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Use e habit: ovvero, come rendere “abituale” il buon uso di sé

modellamento sociale e formazione del carattere

4. Use e habit: ovvero, come rendere “abituale” il buon uso di sé

How use doth breed a habit in a man!

(William Shakespeare, The Two Gentlemen of Verona, V.iv.1)

La distinzione tra buoni e cattivi usi del sé mirava anche, in particolare,

a promuovere i buoni usi, ovvero le virtù, in modo da renderli appunto

usuali o abituali. Se, da un lato, un carattere virtuoso produceva spon-

taneamente dei comportamenti virtuosi, si riteneva possibile anche il contrario: che, cioè, l’effetto potesse, in qualche modo, generare la cau- sa e che, dunque, la pratica della virtù, attraverso un esercizio costante e ripetuto nel tempo, potesse rendere virtuosi persino quei soggetti per natura meno inclini alla virtù. L’ethos, insomma, era intimamente

collegato con la memoria – in particolare, con una memoria rafforzata attraverso l’applicazione pratica e l’esercizio. L’esercizio poteva, difatti, sia modificare certe deformità del corpo, trasformando in “diritto” ciò che era “curvo”,76 sia agire positivamente sulle imperfezioni o inade-

guatezze del comportamento pratico. Grazie, dunque, a un esercizio costante, vero e proprio allenamento mentale, il soggetto poteva riusci- re ad alterare lo “stampo” della propria natura. Come si vedrà, anche questi principi morali − al pari degli altri già discussi − risalgono alla filosofia classica: una volta chiaritene le premesse storico-teoriche, i loro esiti testuali appariranno chiaramente riconoscibili nella poesia del Rinascimento inglese.

Nel sonetto 95 Shakespeare (ovvero il suo alter ego lirico), dopo aver censurato il grazioso giovane per i suoi comportamenti poco corretti, conclude osservando che persino “[t]he hardest knife ill us’d

75 Nella sua risposta protofemminista a Swetnam, Rachel Speght, pur ribaltando le

conclusioni del suo avversario, ragiona a sua volta sugli usi della donna nel disegno della creazione divina, ricorrendo alla teoria aristotelica delle quattro cause (A Muzzle for Me- lastomus, 1617).

76 Richard Mulcaster, Positions: “exercise [...] will make that straight which was crooked”

(“l’esercizio può raddrizzare ciò che era curvo”). L’esempio è citato in OED, ed è com- mentato da Stephen Greenblatt, op. cit., p. 258n.

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doth lose his edge”: vale a dire, anche il coltello più tagliente, se “usato” male, diventa spuntato. Se, dunque, un buon uso di sé poteva rendere usuale la virtù, trasformandola in un “abito” comportamentale consolidato, viceversa un cattivo uso di sé poteva, nel tempo, guastare o corrompere anche le nature migliori: era, appunto, questo il rischio corso dall’affascinante giovane celebrato nella raccolta poetica.

Un’esposizione ancora più chiara di tali norme morali la si può trovare, ancora una volta, in alcuni loci di Hamlet. “[U]se almost can

change the stamp of nature” (“L’uso può quasi cambiare lo stampo della natura”) − sono le parole che Amleto rivolge alla madre Gertrude nella cosiddetta closet scene (la scena, cioè, che si svolge nelle stanze

private della regina):

That monster, Custom, who all sense doth eat

Of habits devil, is angel yet in this,

That to the use of actions fair and good

He likewise gives a frock or livery That aptly is put on. Refrain tonight And that shall lend a kind of easiness To the next astinence, the next more easy.

For use almost can change the stamp of nature

And either shame the devil or throw him out With wondrous potency.77

Per comprendere pienamente il senso delle parole di Amleto, è necessario innanzitutto ricostruire la scena nel suo insieme. Il principe danese sta esortando la madre a pentirsi per le colpe commesse in passato e a modificare, per il futuro, la propria condotta, in particolare attraverso una forma di astinenza sessuale (“abstinence”: III.iv.165). Amleto, tuttavia, non si limita a dare consigli di tipo circostanziale, ma enuncia una vera e propria teoria morale e psico-comportamenta- le. Il nucleo delle sue indicazioni etiche poggia sull’idea che ripetere un’azione generi una “consuetudine”, quasi un automatismo com- portamentale (un “custom” o un “habit”), che, gradualmente, va a scolpirsi nel carattere. In sintesi, Amleto suggerisce che “usando” un determinato comportamento lo si può rendere appunto “usuale” o

77 Hamlet, III.iv.159-68 (“La consuetudine, / quel mostro che consuma ogni sensibilità

/ nei confronti di diaboliche abitudini, è però un angelo in questo, / che anche all’uso di azioni buone e belle / dà parimenti una livrea o un abito, / che può essere indossato in maniera appropriata. Astenetevi stanotte: / ciò renderà più facile / la prossima astinenza, e ancor più facile la successiva. / L’uso, difatti, può quasi cambiare lo stampo della natura / e far vergognare il diavolo, se non scacciarlo fuori / con prepotenza”).

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“abituale”, e che un’abitudine in tal modo acquisita, attraverso eser- cizi di virtù opportunamente ripetuti, può modificare lo stampo o il calco della propria natura (“the stamp of nature”). Di conseguenza, il soggetto troverà sempre più facile conformare il suo comportamento a un insieme di pratiche virtuose che, nel tempo, gli si presenteranno non più come norme estranee o artificiali, bensì come scaturigini della propria stessa “natura”. Il mutamento di un’abitudine comportamen- tale, all’inizio difficile, si rivelerà via via più agevole, a mano a mano che le nuove forme, consolidandosi nello “stampo” del soggetto, e stabilizzandosi nella memoria, genereranno nuovi habits.

Se questa è la conclusione cui giunge Amleto, la sua premessa è però non meno importante: l’idea, cioè, che l’automatismo dei nostri comportamenti cancelli la nostra capacità di percepire il male: il “cu- stom” è, per lui, un mostro che “all sense doth eat / Of habits devil”,78

un mostro che azzera la nostra percezione del male. Si tratta, peraltro, di un punto centrale nell’ossatura etica del dramma: scopo di Amleto, nel suo discorso con la madre ma anche e soprattutto nella scena del play within the play, è restituire a una corte resa letteralmente e

simbolicamente cieca e sorda da un atto contro natura (il regicidio)79

la capacità di guardare al male con occhi nuovi, così come se lo si vedesse per la prima volta. Affinché ciò accada, il peccatore deve riu- scire a guardare sé stesso, e la propria coscienza, da una prospettiva inconsueta o inusuale e, in ogni caso, esterna: la regina deve guardare il suo cuore nell’immagine riflessa dello specchio che Amleto intende porgerle (“You go not till I set you up a glass / Where you may see the inmost part of you”),80 così come Claudio, a sua volta, deve guardare

la propria coscienza attraverso lo specchio del dramma fatto allestire per lui da Amleto. Scopo di Amleto nella tragedia, e scopo dell’arte drammatica in generale (in quanto “specchio della natura”), è riuscire a risvegliare nello spettatore quella sensibilità etica e quella verginità di sguardo che le cattive consuetudini e le convenzioni sociali hanno fatto lentamente assopire.81 Non a caso, nei versi successivi, Amleto

78 Hamlet, III.iv.159-60. Accanto a devil, in alcune edizioni viene proposta la lezione evil:

in ogni caso, sia che si adotti la prima sia che si preferisca la seconda, poco cambia ai fini del nostro discorso generale.

79 Si pensi al valore simbolico dell’orecchio avvelenato come forma di avvelenamento

dell’ascolto e, in generale, di incapacità di percepire/sentire il male.

80 Hamlet, III.iv.18-19 (“Non andrete via finché non vi avrò messa davanti a uno specchio

/ dove potrete vedere la parte più segreta di voi stessa”).

81 Le parole di Amleto sul purpose of playing sono in III.ii16ss. Le sue osservazioni sulle

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associa, per contiguità semantica, l’abito comportamentale all’abito vestiario (“a frock or livery / That aptly is put on”):82 sia l’uno che

l’altro rappresentano delle concrezioni capaci di nascondere, copren- dola, l’innocente nudità originaria.

La nozione psicologica di habit e le prescrizioni etiche che gravita-

no intorno ad essa, come anticipato, trovavano un preciso ascendente nella filosofia morale classica e, in particolare, in alcuni dei principi che informavano l’etica aristotelica. Per Aristotele, infatti, le virtù − al pari dei vizi − erano abiti (héxeis), ossia capacità sviluppate soprattutto

grazie a un esercizio costante.83 Dal momento che, a differenza degli

altri esseri viventi, l’uomo era l’unico a tendere in maniera consapevole verso la propria perfezione (vale a dire, verso il proprio scopo o télos),

lo sviluppo e il consolidamento di opportuni abiti comportamentali costituivano un aspetto centrale della vita etica. Nel Rinascimento europeo e inglese, grazie anche alla ripresa di motivi della filosofia aristotelica, il concetto di héxis o di habitus conservò una sua precisa

centralità nel pensiero morale, in autori di varia provenienza nazionale e culturale: da Melantone a Zabarella, a John Case.84

In virtù del suo legame etimologico con héko (‘avere’), héxis sug-

geriva un’attitudine, appunto, ‘acquisita’. Lo stesso può dirsi dei suoi equivalenti, sia classici che moderni: il latino habitus o habitudo (da habēre) o l’inglese habit (da to have). Da tale punto di vista, se le virtù

erano (anche) inclinazioni rafforzate attraverso esercizi ripetuti che le trasformavano gradualmente in habits, l’ethos si collocava non tanto

sotto l’egida dell’essere quanto sotto l’egida dell’avere.

82 In Shakespeare, “habit” aveva comunque entrambi i significati: cfr. ad esempio C. T.

Onions, A Shakespeare Glossary, enlarged and revised throghout by Robert D. Eagleson, Clarendon, Oxford, 1986, s. v.

83 Aristotele, Etica Nicomachea, a cura di Claudio Mazzarelli, Bompiani, Milano (2000),

2005.

84 Nell’Oratio de vita Aristotelis, Melantone “fa riferimento alla necessità, sostenuta dallo

stesso Aristotele, che il comportamento virtuoso inteso come medietà non sia fortuito, ma radicato al punto da diventare abituale”: Elisa Cuttini, Unità e pluralità nella tradizione europea della filosofia pratica di Aristotele, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005, p. 143. In un’altra opera, la Ethicae doctrinae elementa (1550), lo stesso Melantone illustra l’impor- tanza dell’habitus attraverso una similitudine pittorica: il “pittore esperto [...] dipinge con maggiore destrezza e in modo più spedito rispetto a chi non ne ha l’abitudine” (CR XVI, 210): Cuttini, Unità e pluralità nella tradizione europea della filosofia pratica di Aristotele, p. 144. Su Zabarella e John Case, cfr. Elisa Cuttini, “Human nature and habitus in the Ari- stotelian tradition: Giacomo Zabarella and John Case”, relazione presentata al Convegno a cura di Alessandra Petrina, The University in the Renaissance, Università degli studi di Padova, 7 aprile 2010, in corso di stampa.

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5. L’emancipazione dalla natura: