno sperduto Collegio delle Langhe. Ma lo Abba non era uomo da suggerimenti di partito, aveva già colta la ve
rità delle parole di d’Azeglio, se poteva ripetere franco : « far gli Ita
liani, appena finito di far l’Italia ».
C’è quanto basta per ritrovare un uomo, dritto ed intero, non toccato ancora dalla fama letteraria. E modesto, di una modestia che fu sempre sua, costume morale e personale pudore, appare nel suo presentarsi come i
cennio di riserbo politico, di quasi scontrosa paese, « gli ozi di Cairo »: ma — .
-riandava all’impresa, mentre la vicenda giovanile pareva nei problemi che
gnava i problemi dell’edilizia locale, delle fognature o del nuovo Ci le scuole, le scuole soprattutto, anche serali, per gli operai, l’istituzione di una
*
♦ *
un Là era
Ma l’Abba non fu eletto, nè lo sarebbe stato nelle altre consulta*
zioni politiche del 29 ottobre 1882. Soltanto nel giugno 1910 sarebbe divenuto Senatore. Ma c’è una lettera che davvero dipinge l’Uomo, anche dopo la contesa elettorale. E non ci appare diverso, anche se la intimità col destinatario, l’amico Sciavo, può attenuare e raddolcire ha dette « levigate ad ungucm »): « Ma ho sempre vagheggiato la autonomia amministrativa del Comune, segno storico delia virilità del
la nostra stirpe ». Basterebbe quel « Ma » in principio di frase a dare il segno d’una forza. Una parola sua l’aveva da dire. Par di risentire discorsi di ieri, di oggi. Forse noi parliamo di « carrozzoni governa tivi », di «impacci della centralizzazione ». Ma l’Abba coglie il pro blema con immagine sobria, che pian piano si apre ad un profumo di Ottocento, che par scelta e nata per gli uomini dei suoi monti.
E’ facile ritrovare nelle caricature di Teja la mano sinistra del carabiniere che gira la macina (in luogo della Destra), per simboleg giare il ritorno, anche sotto il Depretis, della « tassa sul macinato ».
Ma i problemi delle genti meridionali, dei poveri, dell’emigrazione
« interna » (sono cosa d’oggi) Abba li aveva capiti là, accanto a quel Padre Carmelo, che sobriamente, ma con un suo netto rilievo ha col
locato nelle « Noterelle », dove pare sintesi ed intuizione di un dram
ma secolare, che attende invano di sciogliersi in civile convivenza, in rispetto per lo Stato, che l’ex Volontario ritiene cosa indegna frodare (« quaggiù vi son beni grandi, ma goduti da pochi e male »). Le belle pagine di Bacchelli mostrano oggi gli espedienti che s’usavano per sfuggire alla tassa. Ma l’Abba parla con la serietà di chi ha vissuto quei tempi, quelle miserie su cui s’è fatta, ma dolorosamente, l’Italia.
Nella parola, pur contenuta, Egli non nasconde accenni concreti alle sue terre, partecipazione più sentita. Qui troviamo gli unici accenti, forse, in cui la rigidezza e l’asciuttezza del discorso consentano allo scrittore di riportare, senza nessun tentativo di nasconderlo, l’incalzare del capitolo finale del « Principe » machiavellico, così passionato ed italiano (« qui pace, qui ossequio alle leggi, qui animo pronto... »), forse con una maggiore accelerazione e concisione che il cuore detta va. Le terre delle Langhe, delle « alte Langhe », così sterili dall’anti
chità, divengono modello e spunto di organizzazione civile ed economi ca, con un accenno che, salvata la proprietà, allarga in senso moderno le possibilità d’intervento statale. E non possiamo non riandare alle
«Noterelle » : « ...là oltre, i miei monti esultavano alti e puri... A quest’ora in casa mia s’accende il lume, torna mio padre da fuori, la cena fuma... La mia dolce terra delle Langhe, quasi sconosciuta alla Italia, l’ho vista, l’ho sentita, goduta un momento qui, così lontano, su questi greppi di monte Calvo...». Là era il suo popolo, di cui con
servò intatta la purezza e la forza.
rapidamente il tempo che cause d’ogni sorta le avevano fatto perdere nel mondo ».
qualche passo. Nou inganni il basso numero dei suffragi : il sistema elettorale censìtario rendeva possibili pochi voti, necessari ancor meno per ottenere l’elezione. L’Abba ne ottenne 229 : e quando dice di quelli avuti « che si possono chiamare voti politici », noi sentiamo, senza che egli lo precisi, che li intende voti di educati, istruiti, coscienti citta dini, che non «buttano nell’urna una scheda qualunque». C’è mestizia in questa pagina? Non per l’esito delle elezioni. L’Abba era uomo spesso toccato da malinconia, come è dei forti, che guardano in faccia la realtà. Non poteva non esserlo chi vedeva subentrare al momento delle armi la richiesta di una più opaca operosità di cittadini, che non ne erano sempre capaci. Ma « subito rispondeva a sé stesso: IL MONDO HA CAMMINATO E CAMMINA ». Il suo candore è anche la sua forza : a non ho fatto un passo fuori del mio borgo, non ho scritto una lettera, non ho parlato nemmeno ad un Elettore... non ho speso neppure un soldo in carrozze o in guanti destinati a stringer mani in
consapevoli... ». E’ l’uomo che bada all’essere, non al parere o al riu scire. Scriveva ad un amico, un commilitone, conterraneo, del quale nelle « Noterelle » sono riportate le parole per alcune pagine buone:
« l’amico Sciavo », carissimo anche a Carducci, a Garibaldi, che me
riterebbe un capitolo a sé. Certo fra Abba e Sciavo non mancava la confidenza ; eppure lo scrittore serba il suo stile, le concessioni al tono familiare non sono più larghe di quelle che le notizie private compor
tino. Abba non prevedeva che la pagina sarebbe giunta, come oggi fi nalmente è possibile, alle stampe. Con lo stesso tono, anzi forse con maggiore abbandono aveva già espresso allo stesso Sciavo, nel ’73, il suo rimpianto, per non essere caduto « laggiù », visto che per i tempi
« la virtù è costretta a rifugiarsi in un’isoletta per non parere cosa ridicola in mezzo alle genti ».
Questo manifesto e questa lettera tornano fortunosamente alla lu ce; su Abba non è chi non abbia lette le pagine di illustri critici; ma se nell’antico romanzo « Le rive della Bormida nel 1794 » si « respira un’atmosfera lenta di quella vita da borgo e da chiuso dello studiolo domestico », l’Abba ci pare già esserne uscito con questi suoi due scritti che pubblichiamo; forse già si poteva allora dire di lui quel che fu scritto più tardi : « se tutti coloro che avevano viste in azione le grandi cose della rivoluzione italiana avessero portato il pensiero e l’opera loro
ELETTORI DEL COLLEGIO DI CAIRO -MONTENOTTE
Molti amici miei autorevoli e liberali hanno creduto di poter fare a fidanza coi tempi e con voi, proponendomi di accettare la Candidar tura del nostro Collegio. Io posi sotto i loro occhi tutte le difficoltà che si sarebbero trovate per via; essi, pur ammettendole, si sono fatti forti d'aderenti e di speranze; e la candidatura fu da me accettata, per chè a sentir mio, se gli onori di rappresentare il popolo non si deb
bono cercare, offerti non si rifiutano. Quel nucleo d'amici è divenuto partito potente: arrivi all'urna qual è o ingrossato, io sento il dovere di rivelarmi qual sono a chi non mi conosce.
Politicamente io appartenni col pensiero sin dai primi anni a quel partito che ebbe il merito di credere, patire e lavorare per l'unità e per la libertà della patria. Quel partito accumulò il tesoro di fatti
che, raccolto poi dal grande Ministro Piemontese, fu gettato nel Con
gresso di Parigi, a provare che vi era un'Italia, alla cui indipendenza l'Europa doveva pensare. Concorse così precursore all'opera dell'indi pendenza; ed io non dubito d'attribuir gli la gloria d'esser stato ispi
ratore e fattore potente dell'unità. Misconosciuto, avversato- per sedici anni, nelle vicende del 1870 quel partito salvò l'Italia da sventure in
calcolabili, ed oggi la governa, arrivato al potere mentre la grandis sima delle questioni europee sta forse per dividerci in due campi, quan ti siamo popoli del vecchio continente. I principi politici di quel par
tito sono arra all'Italia che non saranno dimenticati i doveri che essa ha verso la causa della civiltà e verso èe stessa.
Per me, e mi affretto a dirlo, il contegno dell'Italia in quella que
stione è cosa del più\ grande momento; perchè ne può andare del nostro onore, della nostra maniera d'esistere; n'andrà certo della no
stra situazione finanziaria. Alla quale io non assegno il primo posto fra le questioni urgenti, non perchè io non la creda urgentissima, ma perchè l'indole mia mi fa più pensare alle altre d'altra natura, anche certo di questo, che lo Stato, fojse pur ricchissimo il popolo, patirà sempre disagio finché il popolo non ha coscienza civile.
Premetterò adunque che io vorrei l'istruzione obbligatoria e gra
tuita; anche perchè i cittadini, apprendendo la dignità e il beneficio dello Stato, cessino di stimarlo signoria malevola e spogliatrice. La vorrei perchè credo che nessun uomo colto possa onestamente
invoca-re per lo incolto la libertà di privarsi delle gioie dell’intelletto. Credo elle il grido venuto testé dallInghilterra: EDUCHIAMO 1 NOSTRI turutd PADRONI ! debba persuadere i ricchi che l’istruzione e la educazione soltanto potranno far scomparire la plebe vera e renderne impossibili le allegre vendette. Credo che in tempi in cui la fede si affievolisce, sia dovere di tutti lavorare ad accrescere la coscienza dello individuo colla maggior dose di sapere possibile. Credo che l’Europa
intera abbia il dovere di dare a se stessa un assetto definitivo per potere poi diminuire i bilanci della guerra a beneficio di quelli della istruzione; e come risultalo finale, credo nell’avvenimento dell’arbi
trato internazionale e nella pace evangelica dell’umanità.
Yorrei abolita la pena di morte, non foss’altro perché in mezzo a un popolo cattolico che crede nella riabilitazione dell’anima in una altra vita, parmi che sorga tetra smentita il patibolo, che nega il pos
sibile miglioramento del reo nella vita presente.
Credo che sia cosa giusta l’ampliamento del suffragio politico, perché il grande tributo della milizia, che tutti i cittadini son chiama ti a pagare, subisce, più d’ogni altro tributo, le influenze della politica del Paese. Lo non mi preoccupo degli inconvenienti che altri può ve dere nell’ampliamento, perché il popolo italiano (e l’ha dimostrato più d una volta) possiede in altissimo grado l’istinto della propria con
servazione.
Premessi questi punti salienti della mia fede politica, io non mi perito a dire che nelle questioni amministrative e finanziarie non sono versato quanto basta per parlarne con altrettanta sicurezza. Ma ho sem pre vagheggiato l’autonomia amministrativa del Comune, segno sto
rico della virilità nostra civile; e l’ombra dell’intricato albero della burocrazia governativa mi parve sempre che adugi e faccia intristire la bella pianta. E in materia di imposte ho sempre deploralo che uomini insigni, i quali avevano abolito il macinato, liberando le provincia contristate di quella tassa da governi dispotici, l’abbiano poi data, ri veduta e corretta, a tutto il regno. E l’ho deplorato perché mi parve che il ritorno di quell’imposta grossolana non abbia certo giovato ad accrescere nelle popolazioni liberate il senso morale della loro libera zione. Oggi qual’è l’imposta frutta all’erario una somma ingente; nè credo che si possa pensare a sopprimerla prontamente; ma a una cosa si deve subito rimediare, ed è l’immoralità che quella induce, dive
nuta come mezzo di frode verso il governo e verso i contribuenti.
Così mi pare che di grandi e profonde riforme abbisogni l’im
posta sulla Ricchezza Mobile. Perchè l’avere stabilito un minimo im
ponibile al disotto del quale, per un centesimo di rendita in meno, uno paga nulla; mentre al di sopra, per un centesimo in più, uno paga quanto gli basta a vivere un mese, mi pare che sia stato un gravissi
mo errore. Questa legge prima di ogni altra occorrerebbe riformare, affinchè cessasse nel popolo il falso concetto in cui fu indotto : quello cioè che il Governo è un Ente del tutto estraneo alla nazione: un Ente che pensa soltanto a fare i propri interessi e a cui si può nuo cere per giusta rappresaglia, colla coscienza di far male a nessuno.
Dell'imposta fondiaria io non dico altro, che un paese agricolo per natura di suolo e per indole d'abitanti, eppure senza agricoltura per tanta superficie del suo territorio non dovrebbe per soprasSello avere per tanto tempo subito i mali della sperequazione. Scriverà a se stesso una bella pagina quel Governo che rimedierà a questo guaio.
E qui io penso con rammarico che nei sedici anni trascorsi, si avreb
be potuto creare forse mezzo milione di piccioli proprietari, coi beni venuti allo Stato dalla soppressione delle Corporazioni religiose, e che non lo si fece. Quello era il modo più efficace di cominciare a far gli Italiani, appena finito di fare l'Italia. E con rammarico ancora più grande, penso che pur inceppando l'esercizio di tante parti di pubbli ca libertà, si sia abusato poi delle teorie liberali dei popoli adulti, per giustificare la tolleranza usata all'emigrazione agricola ed operaia.
Lo Stato avrebbe potuto con benevolenza dirigerla, consigliarla, darle sede in Italia. L'unità morale ne avrebbe guadagnato, l'agricoltura si sarebbe sviluppata, e l'erario arricchito. Oggi quella fortuna d'Italia è forse perduta. Ma sarà abbastanza benemerito quel governo che, at tendendo alla perequazione, riuscirà a sottoporre all'imposta le centina ia di migliaia d'ettari di terreno fruttifero e non ancora censito, specie nelle provincie nostre del Mezzogiorno.
A me Italiano stanno nella mente e nel cuore le cose che ho dette, ed ho fede che in Italia vi è patriottismo e ingegno da fare che la nostra patria sia fra vent'anni potente e felice. Uomo poi nato e vis
suto nel vostro Collegio, vorrei che l'Italia intera godesse di quei beni di cui godiamo noi, in queste povere terre delle alte Langhe, così note per antica sterilità ed ingratitudine ai lavori dell'uomo. Qui pace, qui ossequio alle leggi, qui animo pronto al compimento di tutti i doveri di cittadino : gli adii tra le classi sociali ignoti, delitti quasi nessuno.
Chi sa che questo modo di essere non trovi le sue cagioni nel regime agricolo praticato qui da tempi immemorabili? E se la mezza dria praticata da noi la fosse pure un qualche giorno con le necessa
rie modificazioni in tutta l'Italia? Una legge futura che prescrivesse più uno che un altro regime alla agricoltura, sarebbe per avventura un attentato alla libertà della proprietà? lo interrogo così alla buona, come alla buona vi dissi l'animo mio.
Qualunque sia il numero dei suffragi che onoreranno il mio nome, io rimarrò lieto e sicuro di me. Mi inchinerò all'urna qua lunque sia il responso o il giudizio che farà di me e delle intenzioni mie. Intanto abbiatevi per cosa certa che io non mi difenderò mai dalle arcadiche accuse di giacobinismo che mi si fanno; e per cosa anche più certa dhe non porrò mai in disparte la modestia, l'istinto
Qualunque sia il numero dei suffragi che onoreranno il mio nome, io rimarrò lieto e sicuro di me. Mi inchinerò all'urna qua lunque sia il responso o il giudizio che farà di me e delle intenzioni mie. Intanto abbiatevi per cosa certa che io non mi difenderò mai dalle arcadiche accuse di giacobinismo che mi si fanno; e per cosa anche più certa dhe non porrò mai in disparte la modestia, l'istinto