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PRENDERSI CURA

2.3.1 La violenza di genere nel Piano integrato 2012-2015

Nel Piano Integrato di Salute, la regione Toscana inserisce la violenza di genere come una tra le possibili cause di perdita della salute.

Oltre essere riprese le normative regionali prima esposte, e le relative definizioni in merito alla violenza contro le donne, nel P.I.S si interpreta la violenza come un problema di asimmetrie di genere: «la violenza contro le donne e la violenza di genere sono riferite ad una vasta gamma di abusi commessi sulle donne che hanno origine nelle diseguaglianze di genere e nel diffuso stato di subordinazione delle donne nella società rispetto agli uomini»208.

Gli obbiettivi proposti nel P.I.S per sconfiggere il fenomeno sono i seguenti:209

 Migliorare la risposta di fronte alla violenza di genere attraverso il miglioramento e l'implementazione dei meccanismi di risposta, intervento, di cura e di reinserimento delle vittime attraverso l'integrazione degli interventi sanitari e sociali.

 Migliorare e promuovere la conoscenza e l'emersione del fenomeno sul territorio toscano attraverso tutti i soggetti istituzionali e non che fanno parte della rete (l.r 59/2007).

 Promuovere e sostenere azioni di sistema a livello regionale, reti di intervento territoriali e attività di prevenzione, informazione e sensibilizzazione sul fenomeno della violenza.

 Attuazione e implementazione delle linee guida regionali.

 Promuovere il cambiamento nel modello delle relazioni sociali tramite i principi di pari-opportunità, autonomia ed empowerment, tramite un lavoro finalizzato ad

208 www.consiglio.regione.toscana.it/.../PDD%20n_%20191%20Piano%20sa [consultato il 20 agosto 2014].

un «cambiamento nel modello delle relazioni sociali tra uomini e le donne, soprattutto nell'ambito degli affetti, a fine di consolidare il diritto della cittadinanza delle donne, e contestualmente, l'emersione di un fenomeno sino ad oggi confinato soprattutto nei contesti familiari delle vittime»210.

Riconoscere la violenza di genere come un fenomeno radicato nella società; e, così avere riaffermato la natura strutturale della violenza come un'asimmetria dei generi, è stata una apertura molto importante da parte della Regione nei confronti dei centri antiviolenza. A questi ultimi non è stato solo riconosciuto il valore di una esperienza pluridecennale nella gestione del fenomeno, ma anche la validità di una prospettiva che prevedeva proprio nella costruzione di una rete formata da soggetti istituzionali e non, il fulcro della propria attuazione.

A questo proposito ci pare pertinente l'intervento della rappresentante dei centri antiviolenza T.O.S.C.A alla conferenza stampa di Montecitorio sul riparto dei fondi per il finanziamento ai centri antiviolenza (questione che verrà decisa nella conferenza Stato-regioni) promossa da D.i.R.e nel luglio 2014.

In tale occasione è stato presentato il caso toscano, esponendo le difficoltà finanziarie dei di T.O.S.C.A. (problema comune a tutti i centri in Italia), ma anche l'esistenza di una buona interlocuzione tra i centri e la Regione (cosa che non avviene in tutte le regioni italiane), come per esempio il fatto che la vicepresidente Stefania Saccardi abbia riconosciuto «i dodici centri appartenenti a T.O.S.C.A come i veri e unici centri antiviolenza storici della Toscana»211, facendo così sperare ad nella ripartizione dei fondi alle strutture già esistenti piuttosto che l'apertura di nuovi centri antiviolenza istituzionali.

Questo riconoscimento ai nasce proprio dall'importanza che la Regione Toscana riconosce al ruolo del terzo settore. Quest'ultimo infatti, non riveste solo un ruolo «sussidiario», ma bensì si afferma come un pilastro nel welfare locale; poiché se anche vero che sono i comuni ad esercitare le funzioni di programmazione locale e del sistema

210 Ibidem.

ingrato tramite l'approvazione di piani integrati socio-sanitari, il terzo settore si inserisce concorrendo ai processi di programmazione regionale e locale ciascuno secondo le proprie specificità, partecipando alla progettazione, attuazione ed erogazione degli interventi e dei servizi del sistema integrato.

3. Percorso Assistenziale rivolto alle donne vittime di violenza nel comune di Pisa

Il percorso rivolto alle donne vittima di violenza a Pisa è un vero e proprio esempio di integrazione tra assistenza socio-sanitaria e terzo settore. Vi sono coinvolti tutti i soggetti della rete locale (Unità Funzionale Salute Mentale Infanzia Adolescenza e Adulti, Associazione Casa della Donna, Associazione Donne in Movimento, Cooperativa «Il Simbolo» e il «Progetto», A.S.L. Pisa, Servizi Sociali, Unità Marginalità, Unità Infanzia Adolescenza e Immigrazione di Pisa) e vengono chiariti i compiti di ciascuno e le modalità di accesso al percorso.

Le fasi sono sette212:

1. Informazione ed orientamento: in questa prima fase i servizi sociali e sanitari, del terzo settore e forze dell'ordine del territorio si impegnano a garantire accoglienza, e il colloquio di primo contatto per svolgere la funzione di punto di ascolto e orientamento.

2. Accesso: il requisito per l'accesso è la residenza. Nel caso in cui una donna non sia residente, le si garantisce un'accoglienza breve in tempo utile ad attivare i servizi delle località di residenza. L'accesso ai servizi avviene laddove sia possibile garantire un incontro , nel quale, gli operatori possano svolgere la funzione di raccolta ed analisi iniziali (tramite una scheda di rilevazione) e consentire una comprensione iniziale.

3. Invio: effettuata l'analisi della domanda, l'operatore di riferimento valutato la

gravità del caso e predisporre l'invio al servizio sociale territoriale di pertinenza. 4. Presa in carico: entro quattro giorni dalla segnalazione, il servizio sociale ha il compito di assumere la regia d'intervento facilitando l'avvio di un lavoro di équipe multidisciplinare integrato. L'operatore che ha effettuato il primo contatto e il primo colloquio con la vittima, segnala il caso al servizio sociale. L'assistenza sociale effettua un secondo colloquio entro quattro giorni dalla segnalazione. Entro cinque giorni, si attiva lo psicologo per un ulteriore incontro con la donna.

5. Elaborazione progetto individualizzato e piano operativo: la convocazione di un gruppo multiprofessionale composto da assistente sociale competente per territorio, psicologo, operatrici centro antiviolenza e eventuali altri operatori è organizzato dall'assistente sociale e lo psicologo che hanno effettuato la presa in carico.

In questa fase cruciale del piano viene elaborato, coinvolgendo la donna, il progetto personalizzato. Questo progetto è basato sulla centralità della donna (facendo riferimento alla vita della donna, le sue capacità di reazione e di realizzazione personale tramite le risorse del territorio.

Il progetto deve contenere: obbiettivi specifici, azioni, tempi, risultati attesi, vincoli e responsabilità di ciascun componente dell'équipe, oltre a una previsione delle risorse a disposizione.

6. Attuazione del progetto individualizzato: il progetto si attiva con la firma del contratto di aiuto (strumento del servizio sociale nel quale si indicano tutti gli aspetti del progetto e nel quale le parti si impegno a lavorare affinché il progetto funzioni). L'équipe multiprofessionale segue tutte le fasi di sviluppo. In caso di elevata gravità, la Casa della Donna di Pisa si occuperà dell'ingresso della vittima nella casa rifugio, nel caso di donna immigrata e non residente sarà l'associazione Donne in movimento ad occuparsene.

durante l'intero processo di aiuto. I criteri utilizzati sono quelli di efficacia (in comparazione con i risultati attesi e ottenuti) ed efficienza (comparazione tra i risultati attesi e risorse impiegate).

In questa fase si costituisce un «Gruppo Tecnico» di monitoraggio e sostegno per tutti i progetti presi in carico e sull'applicazione complessiva delle linee guida. Questo si riunisce almeno tre volte l'anno ed è formato dai responsabili di tutti i servizi delle rete. Come si evince dalla normativa e dai diversi protocolli d'intesa siglati con i Centri Antiviolenza, la Regione Toscana ha prestato grande attenzione al fenomeno della violenza contro le donne. Aver puntato sull'importanza della prevenzione e sulla formazione di una reta integrata di servizi formata da operatori specializzati, dimostra fino a che punto il legislatore toscano abbia recepito i valori e l'esperienza dei centri antiviolenza. Ci pare, inoltre, di particolare rilievo la scelta politica di aver assegnato un ruolo centrale, nel percorso assistenziale, alla figura dell'assistente sociale investito del compito di coordinamento del progetto e delle associazioni coinvolte. Infatti la dimensione valoriale ed etica del servizio sociale si basa sugli stessi principi delle associazioni create dalle donne per le donne, ovvero la «dignità originaria, l'autodeterminazione e la autorealizzazione personale»213.

Inoltre, ci pare di poter affermare che la fattispecie tutta italiana di avere la percentuale maggiore di operatori del servizio sociale di sesso femminile possa considerarsi persino un aspetto positivo di agency e advocacy in quanto possa dare voce alle donne, per le donne da parte di donne.

Se l'assistente sociale, per definizione è da considerarsi come un «agente di cambiamento», solo lavorando a stretto contatto con i centri antiviolenza che più di altri hanno saputo dare voce ad un fenomeno di cui le cause e le conseguenza restano ancora sommerse, potrà essere davvero un protagonista attivo di questa trasformazione.

213 G.Pieroni, M. Dal Pra Ponticelli, Introduzione al servizio sociale. Storia, principi, deontologia, Carrocci Faber, Roma 2008, p.176.

CONCLUSIONI

L’obiettivo di questo elaborato è stato quello di illustrare la natura socio-politica della violenza contro le donne. Dopo l’esame condotto ai vari aspetti della questione, ci pare di poter avanzare tre osservazioni conclusive: la prima riguarda la Convenzione di Istanbul, la seconda il rapporto tra l’associazione «Donne in rete contro la violenza» e il servizio sociale e la terza ha come oggetto l’importanza che riveste D.i.R.e nella società. La «Convenzione d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica», nota come «Convenzione di Istanbul», a mio avviso, ha il merito di contribuire fortemente al concetto di cittadinanza europeo, non solo perché predispone un ordine di protezione internazionale, ma soprattutto perché dà inizio ad un nuovo percorso culturale, auspicando l’eliminazione delle discriminazioni e promuovendo una concreta parità tra i sessi, mirando all’ambizioso obiettivo di rafforzare l’autonomia e l’autodeterminazione delle donne.

Questo cammino inizia tramite l’educazione alle differenze, e cerca di sgretolare tutti quei comportamenti socialmente e culturalmente indotti, e ancora troppo spesso considerati innati, che una società considera «appropriati» per femmine e maschi.

All’articolo 14 vengono delineati nuovi programmi scolastici per ogni ordine e grado, compresa l’Università, con l’attuazione dei gender studies, concentrati sull’importanza della parità dei sessi, necessari per la formazione di una nuova classe politica e dirigente europea. Quest’ultima avrà il compito di ripensare l’attuale stato dei rapporti legati al genere, che come sottolinea Ginsburg, «non si limita al permeare la sfera politica ed economica, ma sotto molti aspetti ne determina la specifica forma e configurazione»214, per generarne di nuovi a favore di forme politiche più rappresentative e partecipative. La seconda osservazione riguarda alcuni aspetti del servizio sociale che ho analizzato nel quarto e nel quinto capitolo.

Il primo riferimento è rivolto alle «Linee guida per il servizio sociale» promosse dal patto d’intesa tra «A.N.C.I» e «D.i.R.e» nel 2013. Queste sono da considerarsi come il vedemecum degli operatori sociali, di tutti i comuni italiani, che si occupano di violenza contro le donne.

I nodi principali della rete sono il Servizio sociale e i centri antiviolenza, che insieme ne costituiscono il centro di ordinamento.

La grande innovazione contenuta in questo documento è il reciproco riconoscimento tra servizio sociale e centri antiviolenza non istituzionali.

Il primo identifica i secondi come esperti della materia, dato il lavoro svolto a partire dagli Anni Settanta, come soggetti capaci di sviluppare una metodologia ben articolata (quella dell’accoglienza) e non più considerati come enti sussidiari o ausiliari, bensì come primi attori nel contrasto a questo fenomeno.

I centri antiviolenza individuano a loro volta il servizio sociale, nella figura dell’assistente sociale, il soggetto istituzionale più vicino ai cittadini chiamato a rivestire il ruolo primario per il cambiamento sociale, indispensabile per riuscire a contrastare la violenza contro le donne, che trova le proprie radici proprio nella struttura sociale. Questa vicinanza è oggi resa possibile da una «presa di coscienza» dei principi valoriali contenuti in tutte e due i modi operandi, ovvero quello dell’empowerment e dell’autodeterminazione dei soggetti, e prendendo le mosse dall’allontanamento che si è venuto consolidando sempre più tra centri antiviolenza e servizio sociale.

Difatti, è tra la fine degli Anni Sessanta e i primi Settanta del Novecento che in Italia sono nati, dal grande movimento femminista radicale, i primi centri antiviolenza. Questa seconda ondata del movimento per le donne fatto da donne ha denunciato «l’esperienza di cosa significasse essere femmina in una società sessuata»215 basata sul patriarcato, condannando tutti quei valori che non consentivano alle donne una piena autodeterminazione di sé.

Questa radicalità ha messo in discussione la famiglia italiana, le istituzioni e tutto ciò che vi ruotava intorno , incluso il servizio sociale. L’assistente sociale era considerato

un ingranaggio del più ampio meccanismo del controllo statale, il quale operava nella dimensione individuo/famiglia e quindi non riconosceva l’ideale «il privato è politico» gridato in piazza da migliaia di donne.

Contemporaneamente il servizio sociale italiano viveva il suo periodo più florido di crescita216: iniziavano già a delinearsi alcune prospettive che avrebbero trovato il oro culmine con il D.P.R.616/77 e la legge 833/1978, istituzione del Servizio Sanitario Nazionale che definirono il quadro dei poteri regionali e l’introduzione del distretto socio-sanitario territoriale.

La metodologia più accreditata e utilizzata era il «case work» ideato da Mary Richmond, considerata unanimemente tra le pioniere del servizio sociale. Questa teoria prevedeva di aiutare il soggetto a risolvere i problemi di inserimento nel contesto sociale, auspicandone e promuovendone lo sviluppo della persona.

Difatti questo tipo di lavoro era considerato dai centri antiviolenza come una conferma di una visione individualistica, la quale non lasciava spazio all’idea che invece i problemi fossero legati proprio alla struttura della società, ed alle difficoltà che il soggetto incontrava per riuscire ad interagire e a realizzarsi in questa.

Oggi, la crisi del welfare e del servizio sociale (che trovano origine a partire dagli anni 80 del ‘900) ha di fatto reso possibile questa «riconciliazione necessaria» tramite il reciproco riconoscimento per riuscire a far fronte al fenomeno della violenza contro le donne.

A mio avviso però, servizio sociale e femminismo non sono mai stati lontani, forse questo «distacco» è stato dovuto alle scelte, criticabili o meno, intraprese dal servizio sociale italiano di abbracciare il case work piuttosto che altre metodologie, come ad esempio quella di Jane Addams la quale vedeva nella diffusione delle politiche sociali il solo modo per risolvere i problemi individuali «largamente dipendenti dalle condizioni sociali»217.

216 G.Pieroni - M. Dal Pra Ponticelli, Introduzione al servizio sociale. Storia, principi, deontologia, Roma, Carrocci Faber, 2008, p.70.

Jane Addams (1860-1935)218, prima donna ad aver vinto il Nobel per la Pace (1931), attivista femminista per l’estensione del diritto di voto, riconosciuta anche lei come una delle pioniere del servizio sociale, ed è stata la prima ad aver intuito la natura societaria dei problemi utilizzando uno speciale modo di operare che riponesse nelle riforme sociali la matrice principale per poter risolvere le diverse questioni.

Ritengo utile rileggere con attenzione il pensiero di Jane Addams e adattarlo ai tempi più recenti, attivando politiche sociali volte al cambiamento della società per fare in modo che la violenza contro le donne non venga puntualmente descritta come un fenomeno che riguarda la metà della popolazione, ma come una questione sociale che riguarda tutti e che necessita di cambiamenti strutturali, a partire da quelli culturali, per poter essere sconfitta.

La terza, ed ultima osservazione è rivolta all’importanza che hanno le associazioni, come nel caso di D.i.R.e, per la società. A queste va riconosciuto il merito di creare attenzione, promozione e una adeguata mobilitazione per la salvaguardia dei diritti umani; hanno la responsabilità di dare voce a quei soggetti che non trovano rappresentanza nella sfera politica che non rientrano nelle priorità del Governo, o a quelli ai quali non vengono riconosciuti i medesimi trattamenti solo perché non conformi alla società.

Le associazioni permettono una visione critica riguardo alle scelte fatte dalla politica in merito a determinati argomenti come ,per esempio, le critiche rivolte alla legge 119/2013, nota come legge sul femminicidio; queste, credo, hanno avuto il merito di far riflettere a proposito della garanzia dei diritti e degli interessi collettivi. In questo caso si sono messi in discussione i mezzi giuridici che sono stati elaborati dal Governo Letta, e poi attuati da quello Renzi, per contrastare la violenza di genere; «ma mezzi per realizzare cosa?» si sono chieste le attiviste dato che si è preferito far fronte a questo fenomeno realizzando una normativa dall’aspetto «securitario» piuttosto che l’attuazione di politiche centrate sulla cultura, prevenzione, sensibilizzazione rispetto delle differenze di genere.

La partecipazione di «Donne in rete contro la violenza» alla vita politica, tramite le diverse azioni descritte nel quarto capitolo, è necessaria per la formazione di una nuova cultura democratica che «mentre alimenta un impegno civile moderato, garantisce il rispetto dell’autorità politica senza sacrificare l’indipendenza organizzativa e di giudizio dei cittadini»219. D.i.Re contribuisce alla costruzione di un nuovo ipotizzabile sistema di welfare basato sulla «solidarietà orizzontale»220 piuttosto che sulla sussidiarietà orizzontale, permettendo quindi una governance locale più trasparente e attenta ai bisogni dei cittadini (per esempio tramite le linee guida per il servizio sociale).

Il lettore, probabilmente, potrebbe essere rimasto sorpreso nel constatare la scelta di aver voluto associare i termini «lobby» e «femminista» per descrivere D.i.R.e.

Premetto che questa scelta è relativa all’intervista con la presidentessa Titti Carrano, che ha definito in questo modo la sua organizzazione.

Riguardo al termine «lobby», risulta facile il riferimento al «legame reale o supposto tra lobbying e corruzione»221, e quindi una certa «opacità»222 tra i rapporti del sistema politico e i gruppi di pressione (esempio emblematico è stato quello di Tangentopoli o la corruzione, tristemente ancora presente nel nostro Paese). Purtroppo tutto questo offusca quelle forme di pressione (prevalentemente provenienti da un lobbying grass root) che nulla hanno a che fare con altre forme di corruzione.

Sul termine «femminista», invece, il pensiero potrebbe essere accostato alla solita «lamentela femminista». A tal proposito, mi trovo molto vicina alle considerazioni fatte a riguardo dalle attiviste: ossia prendere atto che questa idea comune sia il risultato di un «gap di autorevolezza». Probabilmente se a definire «lobby» l’azione politica intrapresa da D.i.R.e fosse un uomo la percezione risulterebbe diversa e le questioni legate al genere non resterebbero né relegate in un «ghetto di studi di genere»223, né trattati in maniera superficiale.

219 L.Mattina, I gruppi di interesse, Bologna, Il Mulino, 2015, p.214. 220 P. Ginsburg, Op.cit, p.63.

221 G.Graziano, Le lobbies, Roma-Bari, Gius.Laterza & Figli, 2007, p.99. 222 Ivi, p.90

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