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Il punto di incontro tra i vari pareri appena presentati è la riconosciuta influenza tra l’impiego degli strumenti di protezione della proprietà intellettuale e la prestazione innovativa: sia che l’azienda preferisca pensare e tradurre questa performance in nuovi prodotti, nuovi processi, avanzamento tecnologico, piuttosto che miglioramenti nell’efficienza produttiva/distributiva o nella Supply Chain

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Management (Wu, Yeniyurt, Kim, & Tamer Cavusgil, 2006) (Bengtsson, et al., 2013) (Azadegan & Dooley, 2010), a seconda del contesto territoriale e tecnologico che la circonda (Dosi, Marengo, & Pasquali, 2006) (Cohen W. , 1995) (Laukkanen, Sainio, & Jauhiainen, 2008) (Cohen, Goto, Nagata, Nelson, & Walsh, 2002) (Shu et al., 2014) , è sicuramente innegabile l’effetto dovuto all’impiego degli strumenti di tutela della conoscenza sull’innovazione (Laukkanen P. H., 2011) (Spithovena & Teirlinck, 2014) (Laursen & Salter, 2006).

Ciò è riconosciuto dalla maggior parte dei modelli proposti dalla letteratura, che rilevano l’esistenza di relazioni monotone positive tra rafforzamento della protezione della proprietà intellettuale e la performance innovativa. Molte analisi empiriche spiegano questo risultato motivandolo con la diretta associazione tra il rafforzamento di tali strumenti e diritti di monopolio prolungati, che generano un maggior valore scontato per i flussi di profitto futuri e di conseguenza incentivano ad un maggior tasso d'innovazione (Griliches, 1990) (Teece, 1996) (Chesbrough H. , 2003b) (Leiponen & Byma, 2009) (Neuhäusler, 2012).

Altri riconducono il suddetto legame alla natura della informazioni che, rese standard mediante l’impiego di strumenti quali ad esempio il brevetto, diventano maggiormente fruibili e trasferibili in un processo di scambio trasparente e chiaro (Gallini, 2002) (West, 2006) (Teece & Pisano, 2007) (Alexy, Criscuolo, & Salter, 2009) che potrebbe, allo stesso tempo, essere associato ad un ritorno economico ove la titolarità della conoscenza venga ceduta a terzi mediante licenze o royalty per l’impiego in un mercato alternativo (Chesbrough & Garman, 2009) (Lichtenthaler, 2007) (Teece, 1986).

Ancora, altri stimano l’importante effetto sulla performance aziendale riconducibile al potenziamento della reputazione aziendale, all’incremento del potere contrattuale negli scambi e alla considerazione degli strumenti di tutela della proprietà intellettuale come fondamentale leva di marketing (Shu et al., 2014) (Paallysaho & Kuusisto, 2008) e, più in generale, in ottica strategica (Shapiro & Varian, 1999) (Pisano, 2006).

Altri autori, tuttavia, hanno mostrato che la tesi riguardo la semplice correlazione positiva tra protezione e innovazione non può essere ritenuta valida in assoluto. Ad esempio, Manzini et al. (2012) sostengono che l'effetto dovuto all’impiego di strumenti formali sulle prestazioni innovative non è sempre positivo, così come Laursen e Salter (2006) suggeriscono un effetto positivo solo se la “forza” della protezione non è condotta ad un livello estremo tale da pregiudicare i benefici dovuti all’apertura, caso in cui si inizierebbe ad avere un rendimento innovativo decrescente (Furukawa, 2010)

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H1: La relazione tra l’impiego di Strumenti di Protezione della Proprietà Intellettuale e la Performance Innovativa in aziende che aprono il processo di innovazione a partner esterni segue un andamento curvilineo dalla forma ad “U” rovesciata

| Il rapporto tra Innovazione e Proprietà Intellettuale nelle Partnership 60 3.3.2. La Tutela nelle Collaborazioni Esterne

La scelta di un partner piuttosto che un altro è una valutazione fondamentale quando si decide di intraprendere una strada condivisa con finalità innovative.

Esistono infatti differenze significative tra i vari stakeholder patibili che influenzano le modalità di gestione e coordinamento della collaborazione, nonché i potenziali benefici che ne potrebbero derivare. Le caratteristiche specifiche e i diversi contributi di ogni tipologia di partner – fornitore, cliente, concorrente, agenzia governativa, intermediari, ecc - ci fanno intuire infatti che ognuno di essi inciderà in maniera differente sulla relazione e sui risultati.

In questa prospettiva la scelta della composizione dei partner da includere nella rete di collaborazioni diventa un fattore di particolare criticità in quanto determinerà il grado complementarietà del portafoglio di competenze a disposizione (Amara & Landry, 2005) (Nieto & Santamarìa, 2007), oltre ad influire sulla stabilità della relazione stessa. La combinazione di risorse e conoscenze diversificate e complementari rappresenta infatti la chiave per il rinnovamento e la creazione di nuovo valore aggiunto (Cohen & Levinthal, 1990) (Nelson & Winter, 1982) (Becker & Dietz, 2004) ed offre l’opportunità alle imprese di scegliere tra diversi percorsi tecnologici (Metcalfe, 1994).

Proprio l’importanza riconosciuta alla scelta della tipologia e della numerosità di partner da coinvolgere la relazione ha portato diversi ricercatori ad analizzare quanto queste valutazioni sono influenzate dalla strategia competitiva aziendale ed in particolare dall’aggressività tecnologica (Lichtenthaler & Ernst, 2009) (Brockhoff & Chakrabarti, 1988) (Dìaz, Aguiar-Dìaz, & De Saà-Pèrez, 2006). Questa determinante, secondo Lichtenthaler e Ernst (2009) tiene in considerazione tre variabili principali: la tecnologia aggressiva (che rappresenta quindi un breakthroughs rispetto allo stato dell’arte o ai concorrenti), l’intensità della R&S e la tendenza alle innovazioni radicali (Abernathy & Clark, 1985) (Brockhoff & Pearson, Technical and marketing aggressiveness and the effectiveness of research and development, 1992).

Le imprese che sostengono una strategia aggressiva credono molto di più nella valorizzazione della tecnologia esterna e nei processi innovativi aperti. Inoltre, esse prestano particolare attenzione alle opportunità ed alle sfide manageriali di commercializzazione della tecnologia esterna. Le aziende che scelgono una strategia tecnologica aggressiva, adoperandosi per essere leader tecnologici, per divenire i first-movers, per guidare l’evoluzione della tecnologia e per conseguire innovazioni radicali, potranno godere delle opportunità offerte dal contesto dell’Open Innovation ma, per ottenere ciò, avranno bisogno di un’ampia varietà di partner esterni (Lazzarotti & Manzini, 2009). Ciò è supportato dall’evidenza empirica di Lichtenthaler (2008) che mostra come le aziende che riescono ad garantirsi un portafoglio diversificato di fonti esterne siano effettivamente quelle maggiormente in grado di creare nuove tecnologie, di adattarsi ai rapidi cambiamenti del contesto, di ridurre i rischi e di godere dei benefici derivanti dagli spillover di partner o di rivali.

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Hoang e Rothaermel (2005) suggeriscono infine di non sopravvalutare i vantaggi della collaborazione con lo stesso partner nel corso del tempo: alleanze aggiuntive con la stessa controparte spesso forniscono solo informazioni ridondanti e causano inerzia (Gulati, 1995) ed eccessiva dipendenza (Hoecht & Trott, 2006).