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A tal proposito, risulta necessario fornire una definizione riguardo il concetto di valore, o valore

aggiunto percepito da un cliente. Il concetto di valore esiste solo in misura limitata nella letteratura

di marketing. Monroe, nel 1991, definisce il valore percepito dal cliente come rapporto tra benefici percepiti e sacrificio percepito. Il sacrificio percepito include tutti i costi che l'acquirente deve affrontare quando effettua un acquisto: prezzo di acquisto, costi di acquisizione, trasporto, installazione, gestione degli ordini, riparazioni e manutenzione, rischio di guasti o prestazioni scadenti. I benefici percepiti sono invece una combinazione di attributi fisici, servizi, attributi e supporto tecnico disponibili in relazione al particolare utilizzo di prodotto, nonché il prezzo di acquisto e altri indicatori della qualità percepita. Zeithaml (1988) ha tuttavia definito il valore percepito dal cliente in maniera leggermente più specifica, affermando che “…il valore percepito è la valutazione complessiva del consumatore dell'utilità

di un prodotto basata su una percezione di ciò che viene ricevuto e ciò che viene dato”. Questa definizione

è quasi identica a quella di Monroe (1991), ma Zeithaml sottolinea anche questo valore percepito è soggettivo ed individuale e quindi varia tra i consumatori. Inoltre, una persona potrebbe valutare lo stesso prodotto in modo diverso in diverse occasioni. Il prezzo potrebbe essere il criterio più importante nel momento d’acquisto, un manuale di istruzioni chiaro e facilmente comprensibile, invece, può essere importante nella fase installazione e montaggio di un apparecchio.

Zeithaml non ha spiegato perché i consumatori possono avere percezioni diverse sul valore di una

medesima offerta. Con grande probabilità, questo fenomeno deve essere correlato al diverso insieme di valori personali, bisogni e preferenze, nonché le risorse finanziarie dei consumatori, poiché questi fattori influenzano chiaramente il valore percepito. La letteratura esistente presenta innumerevoli studi sulla percezione del valore da parte dei consumatori, tuttavia questo scritto non intende addentrarsi in modo specifico nell’argomento.

Per essere in grado di comprendere appieno il valore percepito dal cliente, però, è necessario illustrare brevemente la catena del valore dell’acquirente – così come percepita nei primi tempi della ricerca scientifica. Secondo Porter (1985) la catena del valore dell’acquirente è un punto di partenza per comprendere ciò che è prezioso per un cliente e può essere descritto, secondo Christopher et al. (1991), come "...una serie di azioni che un acquirente [ad esempio un cliente] intraprende in contesti specifici con

l'obiettivo di produrre valore per quel cliente stesso...". Rappresenta, quindi, la sequenza delle attività

svolte da un singolo acquirente o una famiglia con vari membri per cui il prodotto o il servizio è appropriato. Ad esempio, un conto bancario può essere un input nella catena del valore del cliente come dispositivo per il pagamento delle bollette o come investimento per il futuro. Il modo in cui il conto bancario viene effettivamente utilizzato è determinato dalle priorità e i valori del cliente e questi influenzano, quindi, gli aspetti che sono utili per quel cliente stesso. Dunque, stabilire quale valore il cliente stia in realtà cercando dall'offerta dell'azienda è un punto di partenza per poter offrire i giusti vantaggi in termini di valore.

Secondo Christopher et al. (1991) l'obiettivo doveva essere sempre quello di identificare quello che un cliente sta cercando di fare con l'offerta dell'azienda in un determinato momento e luogo. Possiamo quindi trarre delle conclusioni su ciò che viene valutato e perché. Successivamente questo aiuterà l'impresa a fornire un'offerta conforme alla catena del valore del cliente. Ovviamente è chiaro che il valore percepito dal cliente di un'offerta, vista attraverso gli occhi del cliente e legata alla propria catena del valore, deve anche essere altamente specifico in ogni situazione. Qualsiasi azienda che tenti di fornire un valore conforme alle esigenze dei propri clienti necessita di comprendere a fondo le esigenze e le attività del cliente che costituiscono la catena del valore di quest’ultimo. In caso contrario, il compito di fornire il giusto valore per i giusti clienti può culminare in un gioco pericoloso, dove le possibilità di vincere la battaglia per fidelizzare i clienti sono fortemente limitate. Per quanto unica possa essere un'offerta, la sua realizzazione potrebbe rivelarsi essere una perdita di tempo e denaro se non si adatta in modo accurato alle attività, alle sequenze e ai collegamenti nella catena del valore del cliente.

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Un metodo standard per monitorare la soddisfazione del cliente e il successo della propria offerta è guardare alla quota di mercato ed effettuare sondaggi ad hoc sulla soddisfazione dei propri clienti. Una quota stabile o crescente di mercato, infatti, è anch’essa considerata una misura di successo e quindi, indirettamente, della soddisfazione del cliente. Quando la base di clienti rimane stabile, la quota di mercato è una buona misura della soddisfazione. Tuttavia, non sempre si è in grado di capire se tale quota sia effettivamente stabile o se l'impresa stia perdendo una buona parte dei suoi clienti, che vengono sostituiti da nuovi per mezzo di marketing e vendite aggressive. In tali situazioni, seguendo le statistiche sulle quote di mercato, si può facilmente dare una falsa impressione di successo, quando in realtà il numero di clienti insoddisfatti e gli ex clienti aumentano e l'immagine dell'azienda deteriora. Inoltre, è chiaro che affidarsi esclusivamente alla quota di mercato come indice per la comprensione della soddisfazione dei propri clienti sia un metodo rischioso ed incompleto, specialmente nell’ambiente competitivo moderno caratterizzato da prodotti con cicli di vita brevi e nel quale il ricorso al Web ha dato accesso diretto alle aziende alla prospettiva e al pensiero dei consumatori.

Un’impresa produttrice di beni di largo consumo potrebbe in genere applicare una strategia di

Transactional Marketing, qualora ipotizzassimo che non abbia altro modo di misurare costantemente il

successo del mercato se non con il ricorso all’analisi della quota di mercato. Un’azienda fornitrice di servizi, d'altra parte, e molti mercati di beni industriali, che più facilmente potrebbero perseguire una strategia di Relationship Marketing, hanno qualche sorta di interazione con quasi ogni singolo cliente, anche se servono un mercato di massa. Pertanto, la soddisfazione del cliente può essere monitorata direttamente. Un'azienda che applica una strategia di tipo relazionale può monitorare la soddisfazione del cliente gestendone direttamente la propria base di clienti. Gestire la base di clienti significa che l'azienda ha qualche tipo di conoscenza diretta di quanto soddisfatti sono i clienti. Invece di pensare ad essi come gestione di numeri anonimi o quote di mercato, pensa in termini di persone con relazioni personali ed opinioni. Questo richiede mezzi per raccogliere i vari tipi di dati sui feedback dei clienti che, ogni giorno, sono ottenuti da in un gran numero di punti di contatto. In unione con statistiche sulla quota di mercato, un tale sistema di intelligence che si concentra sulla soddisfazione di bisogni e i desideri dei clienti costituisce una preziosa fonte di informazioni per il processo decisionale. Di conseguenza, in una situazione di Relationship Marketing, l'azienda può creare un sistema informativo in tempo reale. Questo sistema fornirà alla direzione un continuo database aggiornato dei suoi clienti e informazioni continue sul grado di soddisfazione e insoddisfazione tra essi. Questo può servire come un potentissimo strumento di gestione. Quanto detto rappresenta uno dei maggiori punti di differenza, e di vantaggio, nel passaggio da un marketing di tipo tradizionale e statico tipico della società moderna fino agli anni ’80 del secolo scorso, ad un marketing di tipo relazionale e contemporaneo. Ciò non significa, come già enunciato, che le 4P perdano del tutto la loro efficacia, tuttavia risulta necessario evidenziare le differenze tra i due approcci ad una strategia di marketing moderna. Per una trattazione più

approfondita su sistemi di misurazione, si rimanda al paragrafo “Creare una strategia di Relationship

Marketing: il “Six Markets Model” e modelli di misurazione”.

A questo punto della trattazione, tuttavia, si rende evidente sottolineare un aspetto che fino ad ora è stato dato per scontato e non esplicitamente trattato. È chiaro che nel momento in cui un’impresa e uno o più consumatori decidono di attuare un insieme di relazioni, per le quali un soggetto è portato ad acquistare uno specifico bene/servizio da un’azienda piuttosto che da un altro concorrente, l’instaurarsi di una relazione di fiducia duratura implica che tale consumatore ha consciamente ridotto la propria scelta nel momento di acquisto. Questo tipo di comportamento, definito da Shet J. e Parvatiyar A. (1995) come “comportamento razionale di mercato”, è una normalità e una pratica ormai stabile nei processi d’acquisto dei consumatori ed ha quindi alle proprie spalle una notevole ricerca scientifica già a partire dalla fine degli anni ’60 (Dick e Basu, 1994; Enis e Paul, 1970; Howard e Sheth, 1969; Jacoby e Chesnut,

1978; Sheth, 1967). È proprio per questo che, nel momento di analisi e della comprensione della lealtà

dei consumatori, si è passati dalla semplice analisi della quota di mercato al concetto di brand equity e

brand loyalty. Oltre all’impatto dell’attività di marketing svolta dalle aziende, vari motivi per i quali un

consumatore potrebbe decidere di instaurare una relazione con un’impresa sono già stati individuati da lungo tempo: raggiungimento di un maggiore grado di efficienza nel processo decisionale, semplificazione del processo di raccolta di informazioni e di ragionamento, consistenza nelle decisioni future e, ovviamente, riduzione del rischio. Esistono anche dei fattori collegati alla sfera sociale che influenzano le scelte dei consumatori quali il gruppo familiare o di conoscenti, l’insieme di valori e credenze, politiche del governo ecc.

In questo scritto non si intende approfondire nel dettaglio tali ragioni sopra esposte, tuttavia è interessante notare quelli che – a partire dagli anni ’90 con le prime analisi sulle pratiche di marketing contemporaneo – si ritenevano essere i benefici del Relationship Marketing. Reichheld e Sasser (1990) hanno dimostrato che è ampiamente più semplice e profittevole, dalle 5 alle 7 volte, mantenere i propri clienti piuttosto che reclutarne di nuovi. Inoltre, come già analizzato da Sheth e Sisodia (1995) in uno studio sull’industria bancaria, un cliente diventa più profittevole per un’azienda con il passare del tempo. Si riteneva, poi, che la relazione consumatore-marketer avrebbe potuto portare ad una maggiore efficienza e ad un minore spreco di risorse, portando sul mercato un’offerta il più coerente possibile con i bisogni dei clienti e riducendo allo stesso tempo costi di sviluppo, distribuzione e stoccaggio. Infine, si credeva che questa implicita collaborazione avrebbe potuto portare alla nascita di un consumatore proattivo – un concetto che precede anche l’ormai ampiamente discusso concetto di crowd-funding e di co-creazione di prodotti e servizi.

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Una visione altrettanto interessante sui problemi legati al Relationship Marketing è offerta da Moeller,

Fassnacht e Klose (2008)6. Nel loro studio di una catena di ipermercati tedesca, i ricercatori sono

partiti dal presupposto che, nonostante la letteratura avesse ripetutamente affermato e dimostrato che un aumento della soddisfazione dei consumatori fosse essenziale per migliori performance aziendali (tra cui l’aumento delle vendite), un secondo approccio era quello di evitare la diminuzione delle vendite da parte dei singoli consumatori cercando di prevenire la mancanza di soddisfazione. Anche se tale affermazione potrebbe sembrare banale e addirittura scontata, gli studiosi affermarono che questo approccio – detto Defensive Relationship Marketing – fosse particolarmente importante per i retailer del mercato di massa. Questo perché spesso, in questo tipo di mercati, i consumatori stessi non sempre danno voce alla loro mancata soddisfazione e possono diminuire la loro frequenza d’acquisto – e addirittura cambiare azienda di riferimento – inconsciamente.

Nel complesso, i risultati della ricerca evidenziarono l'importanza delle prestazioni chiave di un'azienda, in particolare per quelle relazioni che sono già in pericolo. Le prestazioni fondamentali, nel contesto dello studio, erano la qualità della merce e l'equità dei prezzi del rivenditore, sebbene l'equità dei prezzi fosse un giudizio comparativo positivo del rapporto prezzo/prestazioni. Per i clienti che avevano già iniziato a ridurre le loro vendite, un focus sulle prestazioni chiave sembrava essere l’arma vincente per evitare una riduzione delle vendite. Al contrario, le attività di marketing relazionale — sebbene avessero dato incentivi per migliorare le vendite - non avevano alcun impatto su immagine e fiducia nel brand, né influenzavano direttamente la diminuzione delle vendite. Pertanto, a parte un piccolo impatto positivo sulla soddisfazione, le attività di marketing relazionale non contribuivano a evitare la riduzione delle vendite. Gli autori, dunque, conclusero che per i clienti che avevano già iniziato a ridurre le loro vendite, le attività di marketing relazionale non potevano mitigare una bassa performance sui componenti principali delle offerte dei rivenditori. L'implicazione da trarre qui è che i fornitori avrebbero dovuto utilizzare i dati di acquisiti dai consumatori per trattare i propri clienti in base ai diversi segmenti di vendita. Non era infatti consigliabile avvicinarsi a questi clienti con attività di

marketing relazionale per evitare una riduzione delle vendite. Piuttosto, questi clienti potevano essere

contattati concentrandosi sull'alta qualità delle prestazioni chiave.

Nel complesso, gli autori suggerirono che i rivenditori avrebbero dovuto intraprendere attività di

marketing relazionale solo quando le loro offerte principali avevano già un elevato standard di qualità.

Di conseguenza, anche se il caso esaminato può fornire risultati contrastanti con quanto detto finora, il punto chiave che emerge dall’analisi è la necessità di avere solide basi di marketing mix – ovviamente adattate al proprio mercato – prima di intraprendere attività di marketing relazionale che potrebbero rivelarsi superflue se non addirittura non profittevoli. Un errore che spesso è stato commesso

6 Per il caso completo, si consulti Moeller S., Fassnacht M. e Klose S. (2008) – Defensive Relationship Marketing: Avoiding Decreasing Sales From Customers in Consumer Goods Mass Markets, Journal of Relationship Marketing, Vol. 7, No. 2, pp. 197- 215

nell’implementazione di pratiche di Relationship Marketing, infatti, è stato quello di aver considerato tecnologie e il ricorso ad una strategia relazionale senza avere alla base una solida offerta di mercato. Inoltre, come varrà successivamente illustrato, è impossibile ritenere che il marketing relazionale sia sempre applicabile a tutte le categorie di prodotti di tutti i retailer (specialmente all’interno del difficile contesto dei beni di largo consumo).