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Valutazione del Precondizionamento Ischemico Remoto nella prevenzione della nefropatia indotta da mezzo di contrasto in UTI

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell’Area Critica Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia

CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN MEDICINA E CHIRURGIA

TESI DI LAUREA

VALUTAZIONE DEL PRECONDIZIONAMENTO ISCHEMICO REMOTO

NELLA PREVENZIONE DELLA NEFROPATIA INDOTTA DA MEZZO DI

CONTRASTO IN UTI

RELATORE Prof. Francesco Forfori CANDIDATO

Valerio Lecce

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INDICE

PRESENTAZIONE DELLO STUDIO, pag. 3

CAPITOLO I: INTRODUZIONE

1.1 Razionale, background e meccanismi molecolari del Precondizionamento Ischemico, pag. 5

1.2 Precondizionamento Ischemico Remoto: lo stato dell’arte, pag. 24 1.3 Effetti avversi dei Mezzi di Contrasto: patogenesi, fattori di rischio e prevenzione della CIN, pag. 33

1.4 Precondizionamento Ischemico Remoto e nefro-protezione: nuove prospettive, pag. 45

CAPITOLO II: STUDIO SPERIMENTALE 2.1 Disegno e setting dello studio, pag. 61 2.2 Obiettivi, pag. 61

2.3 Materiali e Metodi, pag. 62 2.4 Risultati, pag. 66

2.5 Discussione, pag. 77

2.6 Conclusioni e prospettive, pag. 83

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PRESENTAZIONE DELLO STUDIO

Il Precondizionamento Ischemico Remoto, o Remote Ischemic PreConditioning (RIPC), è una procedura che trae le sue basi dal più generico concetto di Precondizionamento Ischemico, la cui applicazione clinica si colloca principalmente in ambito cardiochirurgico e in radiologia interventistica per quanto riguarda interventi di rivascolarizzazione (PTCA e CABG).

Da un punto di vista storico potremmo paragonare il fenomeno di Precondizionamento Ischemico al Mitridatismo: Mitridate VI, anche noto come Mitridate il Grande, visse dal 132 a.C. al 63 a.C. e fu uno dei più notevoli avversari della Repubblica Romana. Egli, temendo di poter essere avvelenato per mano di avversari che cospiravano contro di lui, chiese al medico di corte, Crautea, di preparargli degli antidoti. Crautea cominciò a somministrargli un miscuglio di una cinquantina di veleni, quotidianamente e ciascuno in piccolissima quantità, il che rese Mitridate immune a qualsiasi veleno allora conosciuto. Nel momento in cui fu sconfitto da Pompeo Magno, chiese di essere pugnalato poiché era impossibile ucciderlo tramite avvelenamento. Mitridate, dunque, rese il suo organismo resistente allo stimolo nocivo sottoponendosi ripetutamente allo stesso stimolo, sebbene di esigua entità.

Il fascino del fenomeno di Precondizionamento Ischemico risiede proprio nella possibilità di istruire a livello molecolare l’organismo sottoponendolo a stress e danno sub-letale in modo da ottenere protezione qualora sopraggiungano stimoli potenzialmente letali tramite l’induzione di un fenotipo stress-resistente.

Il RIPC è un mezzo ad oggi in via di sperimentazione nella pratica clinica delle Unità Operative di Cardiologia, Radiologia, Chirurgia e Terapia Intensiva come metodica cardio-protettiva sebbene se ne intravedano opportunità di utilizzo anche in ambito epatologico, neurologico e nefrologico. Quest’ultimo campo è quello che ci proponiamo d’indagare in questo lavoro. L’obiettivo è quello analizzarne un particolare aspetto con l’idea di arrivare ad avere un quadro più completo aggiungendo un piccolo

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contributo ad una letteratura che, quanto alla sperimentazione umana, ha ancora molti steps da compiere per giungere a risposte esaurienti e ad una possibile traduzione nella pratica clinica quotidiana. Per quanto concerne l’applicazione nel campo del danno renale esistono studi che parlano di nefro-protezione ottenibile tramite RIPC: il vantaggio risiede principalmente nella possibilità di ottenere una miglior risposta renale ad insulti iatrogeni quali quello chirurgico e farmacologico; si tratta dunque di precondizionare da sede remota in vista d’interventi di chirurgia maggiore o esami radiologici che prevedono l’utilizzo di mezzo di contrasto, principalmente TC, vista la loro spiccata nefrotossicità. Anche nel campo dell’Oncologia e delle Malattie Infettive è teoricamente applicabile tale metodica di nefro-protezione per far sì che il rene del paziente sostenga più attivamente i ben noti insulti da cis-platino e da aminoglicosidi. Quest’ultima opportunità interessa da vicino l’Area Critica dato il largo impiego di farmaci della stessa classe all’interno delle Terapie Intensive.

Per lo studio corrente abbiamo utilizzato il classico RIPC applicato all’arto superiore con l’obiettivo primario di studiarne l’eventuale impatto sulla funzionalità renale nei giorni immediatamente successivi all’esame radiologico, ergo alla somministrazione del mezzo di contrasto. Questo studio è stato eseguito su un campione di pazienti critici affetti da patologia medica o post-chirurgica e ricoverati presso la U.O. Anestesia e Rianimazione Interdipartimentale dello Stabilimento Ospedaliero di Cisanello, facente parte dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana (AOUP), inserendosi nell’ambito degli studi sulla nefro-protezione e volendo configurarsi come preliminare a lavori più ampi i quali si proporranno di valutare l’outcome renale in pazienti che subiscono procedure di rivascolarizzazione. Dato che ad oggi non sussiste una chiara indicazione da Linee Guida internazionali che raccomandi l’utilizzo del RIPC nella pratica clinica quotidiana in Terapia Intensiva e dato il background in termini di studi sia clinici che biochimici e molecolari abbiamo ritenuto interessante approfondire tutte le sfaccettature di questa metodica di semplice esecuzione, esente da eventi avversi di alcun tipo e dai costi praticamente nulli.

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CAPITOLO I - INTRODUZIONE

1.1 – Razionale, background e meccanismi molecolari del

Precondizionamento Ischemico

Considerato l’impatto clinico del danno tissutale causato dai meccanismi d’ischemia ed ischemia/riperfusione nelle varie specialità mediche e chirurgiche, risulta evidente quanto interesse possa suscitare lo studio della patogenesi di queste entità e delle risposte adattative nei loro confronti, con lo scopo di sviluppare strategie preventive e terapeutiche efficaci. In un tale contesto il fenomeno del Precondizionamento Ischemico ha rivestito fin da subito un ruolo di primo piano. Furono Murry et al.1 nel 1986 ad evidenziarlo per la prima volta nel muscolo cardiaco di cane: esso consiste nella capacità di modulare la funzione cellulare per il tramite di eventi ischemici sub-letali, incrementando la resistenza delle cellule stesse ad un evento letale a carattere ischemia/riperfusione; nella fattispecie, brevi periodi d’ischemia seguiti da corrispondente riperfusione comportano un miglioramento della capacità dell’organo bersaglio di contenere il danno imputabile ad un successivo, prolungato periodo di ischemia seguito da riperfusione.

L’esperienza di Murry e collaboratori è considerata la pietra miliare dell’applicazione in clinica del Precondizionamento Ischemico. Due popolazioni di animali furono anestetizzate e sottoposte ad occlusione coronarica completa della durata di circa 40 minuti: un gruppo trattato, ovvero sottoposto, prima dell’occlusione completa, a brevi e ripetuti cicli di occlusione della durata di 5 minuti intervallati da periodi di 5 minuti di riperfusione, e un gruppo di controllo. Nel primo gruppo, quello “precondizionato”, si notarono una netta riduzione dell’estensione dell’area infartuata e delle aritmie da riperfusione, una maggiore resistenza dei cardiomiociti isolati all’ipossia e un miglior recupero funzionale dopo risoluzione della fase ischemica2 (Fig.1).

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Fig. 1: Esperienza di Murry et al., Circulation, 1986

Fu proprio in seguito a questo esperimento che venne coniato il termine di Precondizionamento Ischemico, definito come il processo per il quale le cellule sottoposte precedentemente a stimoli ischemici sub-letali possano sviluppare successivamente la capacità di tollerare eventi ischemici di portata maggiore.

In modelli sperimentali la protezione parenchimale è raggiungibile sia attraverso uno stimolo precondizionante applicato localmente (come il clampaggio dei vasi del peduncolo cardiaco, epatico o renale), sia procedendo a brevi cicli di ischemia e riperfusione in altri distretti corporei, a distanza dall’organo d’interesse, ad esempio comprimendo e decomprimendo ab estrinseco i vasi dell’arto superiore o inferiore. Queste due modalità sono dette rispettivamente Precondizionamento Ischemico Diretto (DIPC) e Remoto (RIPC)3; è su quest’ultimo che si sono concentrate le nostre attenzioni.

Dopo l’esperienza di Murry et al. una miriade di studi si sono concentrati sul Precondizionamento Ischemico cardiaco proseguendo almeno inizialmente sempre sui modelli di sperimentazione animale. Di primaria

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importanza, se non essenziale, era capire quale fosse il timing di applicazione d’ischemia e riperfusione più efficace. A tal proposito, Liu et al.4, in uno studio del 1991, utilizzarono sette differenti popolazioni di cavie, di cui una rappresentava il gruppo di controllo NO-DIPC e le altre venivano sottoposte a diversi protocolli di Precondizionamento. I gruppi che ricevettero uno o due cicli da 5 minuti l’uno d’ischemia alternati a 10 minuti di riperfusione, risultarono protetti da ischemia letale nel momento in cui la si provocò in maniera iatrogena per 30 minuti; i gruppi che ricevettero uno o due cicli della durata di 2 minuti invece non risultarono cardio-protetti. Venne per giunta rilevato che periodi di riperfusione della durata maggiore di 120 minuti erano associati alla perdita di protezione. La cardio-protezione venne valutata in termini di area infartuata, come nell’esperimento di Murry et al., tramite colorazione al blu di tetrazolio. Dunque il pregio di questo studio fu quello di mettere in luce un importante risultato, cioè che il Precondizionamento Ischemico cardiaco ha un’efficienza massima somministrando ischemia per un breve lasso di tempo della durata di 2-5 minuti ed il tempo di riperfusione diviene eccessivo se sopra i 120 minuti.

Attualmente il protocollo più condiviso prevede brevi cicli d’ischemia e riperfusione della durata massima di 30 o 40 minuti, quindi vengono utilizzati protocolli del tipo 5x5x3 o 5x5x4, nei quali si sottopone il miocardio rispettivamente a 3 o 4 cicli di 5 minuti d’ischemia alternati a 5 minuti di riperfusione. Pertanto è facile intuire come le applicazioni in ambito clinico riguardano principalmente interventi di rivascolarizzazione svolti in elezione, data l’impossibilità di esplicare tale procedura in condizioni d’urgenza.

Con l’avvento della PCR e delle tecniche molecolari come quella dell’ibridazione, negli ultimi anni è stato possibile non solo studiare l’aspetto biomolecolare del Precondizionamento Ischemico5

, ma anche la genomica che ne è alla base6.

Restano comunque attuali delle perplessità riguardo all’effettivo impatto del RIPC sull’outcome clinico dei pazienti cardiochirurgici; infatti in una Review del 2010 il Precondizionamento Ischemico viene definito come

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“lost in translation”7

, a significare che nonostante ci siano buone premesse molecolari e genetiche, ancora non è possibile osservare vantaggi significativi nell’applicazione della metodica.

Come già detto, il DIPC ha visto le sue prime applicazioni a livello cardiologico a partire dall’esperienza di Murry et al., tuttavia gli studi concernenti la protezione parenchimale a vantaggio di altri organi sono tanti. Tra questi spiccano gli studi coinvolgenti il campo chirurgico-epatologico: per le sue peculiarità tecniche, il settore della chirurgia e della trapiantologia epatica ha repentinamente rivolto la propria attenzione al fenomeno del Precondizionamento Ischemico. Infatti le varie tecniche di clampaggio vascolare in uso nelle resezioni epatiche e il tempo che intercorre tra prelievo e trapianto, espongono rispettivamente il parenchima epatico residuo e il graft ad un elevatissimo rischio di danno da ischemia/riperfusione (I/R).

Il sanguinamento massivo in corso di resezione epatica è tra i maggiori fattori prognostici che influenzano pesantemente l’outcome peri-operatorio dei pazienti sottoposti a questo genere di chirurgia. L’interruzione della perfusione epatica con una manovra manuale o con un clampaggio traumatico (la cosiddetta “Manovra di Pringle”) è una delle tecniche da sempre più usate per ridurre la perdita ematica e, conseguentemente, anche la necessità di trasfusioni. Nonostante ciò, si tratta pur sempre di una manovra che espone il parenchima epatico ad un elevato rischio di danno da I/R, evidenziato dall’aumento dei markers di danno epatico e maggiore nei pazienti in cui l’intervento viene condotto avvalendosi di tecniche di occlusione vascolare, benché tale differenza non si presenti in termini di maggior rischio di insufficienza epatica manifesta o altra morbidità8.

Appare dunque ben chiaro, da quanto appena esposto, il motivo per cui il Precondizionamento sia stato da subito contemplato per un ruolo protettivo verso il parenchima epatico in corso di blood-sparing surgery. E’ stato dimostrato che il DIPC è in grado di diminuire i livelli post-operatori di aspartato-aminotransferasi (AST) ed alanina-aminotransferasi (ALT)9 e che questo effetto è maggiormente pronunciato nei pazienti giovani. In aggiunta è stato constatato che il DIPC è in grado di ridurre l’impatto emodinamico

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avverso del clampaggio, con conseguente calo dell’impiego di vasopressori10. I meccanismi biomolecolari alla base del fenomeno, descritti in Fig. 2, quantunque con alcune peculiarità, sono in buona parte sovrapponibili a quanto avviene a livello miocardico e sistemico.

Fig.2: meccanismi biomolecolari alla base del DIPC epatico (da Alchera E et al., Molecular mechanisms of liver preconditioning, World J Gastroenterol, 2010)

Nel caso del RIPC, la sede oggetto del Precondizionamento Ischemico è posta a distanza (“remoto” appunto) dall’organo o apparato di cui si vogliono valutare gli esiti; nel nostro studio, applicandolo all’arto superiore, attraverso la compressione ab estrinseco alternata a decompressione, con l’intento di ottenere una reazione protettiva da parte del parenchima renale. Come mostrato in Fig. 3, occorre considerare che il concetto di RIPC si estende a tutti gli organi, spesso in modo reciproco e incrociato; pertanto risulta teoricamente possibile indurre cardio-protezione ischemizzando in maniera sub-letale il rene, il muscolo scheletrico o il fegato, o ancora raggiungere un certo grado di nefro-protezione tramite deprivazione d’ossigeno a livello intestinale, e così via11

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Fig. 3: Protezione inter-organo contro il danno da ischemia/riperfusione. (da Hausenloy et al., Remote ischaemic preconditioning: underlying mechanisms and clinical application, Cardiovascular

Research – 2008)

Meccanismi molecolari alla base del Precondizionamento Ischemico

Sia il DIPC sia il RIPC sottendono numerosi meccanismi neurali ed umorali, spesso peraltro sovrapponibili nella risposta ultima cellulare e tissutale, che si esprimono secondo pathways cellulari precocemente o tardivamente attivati. Si parla infatti di “early phase” e “delayed phase”. Brevi cicli di ischemia/riperfusione rappresentano lo stimolo precondizionante sperimentalmente più efficace per i parenchimi, ma non l’unico in quanto esistono altri tipi di stimolo capaci di determinare protezione parenchimale. Comunque sia, perché ciò possa verificarsi, lo stimolo deve riuscire ad indurre almeno uno dei seguenti effetti:

 alterazione dell’omeostasi cellulare;

 stimolazione di specifici recettori di membrana o di vie di trasduzione del segnale intracellulari.

Queste due reazioni convergono poi sull’attivazione di una serie di chinasi intracellulari come PKC (Protein Kinase C), MAPKs (Mitogen Activated

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Protein Kinases) e sull’azione dei ROS (Reactive Oxigen Species) e del NO (Nitrossido), tutti coinvolti in un gran numero di funzioni biologiche, prima fra tutte la risposta cellulare allo stress. Di seguito, si arriva all’attivazione di uno o più effettori finali direttamente responsabili dell’effetto protettivo. L’identità di questo/i effettore/i non è del tutto nota, tuttavia sussistono evidenze sperimentali e cliniche che fanno presupporre che gli effettori coinvolti siano molteplici e che i canali del potassio ATP dipendenti mitocondriali (mKATP) giochino un ruolo cruciale. Resta un ulteriore

dilemma sperimentale: il meccanismo attraverso il quale questi effettori indurrebbero lo stato protettivo cellulare.

I recettori implicati nel fenomeno del Precondizionamento fanno parte di un’unica superfamiglia genica, formati da una singola catena polipeptidica che attraversa sette volte la membrana plasmatica e accoppiati a proteine G

q-i-o. La loro attivazione comporta up-regolazione di specifiche isoforme di

PKC (ne esistono almeno 12 e non tutte hanno azione citoprotettiva), che si ritiene sia la via finale comune attivata da tutti gli stimoli precondizionanti12-15.

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Fig. 4: biochimica generale del Precondizionamento Ischemico e ruolo della PKC. (Steenbergen et al. Protein kinase C and preconditioning: role of the sarcoplasmic reticulum. Am J

Physiol Heart Circ Physiol -2005)

Va detto che le molecole interessate nei meccanismi di protezione parenchimale possono intervenire nell’una o nell’altra fase (early o delayed phase) del processo di Precondizionamento (Fig. 4).

ATTIVAZIONE DEI CANALI mKATP: sono responsabili, durante la fase

early, di una produzione regolata di ROS per disaccoppiamento temporaneo della fosforilazione ossidativa, in grado di attivare molti degli effettori attivati dalla PKC e la PKC stessa. Inoltre questa produzione regolata di ROS è fondamentale nell’attivare e mantenere aperti gli stessi canali mKATP

durante la fase delayed, momento in cui si estrinseca il loro ruolo protettivo determinando riduzione del potenziale trans-membrana, prevenzione della contrazione della matrice, riduzione dell’accumulo di Ca2+ e soprattutto riduzione della produzione di ulteriori quantità di ROS.

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I mKATP sono anche capaci di inibire la F1-F0 ATPasi mitocondriale, causa

di oltre l’80% del consumo di ATP in corso di ischemia, con conseguente importante risparmio di ATP.

Si può quindi intuire che i ROS risultano alquanto rilevanti nella regolazione dell’omeostasi cellulare: possono avviare un programma protettivo o uno dannoso a seconda della loro quantità e della durata di esposizione della cellula ad essi. Il programma protettivo attivato dai ROS si traduce nella fase delayed del Precondizionamento; mentre la provocazione del danno consiste in una generica risposta allo stress ossidativo prolungato, caratterizzata da iperproduzione di matrice extracellulare (collagene I-III, laminina, fibronectina), iperespressione di molecole di adesione cellulare (ICAM) e di fattori pro-apoptotici, fino alla necrosi se lo stress è intenso. Questa è la possibile interpretazione dell’evidenza sperimentale per cui piccole quantità di ROS, generate in corso di Precondizionamento (non solo ischemico, ma anche usando ad esempio isoflurano, noto attivatore dei mKATP), riescano a prevenire la produzione di grandi quantità di ROS

durante uno stress prolungato non necessariamente ischemico (Fig. 5).

Fig. 5: Ruolo dei canali mKATP nelle diverse fasi del Precondizionamento Ischemico. (R.Schulz et al.

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UP-REGOLAZIONE DELL’ENZIMA 5’ NUCLEOTIDASI: in

condizioni normali esistono basse concentrazioni costanti di adenosina extracellulare che derivano dalla s-adenosil-metionina, mentre in corso d’ischemia l’idrolisi netta di ATP determina l’accumulo di AMP, che a sua volta, ad alte concentrazioni, induce la 5’nucleotidasi; questo enzima è attivato dalla PKC in corso di Precondizionamento. Ne deriva una notevole produzione di adenosina che è in grado di indurre protezione agendo sui suoi recettori A1 e A3 (Fig. 6).

Fig.6: up-regolazione di 5’nucleotidasi in corso d’ischemia. (R.Schulz et al. Signal trasduction of ischemic preconditioning. Cardiovasc. Res 52 – 2001)

INIBIZIONE DELLO SCAMBIATORE Na/H: fortemente attivato dall’acidosi intracellulare comporta l’accumulo nefasto di sodio intracellulare necessario all’estrusione degli H+

in continua formazione (l’altro meccanismo con cui il sodio si accumula dentro la cellula è il deficit di funzione della Na/K-ATPasi, causato dalla deplezione di ATP). Tale accumulo determina una serie di conseguenze, come invertire l’attività dello scambiatore Na/Ca con conseguente accumulo di Calcio, depolarizzare la membrana cellulare con apertura dei canali del Calcio voltaggio-dipendenti e di nuovo accumulo di Calcio, sviluppare sovraccarico osmotico.

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La PKC agisce sullo scambiatore Na/H inibendolo, contrastando così l’accumulo di Na, ergo il sovraccarico osmotico e l’accumulo citosolico di Calcio.

Fig. 7: Precondizionamento Ischemico, tempistiche early phase e delayed phase. (da Ghosh S, Standen NB, Galinanes M. Preconditioning the human myocardium by simulated ischemia: studies on the early and delayed protection. Cardiovasc. Res - 2000)

L’utilizzo clinico del Precondizionamento Ischemico sino ad oggi ha visto prevalere l’ambito cardiaco, infatti il cuore è stato l’organo più studiato, che ha ottenuto il maggiore approfondimento, però come già spiegato, è possibile l’estensione della protezione anche ad altri organi data l’azione sistemica dei meccanismi molecolari. Naturalmente cambiano sia la cinetica sia le tempistiche entro le quali intervengono early phase e delayed phase, in dipendenza dell’organo che si prende in considerazione.

Si possono valutare le due fasi nel cuore, rappresentate in Fig.7, e negli altri organi quali fegato, muscolo scheletrico ed encefalo, raffigurati in Fig. 8, dove si nota una situazione fortemente differente.

Nel fegato infatti nella early phase si apprezza un’epato-protezione più intensa di quella possibile a livello del miocardio, ma di minor durata; mentre nella delayed phase, che apprezziamo a distanza di 24-72 ore, essa è meno intensa rispetto a quella del miocardio.

Nell’encefalo si evidenzia una differente cinetica tra le due fasi, con sovrapposizione delle tempistiche tra le stesse; riguardo all’intensità della

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protezione parenchimale si nota che è inferiore a quella possibile a livello miocardico, ma dalla medesima durata.

Nel muscolo scheletrico nella early phase, che si manifesta nell’ora successiva allo stimolo, gli effetti sono assai scarsi in confronto al muscolo cardiaco; al contrario nella delayed phase si apprezza un esito maggiormente considerevole.

FEGATO SNC

MUSCOLO SCHELETRICO

Fig.8: Cinetica e tempistiche di espletamento delle due fasi di protezione parenchimale dopo Precondizionamento Ischemico. (Ghosh S, Standen NB, Galinanes M. Preconditioning the human myocardium by simulated ischemia: studies on the early and delayed protection. Cardiovasc. Res -

2000)

Biochimica della early phase

Come suggerito dalla stessa denominazione, questa fase viene mediata da meccanismi a breve termine, pertanto non include la sintesi di proteine ex novo. L’attivazione in seguito allo stimolo ischemico di proteine di

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membrana e dei processi enzimatici ad esse correlati, conduce ad una modulazione diretta ed immediata di specifiche funzioni cellulari. Più in dettaglio, una volta attivato dal proprio agonista il recettore accoppiato a proteine Gq-i-o attiva le Fosfolipasi C e D (PLC e PLD), le quali portano

rispettivamente direttamente o indirettamente alla produzione Diacilglicerolo (DAG); quest’ultimo a sua volta attiva la Protein Chinasi C (PKC). Le azioni della PKC sui bersagli coinvolti nella fase early sono stati sopra affrontati: up-regolazione della 5’ nucleotidasi; apertura dei canali mKATP e produzione regolata di ROS; inibizione dello scambiatore Na/H.

I ROS conducono la propria azione sulle proteine G, sulle PLC e PLD, sulla PKC e sui canali mKATP.

Durante lo stress ischemico viene rilasciato principalmente dall’endotelio il Nitrossido, la cui azione si manifesta prevalentemente sulla PKC e sui canali mKATP. L’effetto importante di questa molecola continua anche in

seguito nella delayed phase, in cui si ha l’induzione dell’enzima iNOS (Ossido Nitrico Sintasi inducibile) che ne induce la neosintesi nel miocardiocita.

Andando a schematizzare quelle che sono le varie reazioni cellulari della early phase, si possono descrivere: l’inibizione dell’accumulo di calcio libero citosolico (e quindi degli effetti dannosi da questo derivati); la stabilizzazione della funzione mitocondriale; la preservazione del potenziale di membrana; l’impedimento del sovraccarico osmotico.

In tutto ciò il fulcro rimane l’attivazione della Protein-chinasi C (PKC), la cui l’attivazione consente di prevenire il danno eccitotossico da sovraccarico di Ca2+ e con esso la lisi osmotica della cellula da accumulo di Na+16.

Sono stati individuati a livello epatico altri elementi di spiccata rilevanza nell’induzione di una precoce parenchimo-protezione. In primis un incremento dell’adenosina17

, la cui produzione deriva dalla stimolazione di CD39 e CD73 presenti sulla superficie delle cellule di Kupffer; essa, legandosi al proprio recettore A2, esplica la propria azione attraverso la

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PKC e PI3K che vengono attivate, e al contempo determina una down-regolazione di fattori che al contrario tenderebbero a contrastare lo sviluppo di protezione parenchimale, quali PTEN e DGKs. Altro evento di grande interesse sempre a livello epatico è l’iperproduzione di ATP, in grado di favorire la stimolazione del recettore purinergico P2Y2 e la fosforilazione delle tirosin-chinasi Src e p38 MAP (p38 MAPK)18, bloccando così l’attivazione ipossia-indotta di ERK 1/2. Essendo preminenti al livello epatico, si può intuire come tali meccanismi risultino vantaggiosi al fine di ottenere epato-protezione.

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Fig. 9: Biochimica della early phase del Precondizionamento Ischemico.

(Ghosh S, Standen NB, Galinanes M. Preconditioning the human myocardium by simulated ischemia: studies on the early and delayed protection. Cardiovasc. Res - 2000)

Biochimica della delayed phase

Nella delayed phase si fa riferimento all’innesco di meccanismi a lungo termine. Una serie di fattori di trascrizione (STAT 1/3, AP1, HSF1, ATF6) attivati per via delle MAPKs e delle PTKs (a loro volta attivate dalla PKC),

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inducono la sintesi/iperespressione di proteine implicate nella protezione parenchimale. I ROS e l’NO sono capaci di attivare entrambe queste famiglie di chinasi. In questa fase la cellula che ha ricevuto lo stimolo precondizionante si arricchisce delle seguenti proteine: iNOS, COX-2 (ciclossigenasi 2), HSPs, aldoso-reduttasi, SOD, catalasi e GSH perossidasi. I ROS e la PKC sono in grado di attivare direttamente NF-kB (nuclear factor kappa-light-chain-enhancer of activated B cells)A, che è un fattore di trascrizione la cui forma più comune è l’eterodimero p65/p50 e si trova nel citosol associato al suo inibitore ikB. Tutti gli attivatori di NF-kB (come la PKC e i ROS) sono capaci di causare la dissociazione di ikB dal complesso p65/p50, che può in tal modo migrare nel nucleo e attivare le trascrizione genica.

Il Nitrossido viene prodotto anche nella early phase principalmente dall’endotelio e, a tal proposito, tra i maggiori stimoli si annoverano la bradichinina e l’adenosina rilasciata dai cardiomiociti sottoposti a stress. I vantaggi che il Nitrossido è in grado di apportare e nella fase più precoce e nel lungo termine sono diversi: apertura dei canali KATP mitocondriali e

sarcolemmali, verosimilmente tramite un meccanismo cGMP dipendente, ma può anche indurla attivando indirettamente la PKC (in corso di stress si produce l’anione superossido, il quale può reagire col nitrossido formando perossinitrito, che è un potente radicale capace a sua volta di attivare la cascata della PKC e delle MAPKs); inibizione dell’accumulo di calcio libero citosolico, effetto PKC mediato (quindi include tutti i meccanismi ad essa correlati); riduzione dell’espressione di molecole di adesione cellulare (ICAM-1, L-selectina, CD11b/CD18) a livello endoteliale, evento cruciale per impedire l’accumulo di leucociti nell’area ischemica dopo riperfusione ed evitare quindi un ulteriore danno da questi provocato.

A

NFkB: fattore di trascrizione nucleare. Si può trovare in tutti i tipi di cellule ed è interessata in tutte le reazioni delle cellule agli stimoli, quali stress, citochine, radicali liberi, irradiazione con ultravioletti e attacco proveniente dagli antigeni dei batteri o virus. L' NF-κB gioca un ruolo chiave nella regolazione della risposta immunitaria alle infezioni, conseguentemente, una non corretta regolazione dell' NF-κB è stata collegata al cancro (come il mieloma multiplo), ai processi infiammatori, alle patologie autoimmuni, agli shock settici, alle infezioni virali e alle malattie del sistema immunitario. L'NF-κB è considerato coinvolto anche nei processi di plasticità sinaptica e memoria.

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Il valore della COX-2 consiste nell’indurre protezione parenchimale agendo sinergicamente al nitrossido. La sua azione si esplica attraverso la produzione soprattutto di PGE2 e PGI2 (prostaciclina), che possiedono anche potere antiaggregante piastrinico e vasodilatante e che operano attraverso recettori accoppiati a proteine G con il medesimo meccanismo visto in precedenza. Per di più si ritiene che la prostaciclina possa essere capace di stimolare in modo specifico la Na/K-ATPasi, contrapponendosi così agli esiti rovinosi che originano dal suo deficit funzionale durante l’ischemia. Bloccando farmacologicamente gli enzimi COX-2 e/o iNOS si è giunti all’evidenza sperimentale che la fase delayed del Precondizionamento viene alterata se non addirittura bloccata totalmente.

Per quanto riguarda la famiglia genica STAT19, la sua attivazione è implicata nei fenomeni di parenchimo-protezione e rigenerazione cellulare e ciò avviene tramite la via IL-6/STAT3.

Uno dei protagonisti principali nella delayed phase è l’Hypoxia-inducible factor 1 (HIF-1)20, una proteina labile in condizioni di normale tensione di ossigeno, che in caso di ipossia migra a livello nucleare regolando l’azione di numerosi geni coinvolti nella risposta cellulare all’insulto ipossico, come quelli che controllano l’eritropoiesi, l’angiogenesi, il trasporto del glucosio e, in ultima analisi, la stessa sopravvivenza cellulare.

In aggiunta si ha un incremento dei livelli della proteina anti-apoptotica BCl-2 nel fegato21. Aumenta anche l’espressione del recettore dell’antagonista del recettore di IL-1, evento congruo con gli effetti anti-infiammatori relativi al Precondizionamento22.

Risulta alquanto rilevante constatare che l’attivazione di HIF-1 durante il Precondizionamento non si realizza per diretto stimolo ipossico, ma attraverso il legame dell’adenosina al proprio recettore A2, andando pertanto

ad innescare due distinte vie di trasduzione del segnale, ossia PKC-mediata e PI3K-mediata23.

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Alla luce di quanto affermato si può osservare come le due risposte cellulari precoce e tardiva condividano in larga parte gli stessi meccanismi molecolari. Si può altresì considerare come la relativa indipendenza del Precondizionamento dal suo trigger ipossico/ischemico suggerisca la possibilità di un conseguimento dell’obiettivo di protezione parenchimale per via prettamente farmacologica, tramite attivazione dei meccanismi biochimici che si comportano da “via finale comune” del processo.

Fig.10: Biochimica della delayed phase del Precondizionamento Ischemico (Ghosh S, Standen NB, Galinanes M. Preconditioning the human myocardium by simulated ischemia: studies on the early and

delayed protection. Cardiovasc. Res - 2000)

Negli anni ’90 infatti è stata scoperta l’azione protettiva sul cuore degli anestetici alogenati. Il fatto che uno stimolo farmacologico così

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apparentemente slegato dalla cascata ischemica fosse in grado di attivare nella cellula cardiaca ciò che era innescato dall’ischemia stessa, rappresentò una svolta decisiva in questo ambito. Il Precondizionamento indotto dagli anestetici, o APC, consisteva proprio nell’attivazione dello stesso meccanismo biochimico messo in moto dal classico Precondizionamento Ischemico di Murry et al.

Nel 1997 ci fu un primo lavoro svolto da Kersten et al.24, i quali riuscirono appunto a dimostrare l’effetto positivo dell’anestesia con isoflurano e la correlazione biochimica della sua azione con un’attivazione dei canali mKATP di cui sopra. Lavori successivi svolti a partire dal 1999 incentrati

ancora una volta sulla protezione miocardica, hanno documentato una riduzione delle aree infartuate in pazienti trattati con regime anestesiologico comprendente sevoflurano (Piriou et al.25) e una corrispondente riduzione dei livelli ematici di Troponina I e di CK-MB (Belhomme et al.26). In uno studio sul sevoflurano De Hert et al.27 si sono prefissi lo scopo di accertare l’entità della cardio-protezione conseguibile in corso di chirurgia coronarica, utilizzando diverse modalità di somministrazione del Sevoflurano stesso. Quello che si evince da questo lavoro è che il PERcondizionamento, ossia il mantenimento di sedazione tramite sevoflurano durante tutta la procedura chirurgica e nell’immediato post-operatorio, correla con una riduzione dei livelli di Troponina I, quindi si riscontra un certo grado di protezione miocardica.

Nel 2003 Ludwing et al.28 constatarono un enhancement dell’effetto precondizionante dell’isoflurano da parte della morfina, avvalorando l’ipotesi che esistesse sinergismo d’azione precondizionante fra i vari anestetici.

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Fig.11: Valutazione statistica del Precondizionamento Farmaco-indotto (riferimenti bibliografici in figura).

1.2 - Precondizionamento Ischemico Remoto: lo stato dell’arte

Nel Precondizionamento Ischemico Remoto (RIPC) la procedura prevede l’apposizione periferica dello stimolo ischemico, ovvero a distanza dagli organi di cui si vogliono valutare gli effetti protettivi. Przyklenk et al.29, nel 1993, provarono che tramite l’ischemizzazione sub-letale applicata al territorio irrorato dall’arteria circonflessa a livello cardiaco si otteneva protezione anche nel territorio di pertinenza dell’arteria discendente anteriore; fu proprio grazie alla valutazione di questa estensione dell’effetto protettivo che venne introdotto il concetto del RIPC. Seguirono altri studi estremamente interessanti che misero in luce come gli stessi vantaggiosi esiti del RIPC potessero svilupparsi anche operando delle compressioni ab estrinseco sugli arti: Kharbanda et al.30, con l’ausilio di uno sfigmomanometro standard, praticarono brevi e controllati episodi d’ischemia e riperfusione applicando il bracciale stesso all’arto superiore,

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documentandone i positivi effetti. Su questa scia sono arrivati numerosissimi altri studi clinici, che inizialmente, sulla base degli ottimi riscontri e di una crescente valorizzazione del RIPC su modelli animali, enfatizzarono tale procedura; entusiasmo che però si attenuò in seguito a studi più ampi e randomizzati, a metanalisi che non ne accertarono quel prestigio precedentemente descritto. Questo atteggiamento altalenante oggi sta volgendo verso un definitivo interesse nei confronti del RIPC grazie all’accuratezza e all’attendibilità di studi successivi che ne hanno dimostrato gli effetti benefici.

Fig.12: Esperienza di Przyklenk e coll. (riferimento bibliografico 29): nel grafico a barre A sono espresse le aree a rischio ischemico come percentuale sul

peso totale del ventricolo sinistro (AR/LV) nonché le aree effettivamente necrotiche in rapporto al peso totale del ventricolo sinistro (AN/LV), infine le aree di necrosi espresse in percentuale rispetto alle aree a rischio (AN/AR) per entrambi i gruppo: RIPC e no-RIPC sull’arteria circonflessa. p≤0.05.

Nel grafico B il rapporto fra aree necrotiche e aree a rischio ischemico (AN/AR) è espresso come funzione del flusso sanguigno (Endo RMBF) sub-endocardico durante l’occlusione della discendente

anteriore sinistra (LAD CO).

Dunque il fenomeno del RIPC, espletato attraverso brevi cicli d’ischemia sub-letale seguita da riperfusione dell’arto superiore o inferiore, utilizzando un semplice bracciale da pressione, quindi in maniera non invasiva e gonfiandolo ad un valore pressorio che supera quello della pressione sistolica, può proteggere il cuore in corso di procedure di CABG: protezione che si realizza nei confronti del danno iatrogeno peri-operatorio, come dimostrato dalla riduzione della Troponina-T31.

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La protezione sostenuta dal RIPC è stata comprovata in diversi studi clinici riguardanti procedure cardiochirurgiche e non, come nella riparazione di aneurismi dell’aorta addominale32

, chirurgia decompressiva in elezione33, PCI in elezione34 e PCI di prima istanza in seguito ad infarto STEMI. Il lavoro concernente la riparazione degli aneurismi c’interessa in modo particolare in quanto esamina il danno renale iatrogeno, oggetto del nostro studio.

Fig. 13: Esperienza di Ali e coll.: Andamento dei markers di danno miocardico (TnI, in A) e renale (AUC, in B) a diversi tempi dall’intervento di riparazione dell’aneurisma dell’aorta addominale nei

due gruppi: RIPC e NO-RIPC.

Ci sono due studi significanti, l’ERICCA Trial35 e il RIP-Heart Study36, fondati sulla valutazione dei possibili vantaggi derivanti dall’applicazione quotidiana del RIPC in cardiochirurgia (ambito dalle ampie prospettive). L’ERICCA Trial (Effects of Remote Ischemic preConditioning on ClinicAl outcomes), svolto da D.J. Haunseloy et al., si prefigge lo scopo di analizzare gli effetti di questa metodica sull’outcome di pazienti ad alto rischio cardiovascolare sottoposti a procedure di bypass aorto-coronarico o sostituzione valvolare. Si tratta di uno studio multicentrico, randomizzato ed in doppio cieco, che include due gruppi. Quindi il campione di pazienti

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viene così suddiviso: il primo gruppo riceverà 4 cicli d’ischemizzazione dell’arto superiore della durata di 5 minuti ciascuno, alternati a 3 periodi di riperfusione anch’essi della stessa durata (schema 5x5x4); il gruppo di controllo sarà invece sottoposto ad un gonfiaggio simulato (sham procedure), per cui di fatto i pazienti non risulteranno precondizionati. La sham procedure è attuata per assicurarsi del carattere di “doppio cieco” nello studio nei riguardi del team anestesiologico-chirurgico ed eventuali osservatori degli interventi.

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Fig. 14: Flow chart dell’ERICCA Trial.

Primariamente gli obiettivi che lo studio si propone nel breve termine sono la valutazione di un eventuale vantaggio in termini di mortalità, incidenza di

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eventi cardiovascolari maggiori (stroke) ed ischemie miocardiche non fatali ad un anno dall’intervento. Per quanto riguarda gli endpoints secondari, sono considerati l’osservazione in epoca postoperatoria di eventuale danno renale acuto iatrogeno avvalendosi dei criteri AKIN (Acute Kidney Injury Network)B, la permanenza dei pazienti in Terapia Intensiva ed in ospedale e il controllo della frazione d’eiezione cardiaca.

Riguardo al RIP-Heart Study, l’intento è quello di esaminare in modo specifico gli effetti del RIPC sul danno miocardico iatrogeno peri-operatorio in pazienti sottoposti a procedure cardiochirurgiche. Si tratta di uno studio randomizzato in doppio cieco, i cui obiettivi primari sono rappresentati dalla valutazione di una possibile riduzione della mortalità e degli eventi cardiovascolari maggiori (nella fattispecie lo stroke), dalla valutazione dell’incidenza di danno renale acuto (AKI) nel periodo di degenza post-operatoria in Unità di Terapia Intensiva o corsia. Tra gli endopoints secondari si osservano l’incidenza di delirium e quella di fibrillazione atriale di nuova insorgenza, tenendo come riferimento il tempo in cui il paziente rimane nella struttura ospedaliera, quindi nell’immediato peri-operatorio. Lo schema adottato è il 5x5x4, ossia 4 cicli composti da 5 minuti di gonfiaggio intervallati da 5 minuti di rilasciamento del bracciale, però la procedura è applicata a livello della coscia; scelta quest’ultima che può derivare dall’ipotesi che una maggiore massa muscolare e vascolare, quale è quella della coscia, correlerebbe con un incremento quantitativo di quei fattori coinvolti nei meccanismi di parenchimo-protezione.

B

Acute Kidney Injury Network: i criteri AKIN hanno dimostrato attendibilità in molteplici studi e permettono di stimare accuratamente l’entità del danno renale in acuto (AKI), inteso come una brusca riduzione della funzione renale avente una delle seguenti condizioni: aumento assoluto entro 48h della creatininemia ≥ 0,3 mg/dL o aumento della creatininemia ≥ 1,5 volte rispetto al valore basale o diuresi < 0,5 mL/kg/h per 6 ore. Il secondo criterio non si applica se vi è una ostruzione delle

vie urinarie.

La stadiazione AKIN prevede 3 livelli di crescente gravità:

 Stadio 1: aumento della creatininemia ≥ 1,5, diminuzione della diuresi a meno di 0,5 ml/kg/h per oltre 6 ore;

 Stadio 2: aumento della creatininemia > 2, diuresi inferiore a 0,5 ml/kg/h per oltre 12 ore;

 Stadio 3: aumento della creatininemia > 3, diuresi inferiore a 0,3 ml/kg/h per oltre 24 ore o anuria per 12 ore.

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Tra i vari ambiti in cui il RIPC risulta potenzialmente attuabile, si annovera la chirurgia pediatrica, dove purtroppo allo stato attuale i risultati ottenuti appaiono contrastanti e pertanto rimane ancora il dubbio sulla sua utilità. La prima applicazione del RIPC in ambito pediatrico è avvenuta nel 2006 con il lavoro di Cheung et al.37, uno studio randomizzato in cieco che includeva un campione di 37 pazienti fra casi e controlli. La popolazione selezionata era composta da neonati e bambini candidati a procedure di riparazione di difetti cardiaci congeniti, non comprendendo però quelli con difetti interatriali isolati e shunt cardiopolmonari bidirezionali (esclusi per i tempi chirurgici nettamente ridotti e perché la permanenza in Terapia Intensiva difficilmente supera le 24 ore: ciò contrasta con il tempo, ossia giorni, che occorre per poter eventualmente apprezzare la risposta del paziente sottoposto al RIPC). Dei 37 piccoli pazienti 20 hanno ricevuto il RIPC. Il protocollo utilizzato è stato il 5x5x4, quindi quattro cicli di 5 minuti di compressione al livello della coscia alternati a 5 minuti di riperfusione; per le fasi d’ischemizzazione è stato raggiunto un valore di pressione pari a 15 mmHg al di sopra del valore della pressione sistolica accertata nell’immediato pre-operatorio.

Nel valutare l’efficacia della procedura sono stati osservati i seguenti parametri: la concentrazione sierica della Troponina I nei primi giorni post-operatori; la richiesta di farmaci vasoattivi nell’immediato post-operatorio e nei giorni successivi; la funzionalità polmonare e la necessità di ventilazione assistita; la risposta infiammatoria sistemica acuta analizzata tramite il dosaggio di citochine pro-infiammatorie, quali IL-6, IL-8, IL-10, TNF-alpha a 3-6 h dall’intervento.

Tra i parametri citati l’unico che si è mostrato degno di nota è stato la concentrazione sierica della Troponina I, in quanto ha rappresentato il solo riscontro positivo, statisticamente rilevante, come si può apprezzare in Fig. 15: si può vedere come i livelli di Troponina I post-operatoria nel gruppo di pazienti sottoposti a RIPC sono molto più bassi rispetto a quelli del gruppo di controllo. Riguardo agli altri parametri invece non si sono evidenziate considerevoli differenze tra i due gruppi. Da questo primo studio in ambito

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pediatrico non si può di fatto constatare un beneficio clinicamente indicativo, però si delinea comunque un primo discreto risultato.

Fig. 15 (riferimento bibliografico 37): livelli pre e post-operatori di Troponina I nei due gruppi: RIPC/NO-RIPC.

A rimarcare il fatto che ad oggi i risultati relativi al RIPC applicato in chirurgia pediatrica appaiono in contrasto, nel 2012 arriva il lavoro di Pedersen et al.38 ad inficiare i supposti benefici del RIPC stesso in cardiochirurgia pediatrica. La conclusione a cui era giunto questo studio, che si è posto l’obiettivo di valutare il danno renale iatrogeno nell’immediato post-operatorio in bambini sottoposti a correzione di difetti cardiaci congeniti, contrastava nettamente con ciò che si presumeva potesse fornire lo stimolo precondizionante, ovvero la protezione parenchimale che appunto qui non è risultata rilevante in termini di outcome dei piccoli pazienti.

Il danno acuto renale, o Acute Kidney Injury (AKI), in quanto importante fattore prognostico negativo, incide enormemente sulla mortalità post-operatoria e sulla morbidità a seguito di interventi di chirurgia maggiore. Infatti proprio in chirurgia pediatrica è stata riscontrata un’incidenza di AKI pari all’11.5% delle procedure di riparazione di difetti cardiaci congeniti complessi, in corrispondenza del quale la mortalità raddoppia39.

In questo studio la funzionalità renale nei due gruppi RIPC/NO-RIPC è stata esaminata attraverso markers urinari e sierici. Sono stati valutati:

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creatininemia, N-GALC, Cistatina-CD ; la diuresi; l’incidenza di AKI; la necessità di dialisi. L’esito finale, come già detto, non ha documentato sostanziali differenze nelle performances renali dei due gruppi, quindi il RIPC non ha apportato alcun vantaggio.

Fig.16(riferimento bibliografico 38): marcatori renali, diuresi e stima del filtrato glomerulare dal pre-operatorio alla terza giornata post-operatoria nei due gruppi RIPC(Nc,cerchi neri)/NO-RIPC(Nr, cerchi bianchi). ICU=intensive care unit, POD=post-operative day. Come indicato non sussistono

differenze significative fra i due gruppi in nessuno degli end-points identificati.

C“Lipocalina Associata alla Gelatinasi Neutrofila o Siderocalina o Lipocalina2 (LCN2)”

Piccola molecola di pm pari a 25 kDa, espressa costitutivamente sui neutrofili fa parte dell’immunità innata, viene sintetizzata in caso di presenza di patogeni. E’ noto che i livelli della molecola possono risultare elevati anche in malattie sistemiche non necessariamente associate a processi infettivi, confermando così che molti tessuti possono rilasciare NGAL come fattore di fase acuta che segnala una condizione di danno. Nelle prime due ore che seguono un danno acuto renale, come quello inevitabilmente indotto dallo stress chirurgico e dal clampaggio, i livelli di NGAL si innalzano sia a livello sierico sia urinario. L’aumento di NGAL in diversi studi è risultato proporzionale al livello di Acute Kidney Injury(AKI). NGAL ha dimostrato la sua efficacia in qualità di marker precoce di danno parenchimale renale anche in studi sulla Contrast Induced Nephropathy (CIN), su malattie renali croniche e trapianto di rene. Uno stretto monitoraggio di tale marker consente la precoce identificazione di eventuale AKI, l’impostazione e l’applicazione tempestiva di misure terapeutiche atte a contrastarlo e, in ultima analisi, la potenzialità di ridurre la mortalità e la morbidità ad esso associate.

D“Cistatina C o Cistatina 3 o gamma-trace o post-gamma-globulin o neuroendocrine basic polipeptide”.

Codificata dal gene CST3, la Cistatina-C è una piccola molecola del peso molecolare di 13.3 kD. La sua funzione in ogni cellula nucleata è quella d’inibire le proteinasi lisosomiali e le cisteina-proteasi nel compartimento extracellulare. Per quanto riguarda la funzionalità renale il vantaggio dell’uso di tale biomarker è dato dal fatto che si dimostra relativamente indipendente da età, sesso, etnia e massa muscolare del paziente laddove comparato alla creatininemia. Inoltre la Cistatina-C è in grado di dare una buona stima del rischio di sviluppo di malattia renale cronica segnalando un eventuale stato di disfunzione renale preclinica. In condizioni normali nelle urine la Cistatina-C dovrebbe essere assente: una concentrazione elevata di Cistatina-C nelle urine potrebbe indicare un danno all’epitelio tubulare; è stata quindi proposta come un marcatore urinario addizionale di danno renale acuto (AKI).

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Bisogna tuttavia precisare che quelli illustrati sono studi monocentrici basati peraltro su piccoli campioni di pazienti, il che vuol dire che nessuno dei due lavori ad oggi può rivelarsi dirimente per porre indicazioni procedurali, tantomeno sancire se la pratica del RIPC in chirurgia pediatrica possa effettivamente tradursi o meno in un miglioramento clinico.

Un ulteriore lavoro che va a discapito del RIPC è quello di Lee et al.40, nel 2007, i quali hanno esaminato la procedura su una popolazione neonatale affetta da ipertensione polmonare e difetto interventricolare, verificando che in questo genere di problematica il RIPC non risulta recare benefici in termini di variazione della Troponina I a 1, 6, 12 e 24 ore dall’intervento, non determinando pertanto una efficace cardio-protezione.

Fig. 17 (riferimento bibliografico 40): livelli di TnI nel pre-operatorio, a 1, 6, 12 e 24 ore dall’intervento.

1.3 ̶̵̵̵ Effetti avversi dei mezzi di contrasto: patogenesi, fattori di rischio e prevenzione della CIN

I mezzi di contrasto (MdC) sono sostanze in grado di alterare in eccesso o in difetto l’attenuazione dei raggi X da parte degli organi o dei tessuti in cui

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sono naturalmente presenti (aria e CO2) e/o in cui vengono artificialmente

introdotti (bario e iodio). Il principio del mezzo di contrasto ha notevolmente esaltato la potenzialità diagnostica e la qualità delle indagini, sia per le informazioni anatomo-morfologiche che per quelle funzionali, permettendo quindi una migliore caratterizzazione delle aree patologiche. Gli esami radiologici diagnostici e/o terapeutici molto spesso richiedono l’uso di MdC iodati. La somministrazione parenterale di MdC iodato uroangiografico può comportare l’insorgenza di eventi avversi, indesiderati o inattesi, in genere innocui, o meglio generalmente modesti e transitori, ma a volte più considerevoli. Essi si configurano come eventi nuovi, occorsi durante o dopo l’azione diagnostica o interventistica, caratterizzati dal produrre un cambiamento attuale o potenziale dello stato di salute del paziente.

Le reazioni avverse si possono classificare in due gruppi. Ci sono le reazioni Chemiotossiche, che sono dipendenti dalla dose e dalla concentrazione plasmatica del farmaco, perciò potenzialmente prevedibili e che sono influenzate dalle caratteristiche del MdC, come l’osmolarità, la viscosità, l’idrofilia. Gli organi principalmente colpiti nelle reazioni chemiotossiche sono: il rene, la tiroide, il sistema nervoso centrale e l'apparato cardiovascolare. Poi abbiamo le reazioni Anafilattoidi (allergic-like), non dose-dipendenti, imprevedibili, che possono indurre il rilascio di istamina o altri mediatori biologici come serotonina, prostaglandine, bradichinina, leucotrieni, adenosina e endotelina, solitamente attivi nei fenomeni allergici. Occorre però distinguere due tipi di reazioni “allergic-like”: quelle, di gran lunga più frequenti, che avvengono attraverso un meccanismo non Ig-E mediato, per tossicità diretta del MdC sui mastociti; quelle, più rare, che si sviluppano tramite un meccanismo Ig-E mediato, reazioni allergiche propriamente dette41.

Un ulteriore suddivisione di questi eventi avversi si basa sulla severità degli stessi. Si considerano infatti reazioni lievi (con frequenza del 5%): sapore metallico in bocca, sensazione di calore, nausea e vomito, sudorazione, disestesia periorale, sensazione di testa leggera, dolore nella sede dell'iniezione, orticaria, emicrania; reazioni moderate (con frequenza dello

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0,022%): persistenza ed aumento di intensità dei sintomi minori, dispnea, ipotensione, dolore toracico; reazioni severe (con incidenza dello 0,0025%): tosse, starnuti, broncospasmo, ansia (sintomi minori), ma soprattutto diarrea, parestesie, edema al volto, alle mani ed in altri siti corporei, dispnea, cianosi, edema della glottide, ipotensione marcata, bradicardia, shock, edema polmonare, aritmie (come la tachicardia ventricolare), midriasi, convulsioni, paralisi, coma, morte.

Generalmente le reazioni compaiono entro un’ora dall’iniezione del MdC e sono definite immediate; se si verificano dopo un’ora dall'iniezione fino al massimo di sette giorni dalla somministrazione sono definite ritardate. Queste ultime sono meno frequenti delle prime e consistono in eruzioni cutanee, sindrome simil-influenzale, disturbi gastrointestinali, dolori agli arti.

CIN (Contrast-Induced Nephropathy)

Il rene rappresenta il bersaglio privilegiato dei MdC, la cui nefrotossicità si estrinseca attraverso la tossicità diretta sulle cellule tubulari renali ed il danno ischemico da ipossia tissutale midollare; alla TC il rene è l’organo a più elevato contrast enhancement. Il nostro studio infatti s’incentra proprio sulla nefropatia indotta da MdC, la cosiddetta CIN (Contrast Induced Nephropathy), o CI-AKI (Contrast Induced-Acute Kidney Injury), nei pazienti sottoposti ad esame TC con MdC.

È un dato accertato che in pazienti con funzione renale normale, anche in presenza di diabete, il rischio di CI-AKI sia basso (1-2%)42. Tuttavia l'incidenza può raggiungere il 25% nei pazienti con insufficienza renale preesistente o in presenza di determinati fattori di rischio, come ad esempio la combinazione di malattia renale cronica (CKD) e diabete, lo scompenso cardiaco, l’età avanzata, e la concomitante somministrazione di farmaci nefrotossici43. La CI-AKI si configura come la terza causa più comune di AKI di nuova insorgenza in pazienti ospedalizzati (dopo la riduzione della perfusione renale e la somministrazione di farmaci nefrotossici) ed è responsabile dell’11% dei casi44

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pazienti critici non è nota. In un gruppo di 75 pazienti ricoverati in terapia intensiva con una creatininemia basale normale sottoposti a TC con MdC a bassa osmolarità per via endovenosa, è stato registrato un incremento della creatininemia > 25% nel 18% dei casi, mentre non è stata riscontrata nessuna variazione della stessa in un gruppo controllo di pazienti sottoposti a CT senza MdC45. Questo piccolo studio evidenzia come nei pazienti critici, anche con una funzione renale apparentemente normale, la somministrazione di MdC iodato è associata ad una incidenza significativa di CI-AKI. Inoltre molti studi hanno dimostrato che i pazienti che sviluppano CI-AKI hanno un aumentato rischio di morte o di prolungata ospedalizzazione, così come di altri outcomes avversi, tra cui eventi cardiovascolari precoci o tardivi46.

I criteri AKIN, precedentemente descritti, permettono di effettuare un’accurata stima della misura del danno renale in acuto (Acute Kidney Injury - AKI, inteso come una brusca riduzione della funzione renale avente una delle seguenti condizioni: aumento assoluto della creatininemia ≥ 0,3 mg/dL entro 48h o aumento della creatininemia ≥ 1,5 volte rispetto al valore basale o diuresi < 0,5 mL/kg/h per 6 ore). Tuttavia, anche se il primo stadio di questa classificazione è simile ma non del tutto corrispondente, la CI-AKI, termine ampiamente utilizzato in letteratura per i pazienti che sviluppano AKI in seguito a somministrazione intravascolare di MdC radiologico (prevalentemente iodato), è stata definita come un incremento in valore assoluto della creatininemia ≥ 0,5 mg/dL o relativo del 25% rispetto al basale, verificatosi entro 72 ore dalla procedura radiologica47, 48.

Fattori di rischio

Una compromissione pre-esistente della funzionale renale è il principale fattore di rischio per lo sviluppo di CI-AKI49. Oltre a ciò, altri importantissimi fattori di rischio per lo sviluppo della CI-AKI comprendono il diabete, l'ipertensione, lo scompenso cardiaco, l’età avanzata, l’ipovolemia, l’instabilità emodinamica, il concomitante uso di farmaci nefrotossici (aminoglicosidi come la gentamicina50, antitumorali come il

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cisplatino51, amfotericina B, fans, alcuni antipertensivi, alte dosi di diuretici dell'ansa, antivirali come l'aciclovir e il foscarnet, litio ecc ), l’utilizzo di grandi volumi di MdC, o di MdC ad elevata osmolarità49, 52.

In merito a quanto detto, di particolare interesse, un ampio studio retrospettivo, eseguito nel 2013 e coinvolgente più di 28.000 pazienti con funzione renale stabile, sottoposti a esami TC con MdC, ha documentato che l’utilizzo di una soglia di filtrato glomerulare (eGFR - estimated Glomerular Filtration Rate) < 45ml/min, calcolata con l’algoritmo MDRD, è preferibile ai valori soglia di creatininemia (>1.5mg/dl o >2.0 mg/dl) per identificare i pazienti a rischio di CIN53.

Per essere più esaustivi, nella Fig. 18 sono riassunti i fattori di rischio suddivisi in modificabili e non modificabili.

Figura 18: Fattori di rischio modificabili e non modificabili per lo sviluppo di CIN

Patogenesi

Per quanto riguarda la patogenesi della CI-AKI non ancora si è giunti ad una piena interpretazione, ma sicuramente i meccanismi principali sottesi sono due, che agiscono probabilmente in maniera sinergica: l’azione tossica diretta sulle cellule tubulari renali e l’ipossia tissutale midollare. L’effetto tossico diretto è stato documentato sia da alterazioni cellulari morfologiche che funzionali; queste ultime interessano in particolare l’attività mitocondriale ed il trasporto di membrana cellulare. Il secondo meccanismo

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è legato alla riduzione del flusso renale; questo effetto risulta particolarmente critico nella porzione della midollare renale, dove è già fisiologicamente presente una ridotta tensione di ossigeno legata sia all’aumentato consumo di ossigeno, dovuto ai meccanismi di trasporto tubulare, sia alla riduzione della circolazione nei vasa recta.

Per quanto concerne il danno renale diretto, studi negli animali sperimentali e studi in vitro evidenziano come i MdC iodati possono indurre direttamente apoptosi delle cellule tubulari renali mediata da caspasi54. L’apoptosi da MdC può essere dovuta all'attivazione delle “shock proteins” ed alla inibizione di enzimi citoprotettivi e prostaglandine55, 56. Alcuni studi eseguiti su colture di cellule tubulari di coniglio hanno evidenziato che sia il MdC iper-osmolare sia quello ipo-osmolare provocavano un peggioramento dell’attività respiratoria mitocondriale, associato a riduzione del contenuto di ATP, di potassio e di calcio intracellulare57, 58.

Entrando nel merito della patogenesi del meccanismo vascolare della CIN, è stato dimostrato che in seguito alla somministrazione di MdC il flusso renale presenta dapprima un transitorio aumento, apparentemente correlato all’iperosmolarità, come nel circolo periferico, a cui segue una prolungata vasocostrizione con conseguente aumento delle resistenze vascolari renali e diminuzione della perfusione renale, che causa riduzione del GFR (Glomerular Filtration Rate), con accentuazione delle condizioni ipossiche a livello della midollare59-62 (Fig. 19).

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Fig. 19: I complessi meccanismi con i quali i mezzi di contrasto iodati causano la caduta del filtrato glomerulare (GFR).

Inoltre, sempre in fig. 19, si può osservare come il MdC sia capace di determinare la riduzione del GFR anche attraverso altre azioni. Infatti numerosi studi in vitro, come quello di Sendeski et al.63, hanno accertato che i MdC causano una vasocostrizione marcata dei vasa recta della midollare renale, dovuta ad una riduzione di ossido nitrico (NO), ed aumentano la risposta vasocostrittoria all’angiotensina II. In aggiunta i MdC causano anche una diuresi osmotica (documentato sia nel lavoro di Sendeski che in altri), che comporta un maggior apporto di fluido tubulare e quindi un maggior riassorbimento attivo tubulare nel lembo ascendente spesso delle anse di Henle con conseguente maggior consumo di O2; ciò aggrava

ulteriormente l’ipossia midollare. Un altro aspetto correlato è l’aumento della viscosità del fluido intratubulare indotto dal MdC, che comporta un incremento della pressione intratubulare renale riducendo il gradiente tra pressione idrostatica glomerulare e pressione intratubulare64. Pertanto, la diuresi osmotica da MdC provoca un’ostruzione tubulare funzionale che contribuisce al danno dell’epitelio tubulare e alla caduta del GFR.

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Un ruolo importante nella patogenesi della CIN sembra essere svolto dallo stress ossidativo. Pisani et al.65 di recente hanno dimostrato che in ratti trattati con MdC, la somministrazione di manganese superossido dismutasi ricombinante è in grado di ridurre lo stress ossidativo renale, prevenendo così la riduzione del GFR ed i danni istologici renali che conseguono alla somministrazione del MdC. L’ipossia midollare infatti può causare la formazione dei ROS66. Cruciale risulta la caduta del NO che si ritiene essere dovuta alla sua reazione con i ROS, in particolare l’anione superossido67, 68, con formazione dell’anione perossinitrito69, estremamente dannoso per le cellule endoteliali (Fig. 20).

Fig. 20: I complessi meccanismi con i quali i mezzi di contrasto iodati causano la caduta del filtrato glomerulare (GFR). Il ruolo importante dello stress ossidativo.

Ma i MdC esercitano anche una citotossicità diretta sulle cellule endoteliali vascolari e sulle cellule epiteliali tubulari renali causando apoptosi e necrosi, a sottolineare il concetto di sinergia tra i meccanismi diretto e vascolare. Le cellule endoteliali sono le prime cellule con le quali i MdC entrano in contatto a seguito della somministrazione intra-venosa ed intra-arteriosa. La deplezione del NO nei vasa recta è dovuta non solo all’aumentata produzione di ROS, ma anche alle cellule endoteliali danneggiate ed apoptotiche.

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Recenti studi si sono incentrati sull’importanza di determinati fattori implicati nella risposta all’ipossia e in grado di svolgere un ruolo protettivo nei confronti del danno cellulare. Un ruolo centrale nei processi protettivi cellulari è svolto dai cosiddetti fattori inducibili dall’ipossia (HIF). Gli HIF, a loro volta, agiscono attraverso l’attivazione dell’espressione genica dell’eritropoietina, di fattori angiogenetici e di enzimi, tra i quali l’emeossigenasi-1 (HO-1)70

. In particolare, Goodman et al.71 hanno dimostrato nel ratto che il danno renale da MdC si associa ad un aumento dell’espressione genica dell’HO-1 nella corticale renale e che l’HO-1 è in grado di stimolare la produzione di proteine antiapoptotiche (Bcl-xl e Bcl-2) nella midollare renale, di ridurre la produzione sia di proteine proapoptotiche (caspasi 3 e caspasi 9) sia di anione superossido, di indurre la sintesi di NO endogeno. Sicuramente occorrono ulteriori conferme dagli studi sull’uomo, tuttavia alla luce di queste osservazioni è possibile che lo sviluppo della CIN possa dipendere anche da una ridotta efficienza di questi sistemi protettivi.

Prevenzione

In merito alla prevenzione della CI-AKI, sono state valutate numerose strategie per prevenire l’insorgenza della stessa. Sterling et al. hanno recentemente riassunto la maggior parte di queste strategie e le hanno classificate come certe, possibili, o di dubbio valore72. Tra quelle certe questi autori considerano l’espansione della volemia per via parenterale, la riduzione al minimo del volume del MdC utilizzato, l'uso di MdC a bassa osmolarità (o iso-osmolari) e non-iodati. In tutti i pazienti sottoposti ad indagini radiologiche con MdC, la funzione renale deve essere monitorata con il dosaggio della creatininemia ed il calcolo dell’eGFR; in modo particolare in quelli ad alto rischio, nei quali il controllo viene svolto prima e ogni giorno per 5 giorni dopo l’indagine radiologica73.

L’adeguata idratazione del paziente viene dunque annoverata tra le strategie certe da intraprendere; è la principale. L’espansione del volume intravascolare infatti comporta la soppressione del sistema

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angiotensina e la riduzione della vasocostrizione e dell’ipoperfusione renale. Inoltre l’incremento della diuresi riduce il tempo di contatto del MdC con l’epitelio tubulare renale e quindi la sua tossicità diretta sull’epitelio stesso74. L’idratazione deve essere adeguata, per esempio 500 mL di acqua da assumere prima e circa 2500 mL dopo la somministrazione del MdC, in modo da garantire una diuresi di almeno 1 mL/min75. Nei pazienti ad alto rischio si dovrebbe somministrare endovena un’infusione di soluzione salina 0,9% con una velocità d’infusione di 1 mL/Kg/h, iniziando 6-12 ore prima di somministrare il MdC e continuandola fino a 12-24 ore dopo (naturalmente se è presente una diuresi e se le condizioni cardiovascolari lo consentono)76. Sulla questione se operare l’idratazione con una soluzione di bicarbonato di sodio o con la soluzione fisiologica di cloruro di sodio 0,9% esistono pareri discordanti tra vari autori, i cui studi clinici hanno portato a risultati diversi a vantaggio dell’una o dell’altra tipologia d’idratazione. Attualmente, la “European Renal Best Practice”77 raccomanda l’espansione del volume extracellulare o con una soluzione di cloruro di sodio isotonica o con una di bicarbonato di sodio in pazienti ad alto rischio di CIN.

Si deve utilizzare la dose più bassa possibile del MdC. Si raccomanda di impiegare sia MdC iodati iso-osmolari sia ipo-osmolari: iodixanolo e iopamidolo rappresentano, rispettivamente, i MdC iso e ipo-osmolari di scelta per ridurre il rischio di CI-AKI78.

La sospensione dei farmaci nefrotossici va attuata prima dell’utilizzo del MdC. Alcuni farmaci specifici dovrebbero essere sospesi, ovvero gli aminoglicosidi, la vancomicina, l’amfotericina B, la metformina e i fans78. Sugli aminoglicosidi e l’amfotericina B, qualora non possano essere sospesi, la “European Renal Best Practice”77 suggerisce nel primo caso di usare una singola somministrazione oppure, con funzione renale normale, singole dosi giornaliere monitorando i livelli ematici dell’aminoglicoside, mentre nel secondo caso di aumentare l’infusione di soluzione salina. Discorso particolare merita la metformina, l’antidiabetico orale che stimola la produzione intestinale di acido lattico, impiegata nel trattamento del diabete di tipo II. Dato che la sua eliminazione è quasi esclusivamente renale, se il MdC dovesse provocare una CIN, quindi una riduzione marcata del GFR, la

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