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Una superstizione: i gradi dell’aggettivo

Nel documento V. 1 (2019) (pagine 102-105)

Traguardi linguistici per l’italiano al termine del triennio

L UCA S ERIANN

2. Una superstizione: i gradi dell’aggettivo

Un esempio di superstizione grammaticale è la teoria dei “gradi dell’ag- gettivo”, che regolarmente incontriamo nella trattazione della morfologia dell’aggettivo. La trovo ripetuta in termini pressoché uguali in tutti i manuali di grammatica per i vari livelli di scuola che ho consultato. Cito da uno dei più diffusi nella scuola media: «gli aggettivi qualificativi possono esprimere tre gradi di intensità […]. L’aggettivo qualificativo è di grado positivo quando esprime solo l’esistenza di una qualità, senza precisarne la misura. L’agget- tivo qualificativo è di grado comparativo quando esprime un confronto tra

1 Di cui restano un modello insuperato gli “esperimenti grammaticali” sperimentati e pro- posti da Maria G. Lo Duca (1997).

2 Qualche anno fa, da un esame condotto su circa venticinque libri di testo destinati ai tre cicli scolastici, mi è risultato che la parola “verificare” compariva in tutto una sola volta in un solo manuale; cfr. Colombo 2015: § 6.3.

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due termini (detti primo e secondo termine di paragone) rispetto a una certa qualità». Esempio «Stefano è più bello di Marco» (Zordan 2016: 170). In alto nella pagina una testatina ci avverte che siamo nella parte del libro «3. Morfo- logia». La mia obiezione è: che cosa c’è di morfologico nel preporre a un ag- gettivo un avverbio (più, o il suo corrispettivo meno), come si può fare con cento altri avverbi? (da molto a poco, a straordinariamente…). Certo, più e meno esigono di aggiungere un termine di paragone, creano cioè una struttu- ra sintattica di comparazione. La quale è forse prevalente, ma non certo esclusiva degli aggettivi. Alcune grammatiche ammettono che la compa- razione può riguardare un avverbio (“Stefano corre più forte di Marco”), nes- suno ricorda che può investire un complemento avverbiale (“Stefano abita più in alto di Marco”), un nome (“Stefano ha più soldi di Marco”), un verbo (“Stefano ha bevuto più di Marco”). Perché non si dice che negli ultimi due esempi il nome soldi o il verbo bere si trovano in un particolare “grado”?

Bisogna risalire all’Ottocento per trovare chi abbia dubitato di questa fa- vola. In quel secolo Severino Fabriani, un pio sacerdote modenese che si era dedicato all’insegnamento della lingua orale ai sordomuti (e per questo fondò un ordine di suore e un istituto che funzionano tuttora), scrisse una Gram- matica della lingua italiana, pubblicata postuma nel 1875, ispirata ai princìpi della “grammatica ragionata” sviluppata dagli illuministi francesi. Nella sua grammatica Fabriani non parla di gradi dell’aggettivo; nel capitolo dedicato alle «parole qualificanti» (l’autore rinnova tutta la terminologia delle parti del discorso nel tentativo di renderla più razionale e trasparente), si limita a os- servare che «le parole qualificanti formali, terminanti in –iore mostrano una comparazione nella misura di quantità o qualità comune a diversi oggetti» (Fabriani 1875: 19); in sostanza, tratta come comparativi le sole forme mag- giore, minore, migliore e peggiore, quelle che l’italiano ha ereditato dal com- parativo morfologico del latino; lo stesso già aveva fatto nella sua Grammati- ca ragionata (1771) il primo e maggiore grammatico italiano di questa ten- denza, Francesco Soave.

Fabriani aveva esposto i princìpi a cui doveva ispirarsi una grammatica ragionata in certe sue Lettere logiche edite nel 1838. In queste non aveva toc- cato la questione dei comparativi; ma quando nel 1857 un suo nipote pure prete, Pio Sirotti, le ripubblicò, vi aggiunse una Nota alla lettera IV che chiari- sce le ragioni della scelta. Criticando l’affermazione di Salvatore Corticelli (autore di una fortunata grammatica italiana uscita nel 1745 e in uso fin oltre la metà dell’Ottocento) secondo cui «i comparativi nella nostra lingua si for- mano con aggiungere le particelle più o meno le quali significano accre- scimento o diminuzione» (1773: 11), Sirotti osserva: «Tutta la comparazione adunque sta in quelle particelle, e quindi è falso che gli aggettivi, ossia le qua- lificanti, nella nostra lingua abbiano il grado di comparazione» (Fabriani 1857: 73).

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Non si poteva dire meglio. In effetti, l’idea dei gradi dell’aggettivo è trat- tata con cautela nelle grammatiche italiane di riferimento (quelle cioè non destinate direttamente alla scuola, ma agli studiosi e agli studenti uni- versitari) uscite dal 1988 in poi. Solo la «grammatica ragionevole» di Lo Duca e Solarino (2004) ripete le formule delle grammatiche scolastiche. Luca Se- rianni, nella sua Grammatica italiana, sembra non volersene assumere la re- sponsabilità: «Fermo restando che le possibilità di intensificare una qualità, sul piano linguistico-espressivo, sono virtualmente illimitate, per l’aggettivo qualificativo la grammatica ha codificato tre modalità funzionali di espres- sione della qualità, ossia tre tipi di gradazione (o gradi)» (Serianni 1988: 178 V.56). La Nuova grammatica italiana di Salvi e Vanelli nomina «il cosiddetto “grado comparativo” degli A» (Salvi, Vanelli 2004: 171). La Grande grammatica italiana di consultazione curata da Lorenzo Renzi e Giampaolo Salvi, nel capi- tolo dedicato al sintagma aggettivale, scritto da Maria Teresa Guasti, si limita a questa secca annotazione: «Altri modificatori, come meno, più, hanno la funzione di mettere a confronto il grado della qualità espressa dall’aggettivo» (Guasti 1991: 321); dunque, come diceva don Sirotti, la comparazione sta tut- ta in quegli avverbi modificatori.

Per trovare una presa di posizione del tutto chiara bisogna infine ricor- rere alla Grammatica della lingua italiana di Christoph Schwarze, cioè a un autore che non ha per madrelingua l’italiano, ma una lingua come il tedesco che (al pari dell’inglese) ha davvero per gli aggettivi un comparativo e un su- perlativo morfologico (schön ‘bello’, schöner ‘più bello’, schönst ‘il più bello’): «L’aggettivo italiano […] non ha procedimenti di flessione per la formazione del comparativo e del superlativo; le due categorie corrispondenti si formano con procedimento sintattico» (Schwarze 2009: 171); cosa che non significa ignorare la comparazione: al contrario, nella parte di questa grammatica che assume un punto di vista nozionale, un intero capitolo è poi dedicato all’insieme dei procedimenti di comparazione.

Tutto quanto si è detto si estende al cosiddetto superlativo relativo, che pure non è una forma dell’aggettivo ma un costrutto sintattico: premettendo a più o meno l’articolo determinativo si crea un riferimento specifico ad un singolo oggetto, e lo si paragona a tutta una classe di oggetti: “Il più avvin- cente tra i romanzi di Camilleri”. Lo spiegava bene Francesco Soave nella cita- ta Grammatica ragionata, dove lo chiamava «superlativo di paragone»: «In tanto poi il superlativo di paragone richiede sempre l’articolo, in quanto ap- punto l’oggetto, al quale egli si aggiunge, resta da lui assolutamente, e preci- samente determinato fra tutti quegli altri, con cui egli si paragona» (Soave 1771/1802: 35-36).

Ma c’è almeno un “grado dell’aggettivo” prodotto morfologicamente, il “superlativo assoluto” creato col suffisso –issimo (più di rado –errimo)? Natu- ralmente esiste, ma non ha niente a che fare coi procedimenti comparativo e superlativo relativo. Non è parallelo al superlativo delle lingue che ne hanno

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uno morfologico, come l’inglese e il tedesco: il superlativo in –est dell’inglese e in –st del tedesco non corrisponde al nostro superlativo assoluto, ma al su- perlativo relativo: “una strada lunghissima” è in inglese a very long road, non certo *a longest road, mentre the longest road è ‘la strada più lunga’ (fra tan- te). Per evitare equivoci le grammatiche di riferimento più moderne non par- lano, per l’italiano, di un “superlativo assoluto”, ma di un elativo, che non è un “grado”, ma un alterato: bianchissimo non va messo in serie con più bianco, ma con biancastro, piccolissimo con piccoletto3.

Ma infine, nell’insegnamento scolastico è poi importante fare queste di- stinzioni? Certo se ne può fare a meno, come si potrebbe tranquillamente fare a meno di dedicare una mezza pagina di manuale o una mezz’ora di lezione a un fenomeno tutto sommato marginale, creando l’obbligo di specificare “gra- do: positivo” a quasi ogni aggettivo negli esercizi di analisi grammaticale. Ma se se ne parla, non bisogna fare affermazioni infondate; è questo un principio pedagogico essenziale che dovrebbe ispirare qualsiasi attività di riflessione sulla lingua: se questa attività deve essere educativa, non deve contraddire, ma incoraggiare uno sforzo di esame critico e verifica fattuale dei concetti che si introducono.

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