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3.1 Un essere senza mondo.

Come già ricordato en passant nel capitolo precedente, tutta la filosofia di Anders si basa su un presupposto teorico: l’indeterminatezza dell’essere dell’uomo. Infatti, nei suoi primi saggi francesi, Günther Anders pone le basi del proprio pensiero filosofico. Lo fa, però, negativamente, ossia rilevando più che le qualità umane, i limiti dell’uomo.

Il primo saggio, dal titolo Un’interpretazione dell’a posteriori136, è il testo in cui il

filosofo tedesco tenta di definire l’essere dell’uomo, determinato dall’indeterminatezza: “l’uomo ‘viene al mondo’; inizialmente ne è escluso. […] Non è tagliato per il mondo.137

Anders metabolizza la gettatezza dell’esserci138, definita tale dal suo maestro Heidegger

come non avere controllo né contatto con la propria origine. L’uomo si trova “gettato” in un mondo che non è suo, “perciò non può anticiparne una nozione materiale. È costretto a recuperare il mondo139”. Quindi l’uomo, “determinato” unicamente dall’esperienza, non ha “materia data a priori140”: l’uomo è un essere che viene al mondo senza sapere cosa si

trova davanti. L’animale, invece, “non viene al mondo, il suo mondo viene con lui141”.

Cioè, l’animale fa parte del mondo, è un attore che si presenta già col copione in mano alla prima apparizione, e che recita, perfettamente integrato, la propria parte. L’uomo no. L’uomo si presenta con un copione bianco e se lo deve scrivere di proprio pugno.

Questa asimmetria fra animale e uomo si ha effetti, però, anche da un altro punto di vista: “la materia a priori dell’animale gioca allo stesso tempo il ruolo di sbarramento142”.

Infatti le percezioni dell’animale “non vanno al di là del contenuto già anticipato143”, ossia

non aggiungono nulla alla precomprensione del mondo già presente nell’essere dell’animale; “l’animale non apprende nulla di veramente nuovo144”. L’uomo, invece è

136 In G. Anders, Patologia della libertà. Saggio sulla non identificazione, op. cit.. 137 Ivi, p. 39.

138 Ivi, p. 46: “Come ha dimostrato Heidegger, la vita è in generale il fatto di ‘essere già da sempre installati

nel mondo’”. 139 Ibidem. 140 Ivi, p. 40. 141 Ibidem. 142 Ivi, p. 41. 143 Ibidem. 144 Ivi, p. 42.

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capace di “inglobare” nel suo divenire ciò che gli rimane estraneo, cioè tutto. L’esperienza dell’uomo è “percezione dell’inedito”145, quella dell’animale no.

È una lista dove in ogni momento si inscrive quanto, dell’insieme anticipato, diviene presente. D’altronde, questa percezione non è in alcun modo percezione di un oggetto. Il contenuto percepito non è un oggetto distinto che si realizzi secondo lo schema husserliano, riempiendo l’attesa di una rappresentazione anticipata, o di un’intenzione. La mancanza che qui si trova colmata è quella del bisogno, stato d’essere nella sua interezza che nella percezione è coestensivo al mondo. Colui che ritorna all’aria aperta dopo esserne stato privato non la percepisce, non sovrappone l’aria a una rappresentazione precedente. È “appagato”, vale a dire, possiede ciò che deve possedere e ciò per cui è fatto. Similmente, il contenuto percepito gioca per l’animale il ruolo di “appagamento”146.

Questa spiegazione valga per definire il “coefficiente di integrazione” con il mondo di cui l’animale è portatore. Infatti, secondo Anders, “un essere è un animale in quanto, a un certo grado, realizza un’intimità col tutto al quale appartiene, non senza manifestare al tempo stesso, con i suoi movimenti e per il fatto stesso della sua individualità, una qualche libertà rispetto al mondo”147.

Ora, a questa descrizione, di un (generico) animale perfettamente “installato” nel proprio ambiente-mondo, si oppone quella dell’uomo. Questo perché l’uomo è “privo di una materia a priori […] è così straniero, così poco adatto al mondo, così scollegato da esso, tanto da arrivare a porsi la strana questione della realtà del mondo esterno”148.

Anders ironizza, qui, sulla vecchia filosofia cartesiana: l’uomo è talmente staccato dal mondo in cui viene ad essere che arriva persino a mettere in dubbio l’esistenza stessa di quel mondo.

Questa posizione dell’uomo e i suoi dubbi sulla realtà del mondo stanno a dimostrazione, secondo il pensiero di Anders, della libertà dell’uomo stesso. Infatti, dall’essere slegato dal mondo, l’uomo acquisisce, di fatto, la libertà di potere tutto, la “libertà di manovra”, ed è per questo che il suo spirito è “inquieto”.

L’uomo “è costretto a conoscere il mondo aprés-coup [posteriormente]; deve invocarlo innanzitutto attraverso il logos; non ne anticipa la materia”149. L’uomo ha

145 Ibidem. 146 Ivi, p. 43. 147 Ivi, p. 44. 148 Ivi, p. 45. 149 Ivi, p. 48.

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dunque un rapporto empirico e retrospettivo col mondo. È solo “grazie all’invenzione [corsivo nostro]” che “egli oltrepassa il mondo che gli si presenta e gli si offre. In quanto artefice [corsivo nostro], è indipendente dalla realtà del mondo ed è libero davanti ad esso”150.

La libertà umana deriva dunque dall’indeterminatezza dell’essere dell’uomo, che non ha mai un proprio mondo, ed è costretto, per questo stesso motivo, a costruirselo: è attraverso l’invenzione di nuovi mondi, attraverso la sperimentazione di possibilità che l’uomo esperisce la propria libertà, d’essere obbligato ad una tale libertà: autonomia e libero arbitrio sono le forme più radicali di una tale libertà151.

Il punto di partenza del problema della libertà sta nel fatto che l’uomo, straniero al mondo, è staccato dal mondo, è abbandonato a sé stesso. La libertà non è inizialmente né una decisione né un’autonomia morale. […] L’a posteriori è un carattere a priori dell’uomo; l’elemento di posteriorità appartenente alle esperienze a posteriori è incluso a priori nell’essenza dell’uomo. In virtù del suo essere, l’uomo può avere e avrà, nel corso della sua vita, dei rapporti col mondo, tutti segnati dal marchio dell’a posteriori. […] L’uomo non prevede i materiali determinati rispetto ai quali è libero, ma ha il presentimento di andare incontro all’insaputo. I suoi poteri a priori sono puramente formali152.

Forse, si presenta qui la possibilità di un parallelo (ancora una volta) fra l’essere dell’uomo e quello delle nuove Intelligenze Artificiali: anch’esse “costruiscono” a mano a mano che fanno “esperienza” la propria “comprensione del mondo” (o ambiente, porzione di mondo); anch’esse non possono che fare ciò per cui “si trovano determinate”. Evidentemente manca loro il libero arbitrio (inteso come quella capacità etica umana di poter assumere e rinunciare a qualsiasi principio); ciò non vale, come abbiamo visto, per l’autonomia153.

Tornando all’analisi di Anders, è nel senso di “uomo come essere costretto alla libertà” che si parla di “antropologia negativa”: la distanza dal mondo (la libertà) e la comunicazione con esso (l’esperienza) sono il coefficiente specifico dell’uomo. Egli è, in un tal senso, mancante di una qualsiasi determinazione. Non può che essere libero.

150 Ivi, p. 49. 151 Cfr. Ivi, p. 50. 152 Ivi, pp. 51-52-53. 153 Supra.

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L’esperienza dell’uomo “si applica a tutto e va girovagando, capace di scoperta e di curiosità”, e facendo ciò “si afferma come libera e senza legami con una materia a priori che sbarrerebbe altri cammini”154. Essa è il veicolo della libertà umana.

L’importante è il rapporto, la relazione che l’uomo intrattiene col mondo: sempre di natura empirica, l’uomo instaura la sua relazione col mondo creandola, letteralmente. “In quanto homo faber, l’uomo modella il mondo, lo modifica col suo intervento”155 ed

arriva infine a costituirne uno suo proprio che, in quanto nuovo e ulteriore, è una sovrastruttura.

L’uomo, dunque, è ben integrato nella sua situazione: per vivere, ha bisogno di un altro mondo, e deve, tramite l’invenzione, oltrepassare il mondo che gli si offre: ma è libero proprio per questo motivo. Il mondo, la cui offerta corrispondeva alla domanda dell’animale e in cui l’animale si trovava perfettamente in equilibrio, è al di sotto della domanda e delle impossibili pretese dell’uomo […]. L’uomo è tagliato per un mondo che non esiste; ma è anche capace di recuperarlo, di realizzarlo aprés-coup156.

L’uomo è quindi determinato da una distanza fondamentale dal mondo, e anzi deve inventare il proprio mondo. Ed è questa stessa distanza che “lo costringe a creare degli strumenti, dei mezzi e degli ‘effetti’ in generale”157. Infatti, l’uomo può vedere un mezzo

a suo servizio negli oggetti naturali perché è capace di “separare, col pensiero, l’esistenza dall’essenza”, e può far questo “perché la sua esistenza è indipendente e libera rispetto all’esistenza o alla non-esistenza di un oggetto determinato”158. Dunque anche tutta la

divisione fra teoria e prassi (come anche Anders fa notare) risiede nella libertà naturale dell’uomo.

Soprattutto, l’uomo ha un particolare rapporto con il non-essere e l’assenza159.

L’animale non comprende l’assenza, “non è capace né di rappresentazione né di ricerca, […] non agisce per trovare ciò che gli manca, è agitato a causa della sua privazione”160.

Solo l’uomo, infatti, fa “dell’assenza un oggetto positivo di rappresentazione”161, proprio

154 Ivi, pp. 54-55. 155 Ivi, p. 57. 156 Ivi, pp. 57-58.

157 Ivi, p. 62. Poco dopo Anders afferma che “è questa distanza che, in ultimo, lo rendere capace di creare

degli oggetti quasi-liberi, le opere d’arte”. Se dunque l’opera d’arte, per Anders, ha uno statuto a sé per il fatto di essere comunicazione col mondo ma “autonome”, immaginiamoci lo stesso, se non molto di più, in riguardo delle Intelligenze Artificiali, oggetti davvero quasi-liberi.

158 Ivi, p. 63.

159 Anche qui si sentono gli echi dell’insegnamento heideggeriano. 160 Ivi, p. 64.

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in quanto libero e capace prendere distanza da un mondo che non è suo, di separare le esistenze dalle essenze: l’uomo ha capacità di astrarre.

In esso la capacità di astrazione, che fa tutt’uno con la libertà di trasformare il mondo, è vista da Anders come “la categoria antropologica fondamentale” che paradossalmente fa dell’artificialità la natura propria dell’essere umano. Da questa artificialità e mancanza di fissità umana emerge la negatività di un’antropologia che rinuncia a determinare in termini positivi l’essenza umana e assume la strutturale differenza tra mondo e umanità. L’ampiezza di questa frattura ontologica misura il grado di libertà dell’essere umano162.

È “in sé stesso che l’uomo trova il potere di sradicarsi dal mondo”163. L’uomo, come

già detto, non ha “materia a priori” e il suo mondo gli viene dato, per così dire, in seconda battuta. Insomma, se lo deve costruire. Secondo Anders è la sfiducia nei confronti del mondo (dunque dell’essere), derivante dalla coscienza della propria gettatezza, a far sì che l’uomo renda “ciò che non è più”, il non-essere, l’assenza, una presenza positiva164.

La potenza della negazione si traduce poi nella capacità umana di mentire, nella possibilità della falsificazione:

L’uomo può violentare il fatto, basandosi sull’affermazione della sua esistenza propria ed indipendente, egli può opporre un rifiuto a ciò che esiste o proclamare l’esistenza di ciò che non esiste; può rinnegare ciò che è165.

L’uomo, insomma, non “possiede [mai] un mondo puro e semplice”166. La storia

può essere descritta come “esperienza di mondi propria dell’essere umano nella sua costitutiva mancanza di fissità”167. È costretto alla libertà, dunque al fare, al costruire, al

mentire, all’assenza e al non-essere. Queste le conclusioni del primo saggio francese di Anders.

Nonostante questo testo sia evidentemente di stampo accademico e contenga un lessico fortemente specialistico, i punti salienti del pensiero di Anders sono chiari, e, come da futuri propositi dello stesso autore tedesco, la sua filosofia non si dimentica della

162 N. Mattucci, Quale politica per Günther Anders? La libertà nell’era dell’immagine, in AAVV,

Obsolescenza dell’umano. Günther Anders e il contemporaneo, Il Melangolo, Genova 2018, p. 46.

163 Ibidem. 164 Cfr. Ivi, p. 67. 165 Ibidem. 166 Ivi, p. 69.

167 N. Mattucci, Quale politica per Günther Anders? La libertà nell’era dell’immagine, in AAVV,

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vita vissuta. Infatti, anche se non si può dire che questa sia “filosofia d’occasione”168, possiamo certo affermare che la descrizione negativa dell’essere dell’uomo portata avanti da Anders si attiene fortemente alla realtà, e invece di erigere un “modello umano” con qualità e virtù proprie (selezionandone alcune e scartandone altre), Anders evidenzia solo quello che dell’uomo “si vede”: che è un essere instabile, mai definito fino in fondo, estraneo a questo mondo e quindi costretto a costruirsene uno proprio. Determinato, soprattutto, dal non-essere e dall’assenza, ossia da una costante distanza dal mondo. “L’estraneità dell’uomo al mondo”, conviene ribadirlo ancora, “in sostanza, assicura la sua apertura”169. Si tratta di un uomo, dunque, determinato al fare costante, l’homo faber.

La tecnica è per Anders inscritta nel codice genetico dell’uomo.

Questa descrizione filosofica dell’essere dell’uomo, assolutamente necessaria per la fondazione di una teoria o di un pensiero che voglia sempre porre la propria attenzione alla realtà delle cose, ci sembra fruttuosa per diversi motivi: essa è legata alla realtà per ciò che dice riguardo all’uomo, un essere segnato dall’assenza e dal non-essere e costretto al fare. Noi crediamo che questa descrizione possa essere utile soprattutto per noi, uomini d’oggi, evidentemente imbrigliati nella nostra mancanza di senso e in un’esistenza profondamente tecnologica.

L’essere umano sembra ricoprire una posizione particolare rispetto a tutte le altre forme di viventi per il fatto che il suo agire, non meccanicamente determinato dai geni, ha conseguenze sulla totalità della vita e per il fatto che l’umano appare come l’unico essere capace di assumersi una responsabilità nel cosmo, l’unico essere capace di rispondere delle conseguenze delle proprie azioni. […] La possibilità della libertà e della responsabilità morale, nonché la conoscenza del carattere vincolante di tale possibilità, costituiscono l’esperienza

morale fondamentale dell’uomo [corsivo nostro]. […] La tecnologia è il modo e

il mondo [corsivo nostro] ove tali dinamiche avvengono. Indagare la componente antropologica della tecnica ci ha permesso di svelare quel modo di esistere dell’essere umano che abbiamo chiamo condizione tecno-umana. […] L’uomo è costantemente a contatto con la sua finitezza storica. […] La tecnica-tecnologia e il complesso mondo degli artefatti tecnologici sono il primo luogo di evidenza di questa verità sull’uomo170.

168 Supra.

169 F. Lolli, Günther Anders, op. cit., p. 30.

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Questa condizione tecno-umana sarà il fulcro del nostro discorso, e dunque una tale definizione dell’uomo, come quella data dal giovane Anders171, sarà fondamentale. Essa,

inoltre, ci servirà per affrontare i prossimi testi di Anders172, in cui il filosofo esplora a fondo le “manchevolezze” dell’uomo (il dislivello prometeico), e soprattutto di quello dell’era della tecnica, cioè dell’uomo di oggi173. Queste “manchevolezze”, secondo

Anders, dovranno essere i nuovi fini dell’uomo, se egli vorrà avere qualche chance in più. In questa sede, piuttosto, presenteremo solo a grandi linee il secondo saggio francese di Anders, che dà anche il titolo al volume italiano, ossia Patologia della libertà. Saggio sulla non identificazione. Infatti, in questo testo del ’36, Anders prosegue le proprie speculazioni riguardo all’antropologia negativa, definendo le due figure in cui l’essere senza essere tenta di darsi una definizione: il nichilista e l’uomo storico. Li presenteremo per completezza e passeremo oltre, perché queste speculazioni andersiane sono poco affini al senso della nostra tesi, ma non si può, ancora, non riconoscere loro un alto livello di acume.

Il testo di Anders, di puro stampo esistenzialista, è una ripresa moderna dell’Aut- aut del filosofo danese Søren Kierkegaard. Come il Don Giovanni e il Giudice Wilhelm di Kierkegaard, il nichilista e l’uomo storico di Anders rappresentano due poli opposti in cui l’uomo estremizza le sue possibilità esistenziali. Il nichilista

[…] nel suo furore della contingenza, rinnega non solo l’unico, il particolare e il qualunque, non solo il suo essere personale, ma l’essere dell’esistente stesso, che ora piomba sotto la maledizione del contingente qualunque, come se fosse un’indifferente esistenza qualsiasi. “Che esiste un

171 G. Anders, Patologia della libertà. Saggio sulla non identificazione, op. cit., p. 74: “l’artificialità è la

natura dell’uomo e la sua essenza l’instabilità”.

172 Cfr. F. Lolli, Günther Anders, op. cit., pp. 26-27: “Il concetto di dislivello prometeico che Anders elaborò

dagli anni ’40 in poi mi sembra che riproponga – in una versione aggiornata dell’affermazione del capitalismo tecnologico e, successivamente, dalla tragicità degli eventi della Seconda guerra mondiale – quanto egli aveva teorizzato sul finire degli anni ’20 a proposito della indeterminatezza costitutiva dell’essere umano. L’inferiorità dell’uomo rispetto al prodotto tecnologico [il dislivello prometeico] si configura cioè, come evoluzione del tema della inferiorità dell’uomo rispetto all’animale che, negli anni giovanili, Anders aveva messo in relazione al suo essere sprovvisto di stabilità e di ‘naturale’ conformità al mondo. […] L’essere umano è radicalmente estraneo alla realtà che abita, separato da essa, privo di quella ‘naturalità’ che consente all’animale di entra in un rapporto diretto con le cose”.

173 Cfr. F. Miano, Il mondo del non più, in AAVV, L’uomo e la (sua) fine. Saggi su Günther Anders, op.

cit., p. 79: “La libertà prometeica, dunque, secondo Anders, ha contribuito a creare nell’interiorità

dell’essere umano un disordine tale da impedirgli di fatto qualsiasi previsione adeguata delle conseguenze evolutive (anche a livello applicativo) di ciò che egli stesso ha prodotto. Il dislivello prometeico infatti […] consiste in una condizione di vita di cui si fa concreta esperienza e che genera uno stato patologico collettivo.”

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mondo in generale” “che esiste un qualcosa” “che io sono semplicemente” […] ecco le formule ora usate dal nichilista174.

Nonostante le idee del nichilista, però, dice Anders, la vita va avanti. Ed è così che la vita diventa vita di qualcuno, come nel caso dell’uomo storico: egli, grazie al ricordo e alla memoria, non si identifica solo con la propria vita biografica, ma anche con quella di tutta la sua specie. L’uomo storico si riconosce dunque in un io e in un nome, che segnala anche l’inizio della società.

Il punto è, però, che per Anders entrambe le posizioni sono fallimentari, perché l’essere dell’uomo è la non-fissità, dunque la non-identificazione. Anzi, se ce n’è una che è “più sensata” dell’altra, è quella del nichilista:

Al di là di questa somiglianza, il ritratto del nichilista ci è sembrato filosoficamente molto più importante del ritratto dell’uomo situato nell’esistenza storica. Se l’essenza dell’uomo sta effettivamente nella sua non-fissità, e dunque nella sua propensione a mille incarnazioni, è il nichilista a fare di questa instabilità come tale il suo destino definitivo, e a determinarsi per mezzo dell’indeterminazione; ed egli non ne approfitta per specificarsi in un modo o nell’altro. […] Il nichilista […] è un ritratto dell’uomo dalle proporzioni

esagerate [outrées]175.

Queste le conclusioni di Anders. Conclusioni, quelle di questo secondo saggio, che saranno in evidente contrasto con il pensiero (e soprattutto con l’azione) del “secondo” Anders: del filosofo della tecnica e della vita “nato” il 6 Agosto 1945176, il quale si

impegnerà attivamente, dedicando tutta la propria vita non solo ad un tenace e costante confronto con la propria situazione storica condotto attraverso una serrata critica della tecnocrazia, ma anche all’attivismo politico e sociale.

3.2 Tecnocrazia.

Abbiamo visto nel paragrafo precedente che la filosofia di Anders si fonda su una definizione negativa dell’essere dell’uomo. Determinato da una originaria scissione col mondo, che non è mai suo a priori, l’uomo fa esperienza, cerca un senso nell’a posteriori,

174 G. Anders, Patologia della libertà. Saggio sulla non identificazione, op. cit., p. 85. 175 Ivi, p. 133.

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è costretto alla libertà: alla edificazione di un proprio mondo attraverso le proprie capacità pratiche (tecniche).

Qui, però, troviamo un ulteriore punto di rottura. Infatti, come abbiamo visto, l’uomo è costretto a costruire un proprio mondo, ma non riesce mai nell’identificazione totale con esso, perché, in ogni caso, ogni sua costruzione è, per l’appunto, un artificio. L’uomo è dunque segnato intrinsecamente dall’artificialità. Evidentemente, l’uomo non è solo artificialità, ma, allo stesso modo, è palese quanto questa sua parte sia d’assoluta preponderanza nella sua definizione. “Il mondo della tecnica-tecnologia è il luogo esistenziale, la condizione tecno-umana in cui si mostra la grandezza della sua vocazione nella fragilità della sua costituzione”177. L’uomo, in effetti, si trova da sempre immerso

in questa condizione, e forse essa è la stessa per cui l’uomo è riuscito, nella storia, non solo a sopravvivere come specie, ma anche a stabilire il proprio dominio incontrastato sulla natura. Tenteremo ora, sempre attraverso l’opera di Anders, di descrivere questa condizione dell’uomo, ma soprattutto di capire come e perché questa situazione imbrigli

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