di Francesco Seghezzi, Michele Tiraboschi
Le impegnative sfide tecnologiche, ambientali e demogra-fiche che ci attendono nei prossimi anni ci indicano con chiarezza una principale via da seguire, quella educativa. È in questa prospettiva che abbiamo accolto con favore il tema del-la alternanza scuodel-la e del-lavoro. Non certo per piegare del-la formazio-ne dei ragazzi ai (soli) bisogni del mercato del lavoro, quanto per esaltare la formazione della persona dentro contesti reali ed espe-rienziali che sono certamente più fecondi e utili di apprendimenti nozionistici là dove siano slegati dalla comprensione del senso delle cose che si leggono sui libri di scuola.
Discuterne non è semplice. È dalle leggi Biagi e Moratti di inizio millennio che si cerca di diffondere una modalità pe-dagogica che ha come obiettivo l’incontro tra due mondi che spesso non si parlano, la scuola e il lavoro, per contri-buire ad una migliore formazione delle competenze degli studenti. Con la riforma della “Buona Scuola” l’alternanza è sta-ta resa obbligatoria e ben presto, complici percorsi di alternanza non sempre ben congegnati, sono arrivate le proteste pubbliche degli studenti al grido di “non siamo operai” e quelle, più
* Intervento pubblicato in Boll. ADAPT, 12 novembre 2018, n. 39.
2. Apprendistato e tirocini 107
ziose ma forse ancor più determinati, degli insegnanti. Il contrat-to tra le forze ora al governo definiva l’alternanza uno “strumen-to dannoso” e ques“strumen-to è risulta“strumen-to negli interventi previsti dalla prossima Legge di Bilancio. Nel testo che verrà discusso in Par-lamento infatti è prevista una forte riduzione delle ore di alter-nanza (più del 50%) in tutti i percorsi scolastici e una proporzio-nale riduzione delle risorse stanziate. Ma ciò che sembra destina-to a dare il colpo di grazia all’alternanza scuola-lavoro è il decredestina-to che il MIUR dovrà adottare in merito alle linee guida per i nuovi percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento. Scompa-re quindi la parola stessa lavoro affiancata a quella di scuola per un ritorno al termine più rassicurante di orientamento.
Quello della integrazione tra mondo della scuola e mondo del lavoro è un tema urgente in un Paese martoriato da oltre 2 milioni di under 29 che non studiano e non lavorano. In-fatti tutte le statistiche europee ci ricordano che proprio i Paesi nei quali è presente un maturo sistema di istruzione duale sono quelli in cui la disoccupazione e l’inattività giovanile è inferiore. Il punto non è quello di far incontrare il lavoro, qualunque lavoro, in giovane età; quanto aprire le aule scolastiche a tutto quello che le circonda con una formazione che sia crescita integrale della persona: esperienza, relazione, pratica e non solo nozionismo.
La scelta del Governo in carica non deve in ogni caso di-ventare l’occasione per la difesa a spada tratta di tutto quel-lo che è stato fatto negli ultimi anni. Spesso infatti non si so-no promossi percorsi di vera alternanza, nei quali le ambizioni e i desideri dei ragazzi e delle ragazze si sposavano con realtà lavora-tive che potevano aiutarli nella maturazione di competenze adat-te. Complice un mondo della scuola e dei docenti impreparato e anch’esso lontano dai tessuti produttivi e un mondo delle impre-se povero di figure che possono svolgere un ruolo formativo, è capitato che alcuni percorsi degli studenti risultassero poco utili
confondendo lo strumento (il contatto con il mondo reale) con il metodo che è pur sempre quello di un apprendimento attivo in situazioni di compito. Come sempre in Italia però l’eccezione è stata portata in piazza e nei dibatti per distruggere la regola e non utilizzata come un esempio negativo da mostrare per migliorare ed eliminare i difetti.
Capiremo nei prossimi mesi l’impatto della riforma varata dal Governo. Non possiamo però rinunciare a coltivare una straordinaria occasione per innovare la didattica e il modo di fare scuola dall’interno, partendo dai ragazzi e dai loro docenti, per-ché di riforme sulla carta ne abbiamo avute sin troppe in questi anni e nessuna di esse è mai riuscita a incidere sul bisogno di cre-scita integrale dei nostri studenti.
Trump sceglie l’apprendistato per promuovere occupazione e produttività. E l’Italia?
*di Alessia Battaglia, Matteo Colombo
Con una recente dichiarazione, il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha proclamato la “Apprenticeship week”, dal 12 al 18 novembre di quest’anno. La dichiarazione è stata l’occasione per il Presidente di ricordare l’impegno della sua amministrazione nella promozione dell’apprendistato negli Stati Uniti, dove è storicamente poco apprezzato e diffuso. Solo nel 2018, sono stati stanziati quasi 300 milioni di dollari per l’implementazione di percorsi d’apprendistato in settori produtti-vi tradizionalmente estranei a questa tipologia contrattuale, anche grazie alla creazione di un Task Force dedicata, il cui scopo è sta-to quello di analizzare i benefici dell’apprendistasta-to e soprattutsta-to comunicarli a datori di lavoro e giovani. (cfr. A. Battaglia, L’apprendistato negli Stati Uniti).
È particolarmente interessante notare come, secondo il Presidente americano, l’apprendistato è un efficace stru-mento per la promozione dell’occupazione giovanile, in particolare grazie alla sua capacità di colmare il gap esi-stente tra le competenze possedute dai giovani in uscita dai percorsi d’istruzione e formazione, e i fabbisogni espressi
* Intervento pubblicato in Boll. ADAPT, 19 novembre 2018, n. 40.
dalle imprese. L’apprendistato assume così il ruolo di “ponte”
verso la piena occupabilità, anche in settori ad alto contenuto tecnologico ed innovativi. Inoltre, l’apprendistato è indicato co-me uno struco-mento fondaco-mentale per migliorare la produttività del Paese e la sua competitività su scala globale. Inseguire questi risultati è possibile solo esaltando la capacità dinamica e formati-va dell’istituto, capace di far dialogare sistemi scolastici e mondo delle imprese, attraverso un metodo che integra istruzione e lavo-ro. L’amministrazione punta quindi sull’apprendistato come principale strumento per l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro.
Pochi sono i punti di contatto con la situazione italiana.
Nonostante i numeri ancora modesti, l’obiettivo americano è chiaro: valorizzare l’apprendistato e il suo ruolo come strumento per la crescita economica. In Italia invece, se an-diamo ad analizzare le modalità con cui i giovani entrano nel mondo del lavoro, assistiamo a uno scenario completamente di-verso. Considerando solamente i tirocini extracurriculari, quelli cioè svolti al di fuori di un percorso d’istruzione e finalizzati per lo più all’inserimento lavorativo, nel 2017 assistiamo a una loro crescita del 15,4% rispetto all’anno precedente, con circa 368 mi-la tirocini extracurricumi-lari attivati [1]. Nello stesso periodo, i con-tratti d’apprendistato erano poco più di 250.000 [2]. Sebbene i primi dati riguardanti il 2018 mostrino una crescita dell’istituto, rimane confermato che in Italia esso è molto meno diffuso ri-spetto al tirocinio extracurriculare. L’apprendistato, inoltre, è pre-sente solo nella sua versione professionalizzante, sganciata da percorsi d’istruzione e dal contenuto formativo più modesto. Da una prima lettura di questi dati, emerge come, ad oggi, il princi-pale canale con il quale i giovani entrano nel mondo del lavoro è il tirocinio, e non l’apprendistato. Questo, di per sé, non è auto-maticamente un male: lo diventa quando si rivela palese il ricorso
2. Apprendistato e tirocini 111
all’istituto per mascherare del vero e proprio lavoro dipendente che di formativo ha ben poco.
La scelta di campo è evidente: gli Stati Uniti puntano sull’apprendistato, per costruire un ponte in grado di dare ai giovani competenze spendibili nel mercato del lavoro e in grado di permettergli carriere di qualità; in Italia tutto tace e, nel silenzio, proliferano tirocini il cui valore formati-vo non è sempre evidente, scelti più per un abbattimento dei costi del lavoro che per la realizzazione del “ponte” so-pra richiamato. Basti pensare che, in un recente articolo pubbli-cato sul Corriere della Sera [3], si presentano le offerte di lavoro raccolta al “Bocconi&Jobs”, momento realizzato dall’ufficio pla-cement dell’Università: quasi 250, tutti stage per brillanti neolaurea-ti. Ora, i casi sono due: o la formazione universitaria non impar-tisce le competenze richieste dal mercato del lavoro – e questo è un problema in primis del mondo accademico, spesso sordo ai fabbisogni professionali – oppure il tirocinio è ora equiparato ad un periodo di prova, il cui scopo è “conoscere” il giovane, più che formarlo. In entrambi i casi, siamo davanti ad una stortura:
nel primo, non si capisce allora perché non ricorrere – in nessun caso – all’apprendistato, ma affidarsi esclusivamente ai tirocini extracurriculari, nel secondo siamo davanti ad una strategia di abbattimento del costo del lavoro che di certo non ha come obiettivo il bene dei giovani, né della loro formazione.
Oltre a subire la “concorrenza” dei tirocini come strumento pri-vilegiato per l’ingresso nel mercato del lavoro, l’apprendistato è vittima anche di una forte resistenza culturale da parte delle imprese che vedono in questa tipologia contrattuale soltan-to un risparmio sul cossoltan-to del lavoro, invece che un’opportunità di crescita aziendale, grazie alla componente formativa che lo caratterizza. Solo prendendo atto del valore formativo dell’impresa, le aziende italiane riusciranno ad essere
innovative, a creare valore non solo per se stesse, ma anche per il territorio in cui si inseriscono, raggiungendo così l’obiettivo di essere competitive sui mercati internazionali.
Soprattutto l’apprendistato “scolastico” e di alta formazione potrebbero essere realmente una leva per la produttività e la competitività delle imprese. L’integrazione tra teoria e pratica che queste due tipologie contrattuali consentono di mettere in at-to concorre alla formazione di persone, che non solo diventeran-no lavoratori competenti e altamente specializzati, ma che saran-no anche cittadini attivi e consapevoli del contesto in cui sosaran-no inseriti, concorrendo così allo sviluppo del Paese, oltre che alla propria realizzazione personale.
Senza voler avanzare paragoni improbabili, gli Stati Uniti ci mo-strano un modo di intendere – anche culturalmente – l’apprendistato come efficace strumento non solo per aumentare l’occupazione, ma per creare lavori di qualità e per la crescita economica di tutto il Paese. In Italia, invece, poco si investe e per nulla si parla di apprendistato, anzi sembra diffondersi una tendenza alla svalutazione degli strumenti che consen-tono l’integrazione tra la scuola e il lavoro. A partire dall’ al-ternanza scuola-lavoro nell’istruzione superiore – di cui ad oggi sembra che non resterà neanche il nome, mutando in “percorsi per l’orientamento e le competenze trasversali” – il nostro Paese sembra ancora lontano dalla valorizzazione della qualità dei per-corsi con cui i giovani entrano nel mercato del lavoro.
[1] Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Rapporto sulle comunica-zioni obbligatorie 2018, p. 6.
[2] Ibidem.
[3] Irene Consigliere, Marketing, finanza e tecnologia. Oltre 800 chance per neolau-reati, Corriere della Sera, 13 novembre 2018.