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risultati ottenuti, non sembra ci siano state sostanziali alterazioni a carico dei parametri analizzati ascrivibili all’uso di tali farmaci.

2.5 – Discussione

Attualmente l’utilizzo della procedura di RIPC come metodica preventiva nella U.O. Anestesia e Rianimazione Interdipartimentale dell’AOUP è di uso comune, quando possibile, nel momento in cui per il paziente si pone indicazione ad effettuare esame radiologico con mezzo di contrasto iodato. Se si pensa alle frequenti e significative comorbidità, alle gravi condizioni di base che caratterizzano il paziente in Terapia Intensiva, si comprende quanto importante possa risultare la nefro-protezione indotta dal RIPC. Considerata quella che è l’odierna tecnica di applicazione dello stimolo precondizionante, si può intuire come l’esecuzione della stessa sia inesorabilmente limitata a procedure svolte in regime d’elezione; è decisamente complicato, se non impossibile, per il momento, eseguire la procedura di RIPC in un contesto di urgenza/emergenza. In relazione a ciò, i soggetti inclusi nel nostro studio sono stati pazienti sostanzialmente stabili e conosciuti da un punto di vista anamnestico e chirurgico.

Il nostro studio ha dimostrato la capacità del RIPC di ridurre l’incidenza della CI-AKI, intesa come un incremento in valore assoluto della creatinina sierica ≥ 0,5 mg/dL o un aumento relativo del 25% rispetto al valore basale, verificatosi entro 72 ore dall’esame radiologico. La nefro-protezione si è estrinsecata soprattutto nei pazienti in cui era maggiore il rischio di sviluppare CI-AKI, ovvero in coloro i quali la funzione renale era già compromessa, seppur in maniera lieve e moderata. Inoltre anche nei pazienti diabetici il vantaggio tratto dalla procedura di RIPC è apparso superiore. Nel presente studio abbiamo preso in considerazione tutti i pazienti in Terapia Intensiva, non necessariamente chirurgici o con pregressa nefropatia, rispettando certamente i criteri di inclusione ed esclusione, ma senza far riferimento ad alcun tipo di classificazione di rischio di sviluppare CI-AKI.

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Nello studio di Er et al.100 sono state analizzati gli effetti del RIPC nei pazienti con alto rischio di sviluppare CIN, in accordo con il sistema di classificazione del rischio di sviluppare CIN elaborato da Mehran et al.101. Questa classificazione, basandosi su variabili cliniche e procedurali, individua quattro classi di rischio di sviluppo CI-AKI: rischio basso, rischio moderato, rischio alto, rischio molto alto. Diverso è il caso del lavoro compiuto da Igarashi et al.102, i cui pazienti coinvolti rientravano nelle classi di rischio bassa e moderata.

In entrambi i lavori è stata dimostrata la validità del RIPC. Nel lavoro di Er et al. è stata accertata la capacità del RIPC nel prevenire la CIN nei pazienti a rischio alto e molto alto. Igarashi et al. invece, che nel loro lavoro hanno incluso pazienti a rischio basso e moderato, hanno documentato l’efficacia del RIPC nel ridurre la CIN basata sui livelli di L-FABP, senza però riscontrare una riduzione della CIN basata sui livelli di creatinina sierica. Questi due studi, insieme ad altri, sono stati esaminati da Koch et al.104 in un lavoro di revisione sistematica. La conclusione a cui si è giunti è pienamente favorevole alla validità della procedura di RIPC come metodica di prevenzione della CI-AKI. Questo sicuramente nei pazienti ad alto rischio di sviluppare CI-AKI, mentre rimangono tutt’ora delle perplessità in merito alla sua validità nei pazienti il cui rischio è basso-moderato.

Il protocollo di RIPC utilizzato negli studi inclusi nella rewiew di Koch et al. è stato il medesimo, ossia 4 cicli composti da 5 minuti di gonfiaggio del bracciale, posto sull’arto superiore, alternati a 5 minuti di sgonfiaggio. Anche noi nel nostro studio ci siamo avvalsi dello stesso protocollo, il cosiddetto 5x5x4, applicato all’arto superiore. Questo è un concetto importante, come affermato da Hausenloy, uno dei più convinti fautori del RIPC, nonché promotore dell’ERICCA Trial precedentemente citato, il quale sostiene che alcuni dei risultati negativi a cui si è giunti nei pazienti cardiochirurgici sono dovuti proprio ai protocolli in uso, a volte discosti dai classici 5x5x3 o 5x5x4 (oggi considerati i più idonei nell’ottenere una cinetica di release molecolare che meglio induca il fenotipo adattativo).

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Inoltre nel presente studio, come nei lavori compresi nella rewiew di Koch et al., tutti i pazienti sono stati adeguatamente idratati, prima e dopo l’esposizione al mezzo di contrasto. Ai nostri pazienti è stata anche somministrata vitamina C. Ciò potrebbe indurci a pensare ad una verosimile azione sinergica tra i vari meccanismi protettivi, quindi non solo il singolo effetto del RIPC, nel conseguimento dei risultati riscontrati.

Nonostante il rilevante potenziale clinico, il preciso meccanismo d’azione del RIPC nel determinare nefro-protezione non è stato ancora del tutto chiarito. Nello studio sopracitato di Igarashi et al., gli autori hanno concluso che il RIPC riduce l’incidenza della CIN agendo attraverso la riduzione dello stress ossidativo e dei livelli di ADMA (inibitore competitivo endogeno di NOS).

La patogenesi della CI-AKI è multifattoriale e coinvolge fattori tubulari, vascolari ed emodinamici. La teoria oggi più comune sulla fisiopatologia della CI-AKI corrisponde all’induzione del danno ischemico renale, occorso in seguito alla somministrazione di mezzo di contrasto iodato che causa riduzione del flusso ematico renale e tossicità tubulare diretta e mediata dai ROS34. Per contro, l’azione benefica del RIPC nei confronti della CIN potrebbe essere ascrivibile agli effetti sui mitocondri111, sulle cellule infiammatorie circolanti112, sulla up-regolazione trascrizionale di pathways molecolari protettivi113, 114 e neurali115.

Oltre al primario obiettivo di valutare l’incidenza della CIN, nel presente studio, come endpoints secondari, abbiamo analizzato l’andamento dei valori di creatinina sierica, ponendo la nostra attenzione sui pazienti con malattia renale cronica e sui pazienti diabetici. In entrambi questi sotto- gruppi abbiamo riscontrato delle rilevanti differenze tra i pazienti precondizionati e i pazienti non sottoposti a stimolo precondizionante. Nel sotto-gruppo RIPC dei pazienti con CKD i valori della creatinina sierica hanno mostrato un trend caratterizzato da maggiore stabilità rispetto a quello NO-RIPC. Lo stesso dicasi per il sotto-gruppo RIPC dei pazienti diabetici, in cui l’andamento della creatininemia anche qui è risultato più conservativo.

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Sempre tra gli endpoints secondari, di particolare interesse è la correlazione con le classi di farmaci assunte dai pazienti, potenzialmente capaci di alterare gli effetti indotti tramite lo stimolo del RIPC. Nel nostro studio, e per il piccolo numero di pazienti inclusi e per la complessità dei pazienti stessi in UTI, è risultato alquanto difficile valutare l’influenza di una singola classe di farmaci. Molti di questi farmaci hanno azione a livello del parenchima renale, pertanto a seconda del loro effetto possono agire sinergicamente al RIPC o viceversa limitarne l’efficacia. In generale, da tale valutazione non sembra ci siano state modifiche significative sui parametri esaminati, ergo sull’efficacia del RIPC. I farmaci presi in considerazione sono i vasoattivi, gli anti-ipertensivi, gli aminoglicosidi, i diuretici, la cardioaspirina.

Farmaci vasoattivi: provocando un aumento delle resistenze periferiche, determinano vasocostrizione a livello del parenchima renale, andando così a contrastare l’effetto dei mediatori del RIPC che al contrario tenderebbero a vasodilatare (NO fra tutti) e quindi a migliorare la perfusione renale. Pertanto i pazienti che non assumono vasoattivi trarrebbero maggior vantaggio dalla procedura di RIPC.

Farmaci anti-ipertensivi: hanno azione sinergica, ma occorre distinguere i differenti meccanismi relativi ai vari farmaci anti-ipertensivi attraverso cui ciò si realizza.

 Bisoprololo: si tratta di un beta-bloccante il cui bersaglio d’azione è il SNP (sistema nervoso simpatico); dotato di spiccata cardioselettività (recettori beta-1), agisce principalmente a livello cardiaco e la sua azione sui recettori beta-2 periferici (fondamentali nella gestione del profilo metabolico) è molto esigua. L’azione principale sui recettori beta-1 determina diminuzione del lavoro cardiaco ed ha effetto bradicardizzante.

 Amlodipina: calcio-antagonista appartenente alla classe delle diidropiridine; determina un abbassamento della pressione arteriosa inibendo la contrattilità della tonaca muscolare dei vasi periferici, che a livello renale si traduce in una diminuzione del tono delle arterie

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interlobari con conseguente miglioramento della perfusione globale dell’organo.

 Diltiazem: calcio-antagonista appartenente alla classe delle benzotiazepine; agisce a livello cardiaco con effetto inotropo, cronotropo e dromotropo negativo e sui vasi periferici con gli stessi effetti (meno consistenti) dell’Amlodipina.

 Valsartan-idroclorotiazide: farmaco della classe dei sartani che agisce sul SRAA (sistema renina-angiotensina-aldosterone) antagonizzando gli effetti dell’angiotensina II, il più potente vasocostrittore endogeno; inibendo il recettore dell’angiotensina II, i sartani migliorano la perfusione renale.

Farmaci antibiotici: gli aminoglicosidi in particolare, tra gli antibiotici con maggiore nefrotossicità; in questi casi l’AKI si sviluppa di solito dopo almeno 5-7 giorni dall’inizio della terapia, per poi migliorare fino ad una completa ripresa della funzione renale dopo la sospensione del farmaco nella maggior parte dei casi. I fattori di rischio per lo sviluppo di nefrotossicità sono l’età avanzata, il tipo di aminoglicoside usato, la durata della terapia, la presenza di malattia renale cronica, il ricorso a dosaggi elevati, l’ipotensione, la disidratazione, la presenza di malattia epatica, la concomitante somministrazione di altri farmaci nefrotossici. Gli aminoglicosidi si legano ai fosfolipidi di membrana delle cellule tubulari causando fosfolipidosi e conseguente morte cellulare; inoltre hanno la capacità di inibire molti trasportatori di membrana e ciò comporta un alterato riassorbimento di calcio, magnesio, sodio e potassio; l’accumulo di residui cellulari nel lume tubulare ne causa l’ostruzione, riducendo così la funzione escretoria dei nefroni colpiti; possono causare proteinuria; determinano vasocostrizione dell’arteriola afferente con conseguente riduzione del GFR. Questi farmaci dunque antagonizzano gli effetti benefici del RIPC.

Farmaci diuretici: nei pazienti in terapia con Furosemide il rene, sottoposto ad uno stimolo a livello dell’ansa ascendente di Henle che determina un consistente scarico di liquidi, reagisce alla diminuzione della volemia dando

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vasocostrizione delle arterie interlobari. Questo potrebbe limitare l’efficacia del RIPC.

Farmaci antiaggreganti: la cardioaspirina si oppone all’effetto benefico del RIPC; i salicilati infatti down-regolano la produzione di PGD2 (prostaglandina D2), che ha effetto vasodilatante, per cui questo andrebbe a contrastare la vasodilatazione RIPC-indotta. Inoltre in letteratura è noto che esiste una nefropatia FANS-indotta, motivo ulteriore di un potenziale effetto negativo sul rene imputabile all’uso di questa classe di farmaci.

Infine, è molto importante sottolineare che nella valutazione della sicurezza del paziente nel corso della procedura di RIPC non è stato riscontrato alcun evento avverso e la procedura stessa si è dimostrata ben tollerabile da parte dei pazienti in studio. Questo a conferma di quanto riportato nella letteratura corrente, in cui l’esecuzione del RIPC è definita come una procedura innocua, totalmente scevra di eventi avversi.

Limiti dello studio

Ci sono diverse limitazioni nel presente studio.

In primis la scelta dei markers di danno renale, la creatinina sierica nel nostro caso, il cui picco di incremento si presenta nelle 48-72 ore successive all’insulto renale e a volte, anche se più raro, entro 5 giorni. Inoltre prima di osservarne un incremento possiamo avere una compromissione del 50% della funzione renale. Si intuisce pertanto l’improbabilità di fare una diagnosi precoce di CIN; in questo senso ci sono alcuni markers, quali L- FABP, N-GAL, Cistatina C, che mostrano un incremento più precoce ed hanno una sensibilità e specificità superiori rispetto alla creatinina. Occorre però precisare che per quanto utili possano essere, a questi markers non ancora corrispondono dei valori definiti in modo consensuale che consentano di fare diagnosi di danno renale acuto. Avere una chiara definizione di AKI o di CI-AKI per qualsiasi tipo di studio è fondamentale e a tal proposito la creatinina, seppur con i suoi limiti, è un parametro che

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gode di standardizzazione internazionale. Per giunta, anche se più accurati, il dosaggio di questi markers ha dei costi molto più elevati rispetto alla creatinina.

Un altro limite importante coincide con la tipologia di pazienti. Lo studio è stato svolto in Unità di Terapia Intensiva, quindi con pazienti critici, soggetti di frequente a manipolazione da parte del personale medico ed infermieristico, nei confronti della cui attività non si può certamente interferire. Ciò si traduce naturalmente in una limitazione al reclutamento dei pazienti.

Ulteriore rilevante limite è costituito dal piccolo campione in studio. Dato il numero esiguo dei pazienti, nonostante i risultati ottenuti siano positivi, non è concepibile interpretare gli effetti ottenuti tramite lo stimolo di RIPC come decisivi, vantaggiosi in tutti i pazienti di nostro interesse in Terapia Intensiva. Il nostro lavoro infatti vuole essere preliminare a studi più ampi, possibilmente randomizzati, con l’intento di far approdare il RIPC come metodica preventiva alla nefropatia indotta da mezzo di contrasto nella pratica clinica quotidiana di ogni reparto, non soltanto in UTI.

2.6 – Conclusioni e prospettive

Il concetto di nefro-protezione interessa da vicino l’Area Critica e gli ambienti di Terapia Intensiva per diverse ragioni, che vanno dal largo impiego di farmaci nefrotossici in pazienti critici, alle frequenti comorbidità in questi pazienti con gravi condizioni di base, alla sovente necessità di esami radiologici con mezzo di contrasto. In un contesto del genere il Precondizionamento Ischemico Remoto ha facoltà di rappresentare uno strumento potenzialmente valido, di semplice impiego, a basso costo ed esente da reazioni avverse, nel campo della nefro-protezione. In particolare, come emerso dalla odierna letteratura, è la nefro-protezione da mezzo di contrasto iodato il principale campo in cui il RIPC si è dimostrato valevole. Coerentemente a quanto accertato in letteratura, il risultato positivo del nostro studio ci spinge ad approfondire ulteriormente l’uso del RIPC, come

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metodica di prevenzione della CI-AKI nei pazienti che vengono inviati ad indagini radiologiche che richiedono mezzo di contrasto iodato o a procedure interventistiche di rivascolarizzazione in cui il volume di contrasto richiesto è maggiore. Il tutto sempre in regime di elezione. La naturale prosecuzione del nostro studio infatti vedrà un’applicazione del RIPC in corso interventi di rivascolarizzazione in angiografia interventistica.

Appare dunque evidente la necessità di eseguire altri studi in merito, atti a fornire ulteriori elementi a sostegno della capacità che ha il RIPC di attivare la serie di meccanismi molecolari precedentemente detti e porre il rene in una condizione emodinamica e biochimica tale da rendere possibile una migliore tolleranza nei confronti dell’insulto rappresentato dal mezzo di contrasto iodato.

Proseguire lungo questo percorso di studi, ampi, randomizzati e in doppio cieco, è la conditio sine qua non affinché si giunga all’inserimento del RIPC all’interno di un protocollo di prevenzione della CIN, applicabile in qualsiasi tipo di reparto; in più è una strada indispensabile per arrivare a comprendere chiaramente quali siano i pazienti che beneficiano di questa procedura, cioè se soltanto quelli fortemente a rischio di sviluppare CIN oppure tutti i pazienti, considerando che ogni esposizione è alla fine dannosa a livello renale, come ci suggerisce il lavoro di Igarashi et al.102.

In conclusione, dato che i pazienti che sviluppano CI-AKI hanno un aumentato rischio di morte o di prolungata ospedalizzazione, così come di altri outcomes avversi, tra cui eventi cardiovascolari precoci o tardivi, la prevenzione della CIN rappresenta così la chiave di un problema rilevante, perché permette di ridurre la morbidità e la mortalità, nonché la spesa sanitaria correlata.

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CAPITOLO III – BIBLIOGRAFIA

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