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dell’educazione

3.4 Verso una pedagogia attenta alle pratiche

È in questa prospettiva che Milena Santerini ha infatti recentemente ribadito il rischio di «un approccio compensativo e speciale all’integrazione, basato sulla necessità di assorbire rapidamente l’immigrato rendendolo un “buon alunno”» (Santerini, 2010, p. 18). L’autrice ha notato come l’educazione interculturale sia stata per anni influenzata da una «visione esotizzante e relativistica di esaltazione della differenza culturale in quanto tale» (ibidem). Per tal motivo, la stessa Santerini suggerisce a tutti coloro i quali si occupano di educazione, di provare ad orientarsi verso un’‘educazione interculturale di seconda generazione’ (ivi, pp. 11-35). Un’educazione, cioè, che sappia collocarsi in una società dove realmente «il pluralismo è la norma» e sia in grado di affrontare concretamente «le problematiche legate ad un’immigrazione non transitoria, ma stabile, costruendo un futuro per la convivenza» (Santerini, 2010, p. 16). Dello stesso parere è anche Padoan, la quale afferma che risulta necessario far compiere a quella che viene definita educazione interculturale «un salto qualitativo» passando quindi «dalla concezione di inserimento delle diversità emersa con le prime, seconde e terze migrazioni, alla migrazione attuale che si rappresenta più fluida e complessa, trasversale e culturale». Ciò comporta che i processi migratori non vengano concepiti isolati come invece spesso accadeva in passato, ma siano messi in relazione con «le nuove economie, le delocalizzazioni, il cambiamento del lavoro, le nuove problematiche di libertà politica ed individuale, di emancipazione, di

Tesi di dottorato di Luisa Zinant discussa 99 presso l’Università degli Studi di Udine parità e legalità, che richiedono progetti di vita, di sperimentazione di altre possibilità, modalità di altri luoghi, di altre esigenze» (Padoan, 2012, p. 134-135). In questa fase di educazione interculturale di ‘seconda generazione’, l’aggettivo ‘interculturale’ dovrebbe servire quindi, come ritiene Portera, «solamente da “stampella” per ricordare tutte le forme di differenze […] presenti in famiglia, in classe, nel luogo di lavoro e nella società civile» (Portera, 2012, p. 195).

Ogni soggetto, migrante o autoctono che sia, dovrebbe essere quindi considerato libero dalle gabbie culturali entro le quali (spesso in modo inconsapevole) viene rinchiuso. Sarebbe infatti necessario approdare ad un nuovo modo di intendere la pedagogia e in particolare la pedagogia interculturale, un approccio che come sottolinea Fiorucci dovrebbe essere in grado di gestire in maniera «consapevole ed equilibrata differenze e diversità» (Fiorucci, 2008, p. 27), ampliandone il senso e l’orizzonte conoscitivo. Anche Ruth Soenen è del medesimo parere: «l’educazione interculturale dovrebbe occuparsi di differenze nel senso ampio della parola, in cui le fonti della varietà debbono essere esplorate […]. Non siamo più alle prese con definizioni statiche di un determinato gruppo etnico ma con definizioni più dinamiche che dovrebbero essere esaminate e specificate contesto per contesto» (Soenen, 2003, p. 103).

Il paradigma precedente di educazione interculturale dovrebbe quindi risolversi progressivamente in una «educazione alla diversità» (Santerini, 2003, p. 196), o meglio, in una ‘educazione alle diversità e alle differenze’, non legate quindi specificamente alla sola dimensione ‘culturale’.

Sarebbe necessario infatti educare alle diversità, all’eterogeneità contemporanea proprio per evitare il rischio di tornare ai pericolosi ‘esotismi’ del passato, o, al contrario di annientare le differenze in nome di una più o meno bene mascherata omologazione. Tale riformulazione teorica permetterebbe inoltre di promuovere «un pensiero migrante, capace di oltrepassare il proprio punto di vista per ricercare e confrontarsi con altri punti di vista e altre logiche, per scambiare progetti e ipotesi

Tesi di dottorato di Luisa Zinant discussa 100 presso l’Università degli Studi di Udine di nuovi mondi possibili. Un pensiero dinamico e problematico, dunque, aperto alla pluralità e alla differenza […]. Un pensiero capace di decentrarsi, di allontanarsi dai propri riferimenti cognitivi e valoriali» (Frabboni, Pinto Minerva, 2001, p. 361). In ciò, verrebbe dunque valorizzato un approccio educativo che attraverso la metaforica prospettiva «del radar» (Albarea, 2000, p. 85) consentirebbe di utilizzare «l’occhio extradisciplinare» proposto da Morin (1999, trad. it. 2000, p. 133) e sviluppare così visioni «a tutto tondo», «non stereotipate e pluriangolari» (Albarea, 2000, p. p. 84) delle diversità di cui ogni soggetto è portatore. Un’educazione e una pedagogie alle e delle diversità permetterebbe, in ultima battuta, da un lato, di evitare che le differenze possano trasformarsi in disuguaglianze e dall’altro, di concepire il soggetto in formazione come una persona ‘complessa’ (e qua si evidenzia chiaramente il riferimento all’intero filo conduttore del capitolo), con interessi, vissuti, abitudini che non sempre si legano alla ‘cultura’ per l’appunto in cui è nata. Un modo per provare ad adempiere tale compito, potrebbe essere dunque quello di assumere una nuova prospettiva pedagogica, tesa a creare un allontanamento «da un’impostazione epistemologica e operativa centrata su un paradigma culturalista (nelle sue pur diverse declinazioni multi-, inter- o transculturali) per esplorare [invece] ambiti di ricerca attenti alle più generali – e nel contempo sempre situate e particolareggiate – caratteristiche ed eterogeneità di tali contesti» (Zoletto, 2012b, p. 9).

Super-diversità (Vertovec, 2007), differenze, eterogeneità, dunque, come cornice e contenuto di una società ormai contrassegnata da una iper-complessità, che, come più volte sottolineato, ha inevitabilmente provocato notevoli mutamenti anche nel campo delle scienze dell’educazione: «il pluralismo dei saperi, l’ibridazione disciplinare, il polimorfismo epistemologico, la ricerca empirica, la costruzione enciclopedica, la specializzazione crescente, ecc.» (Mariani, 2005, p. 9). La pedagogia, innanzi a questi cambiamenti, dovrebbe dunque provare a riformulare se stessa divenendo dunque pedagogia della complessità nella

Tesi di dottorato di Luisa Zinant discussa 101 presso l’Università degli Studi di Udine complessità delle differenze presenti negli attuali contesti educativi eterogenei. Come ricorda Visalberghi, infatti, la pedagogia è chiamata a confrontarsi con la sfida: «della complessità del reale» (1987, p. 24).

Una possibile modalità per provare a compiere questo passaggio, specificamente alla ricerca pedagogica in ambito interculturale, sarebbe quello di approfondire le dinamiche collegate alla condivisione di pratiche vissute da e tra giovani di origini diverse, per inserirle in maniera pedagogicamente orientata nella prassi educativa quotidiana. Il tentativo dovrebbe quindi essere quello di «superare il dialogo tra sordi, che talvolta caratterizza la convivenza senza contatti significativi del “condominio multiculturale” per allacciare una conversazione a più voci. Una conversazione ora stentata, che ha bisogno di mediazioni, di spazi per comprendersi, di molteplici e faticose traduzioni. Una conversazione che prenda avvio dalle cose concrete, dagli oggetti condivisi, dalle situazioni comuni» (Favaro, 2008b, p. 36).

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Parte II