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Vila DNOCS è situata a Est di Brasília, immediatamente all’esterno della cintura verde esterna al lago artificiale; nata come occupazione nel 1967 quando il Departamento Nacional de Obras contra a Seca1, DNOCS appunto, aveva fatto costruire venti case per ospitare i propri impiegati e alcuni capannoni per usi vari, tra cui l’alloggio di lavoratori single.

L’occupazione, che cresceva spontaneamente, negli anni novanta è stata acquisita dalla GDF, intermediaria della Terracap, e ciò aumentò l’aspettativa di una regolarizzazione facendo aumentare la popolazione con una nuova ondata. Nel 2005 vi erano 450 famiglie, per lo più alloggiate in baracche di legno; le infrastrutture e le opere di urbanizzazione mancavano completamente.

Già a partire dal 1998 la Vila DNOCS era oggetto di piani di regolarizzazione, stabiliti sia all’interno dei piani locali, sia nei programmi per la residenza del Distrito Federal; per la ricostruzione dei passaggi e il richiamo alle diverse leggi che si sono susseguite si rimanda a Roberta Pereira da Silva (2014).

Sostanzialmente il piano operativo si basava sulla pianificazione di nuove aree residenziali in sostituzione delle baracche, con riallocazione delle famiglie, e sul recupero ambientale a seguito dei danni fatti fino a quel momento.

Il progetto era basato su una griglia di case isolate su lotto, diversificate in base alle dimensioni del nucleo famigliare e distanziate tra di loro per motivi igienici; le attrezzature di uso pubblico invece venivano mantenute e potenziate, restando concentrate tutte in un unico settore. Tutto il progetto della lottizzazione è caratterizzato da parametri, distanze minime e obblighi di opere di mitigazione; ciò che risalta è un dato in particolare, riguardante la dimensione dello spazio aperto per le infrastrutture e lo spazio pubblico: il 55,67% contro il 36,8% della superficie destinata alla residenza (di cui solo poco più della metà doveva essere effettivamente occupato). Si intravvede quindi una preponderanza dello spazio aperto su quello costruito, chiaramente sproporzionata rispetto a qualsiasi tradizione costruttiva, in particolare quelle della città spontanea brasiliana; una tale bassa densità del costruito, con conseguente diradamento dell’abitare, lasciava presagire le stesse dinamiche già viste fin dall’inizio delle città satellite. In questo caso le dimensioni dei distacchi imposte per garantire le minime condizioni igieniche, ma anche evitare il fenomeno degli annessi e delle case di fondo del lotto, fanno capire quale fosse la qualità dello spazio aperto: 3 metri sul fronte e 2 metri sul retro, con una distanza di 2 metri tra case alte due piani.

Come risulta evidente anche dalle fotografie scattate durante il completamento del quartiere, le case appena costruite hanno fin dall’inizio subito una serie di addizioni, che visto il poco spazio a disposizione si riducono soprattutto a recinti, muri, portoni, logge, ma che riflettono il tentativo di espressione di ciascuna famiglia e la necessità di chiusura per motivi di sicurezza. Generalmente soddisfatti della qualità delle case, stando ai sondaggi, gli abitanti avevano come unica possibilità di trasformazione l’allungamento fino al confine: le case, infatti, essendo costruite con muratura, non potevano essere modificate tramite spostamenti di pareti, aperture, tramezzi, e agli abitanti veniva anche fornito un manuale di manutenzione in modo che non intervenissero come erano abituati a fare con le baracche in legno. È evidente, quindi, la chiusura totale che si determina sul fronte strada, che porta lo spazio pubblico a ri-assomigliare vagamente a quello degli insediamenti spontanei, ma sempre dilatato, rettilineo, ripetitivo, con una sezione stradale sovradimensionata rispetto all’uso effettivo (12 metri, 7 di carreggiata e 2,5 di marciapiedi). La realizzazione parziale riguarda molti marciapiedi,

che non sono stati pavimentati e mancano di accorgimenti per l’accessibilità; ma soprattutto mancano i lotti previsti per il commercio, segnalati come insufficienti dagli abitanti stessi, così come quelli per i servizi primari (educazione, salute, sicurezza).

Soffermarsi anche sugli aspetti più tecnici e di dettaglio è necessario in quanto i modi di realizzazione e il non raggiungimento degli obiettivi rappresentano una tendenza diffusa, ripetuta similmente in tutti gli interventi di realizzazione di quartieri residenziali per la regolarizzazione di invasioni; l’assenza di qualità e servizi, unitamente alla mancanza di trasporto pubblico e di opportunità lavorative, contribuisce a mantenere un abitare dimezzato in questi ambiti satellitari, un po’ come avviene nei famigerati quartieri dormitorio di tante altre realtà.

Nella sua tesi Roberta Pereira da Silva rileva come, nella dichiarata volontà di garantire possesso della terra, qualità dell’abitare e standard accettabili, la regolarizzazione di Vila DNOCS abbia effettivamente prodotto alcuni miglioramenti oggettivi nella qualità della vita,

grazie alla dotazione di edifici sensibilmente più adeguati, e dell’ambiente, stante la gestione minima delle acque e dei rifiuti. Rileva anche come l’operazione sia stata considerata conclusa nonostante il non raggiungimento di tutti gli obiettivi, in quanto le urbanizzazioni non sono state completate, e continuano a mancare i requisiti di accessibilità e conformità dei percorsi, degli edifici pubblici, della piazza.

Per esempio, avendo basato la sua ricerca sul rapporto tra questa operazione specifica e l’assunto di partenza delle politiche in cui si inseriva – il diritto alla città sancito dallo Statudo da Cidade – Pereira da Silva critica la predominanza dello spazio carrabile a scapito di quello pedonale, e della precedenza che le automobili hanno sui pedoni, riconoscendola come una tendenza storicamente costante nell’urbanistica brasiliana.

Ma soprattutto denuncia una questione più largamente diffusa in tutte le operazioni di regolarizzazione delle favelas nei programmi brasiliani, anche quando, dopo il 2001, tali operazioni venivano fatte nel nome del diritto alla città: le famiglie non sono coinvolte. L’assenza di partecipazione reale degli abitanti è infatti un tema ricorrente, segnalato anche da altri autori a proposito della costruzione di quartieri residenziali in sostituzione di quelli spontanei; spesso, tale mancanza di partecipazione è non solo una carenza, ma addirittura un’aggravante, in quanto contribuisce a disgregare reti di rapporti costruiti in modo comunitario e basati su spazi fisici appositamente realizzati, i quali spariscono nella costruzione a tavolino di nuove parti di città, o nella ridefinizione dei parametri e degli indici che disegnano le nuove abitazioni.

Si è già accennato alla linea che da Marx passa da Lefebvre, per spiegare come le favelas rappresentino le sacche previste dal capitale per l’approvvigionamento della forza lavoro. I teorici del Grupo MOM2 vanno oltre: agganciando il discorso ai modi di gestione delle favelas, o agli squat in generale, sostengono che proprio nel momento in cui essi diventano politicamente o economicamente rilevanti, vengono investiti da piani di riqualificazione. Questi piani possono consistere in trasformazioni fisiche, trasferimenti, o in azioni più astratte, simboliche, e possono raggiungere l’obiettivo di inclusione più o meno efficacemente, ma significano in ogni caso un’imposizione di un ordine superiore su quegli spazi. Ciò si traduce, oltre che in un maggiore controllo, in una perdita di infiniti dispositivi spaziali sedimentati nel tempo e dovuti all’azione spontanea in continuo divenire degli abitanti, che nel caso delle nuove lottizzazioni a tavolino sono sostituiti da batterie di case identiche tra loro e da spazi aperti ripetitivi, dilatati e non presidiati dalla comunità.

Sempre il Grupo MOM, a questo proposito, denuncia il fallimento dei metodi partecipativi usati in Brasile a partire dagli anni 90, proprio perché non hanno coinvolto realmente gli 2 nel saggio Architecture as Critical Excercise (Baltazar Dos Santos A. P., KAPP S., Morado D, 2007),

69.Vila DNOCS prima dellintervento [Fonte: GDF SEDHAB (2009)]

abitanti, ma si sono invece basati su processi rigidi, con priorità decise dall’establishment e con una fase di salf-management non prevista. Ad esempio, dallo studio fatto sul Plano Global Especifico su alcune favelas di Belo Horizonte nel 1995, evincono che gli abitanti non sono soddisfatti delle condizioni abitative delle nuove unità e rimpiangono la possibilità di muoversi a piedi nelle favelas, di sfruttare i passaggi, i vicoli, gli spazi di soglia tra le abitazioni e la strada3.

Il caso di VilaDNOCS è uno dei pochi casi studiati in questi anni a Brasília in quest’ottica e sembra confermare le preoccupazioni esposte, ma è solo un piccolo caso esemplare tra quelli che si sono realizzati a Brasília negli stessi anni, come per esempio le lottizzazioni di Jardins Mangueiral, nella Regione Amministrativa di São Sebastião.

3 Per un approfondimento si vedano, del Grupo MOM, The Paradox of Participation: A Case Study

on Urban Planning in Favelas and a Plea for Autonomy, 2012; Architects in favelas: three critiques and a proposal, 2012