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Nella visione della mala�a presente in molte delle nostre interviste è interessante so�olineare un secondo aspe�o, che conferma un’osservazione emersa dall’analis

dei giornali. Per quanto abbia travolto la loro vita e procurato sofferenza, nel bilan-

cio complessivo le persone si rifiutano di ridurre la mala�a a un errore da risolvere,

un accidente da curare. Rivendicano, in un certo senso, la pienezza di un’esperienza

umana complessa.

L. – La mala�a � costringe a elaborare una quan�tà di cose. Un Parkinson a trentasei

anni � dà un rosone tale alla vita che... E poi c’è proprio, come dir�? Sperimentare il senso del limite, la mala�a contro cui non puoi fare niente. Veder� che diven� bru�a, devastata, malata e puoi soltanto dire sì, non puoi fare niente, puoi soltanto acce�are. Ti cambia da così a così.

Io ho avuto tu�a una rivoluzione anche interiore. Cioè, ven�cinque anni di Parkinson non � lasciano com’eri. Pra�camente ho fa�o un corso accelerato di crescita spirituale, credo.

Penso che il Parkinson sia stata un grande opportunità per me.

Perché io ero arrivata un po’ allo sbando, non sapevo bene che cosa fare della mia vita, […] Poi questo sberlone che mi è arrivato mi ha dato l’occasione di �rare fuori il meglio di me. E quindi ho realizzato la mia vita a�raverso la mala�a, che è una roba orrenda a dirla. Non per niente sono il presidente di [Associazione], ci sarà un mo�vo. E questa è stata un’esperienza bellissima, perché ho imparato un sacco di cose.

Io ho trovato le mie risposte, nel senso che a un certo punto non avevo più domande. A un certo punto � accorgi che non hai più domande, che il tuo rapporto col mondo è cambiato, che non stai più male. Io sono stata male per anni, male nel senso malessere esistenziale, non sapere che fare della tua vita, dove andare a sba�ere.

Cioè questa cosa mi ha spinto a dare il meglio di me, non il peggio.

Ma. – Mi sono avvicinato molto [alla fede] a�raverso ‘sta mala�a…

Non vorrei apparir� per uno di quelli che crede… però, se riesco veramente come si dice a me�ere la mia vita nelle mani di qualcuno più grande e più importante di me, per me che sia vero o non sia vero, è un modo di vivere molto migliore e molto più… non di dir�, � capita la tragedia e dici: Eh, si vede che… perché son dure, però neanche pensare di avere in mano tu�a la tua vita. Perché è vero, puoi scegliere tante cose di farle e non farle, però io ho vissuto dove le scelte erano imposte e quindi… e poi non potevo darmi colpe per ‘sta mala�a e non volevo neanche dare colpe ad altri, e quindi… Non lo so, alla fine io credo che il mio modo di credere, che non è certo nei modi da insegnare… però penso che mi abbia aiutato anche in ques� trent’anni. Guarda, lo so che è un discorso del cavolo, però io mi ricordo com’ero anche a qua�ordici-quindici anni: ero veramente una testa di c… cioè, non ero un delinquente, però per piacere alla gente, io ero pronto a tu�o. Parlo degli amici… E quindi ogni tanto penso: Ma ‘sta mala�a, magari è servita a farmi cambiare, a farmi trovare altre dimensioni. Una mia amica ha de�o: se i bookmaker me�evano la tua laurea nella… uno che scomme�eva su di te, vinceva miliardi. Perché io a scuola ero negato […] Poi pensi e dici: magari erano gli inizi della mala�a, non lo so. Però, dico, magari io non mi sarei mai laureato…

Penso che forse, indipendentemente dal fa�o che io creda o meno o che tu creda o meno, nella vita capitano le cose e per me vivi male quando pensi di avere in mano ogni cosa. E allora, per me bisogna essere consci che non si può essere sempre come si vorrebbe, vivere sempre…

G. – Per ora [il Parkinson] mi sta �rando fuori delle cose magari che avevo prima, che

prima non avevo il coraggio... Ero un uomo e allora ero più... che adesso, non so se è debolezza... Mi sta �rando fuori delle cose buone, delle cose belle.

Non lo so perché... Prima [dell’intervento] mi sen�vo un po’... mi vergognavo degli amici, magari, perché io sono sempre stato non un duro, ma un fisico perfe�o, mai avuto mala�e. […] E invece adesso capisco com’è il discorso: uno può stare benissimo e avere male a un dito che gli crea più problemi della mia mala�a. E queste cose le sto capendo adesso che ho cinquant’anni e passa. Prima... non riesco neanche io a capire come mai, queste cose io le avevo anche prima solo che prima non riuscivo a esprimerle. […] Ero duro però […] poi ero come una palla di neve: dura se la schiacciavi,

poi se la lasciavi si sfaldava tu�a. Io avevo paura di quello sfaldamento che poteva succedere, allora ero sempre schiacciato, schiacciato, ero sempre teso... Invece adesso, anche se mi sfaldo, anzi mi fa piacere sfaldarmi.

D. – Alla fine sai la gente vede uno che gli trema la mano e dice: Cazzo, questo non

è più capace di fare niente! E invece non è vero, perché alla fine io sono molto più concentrato su questo lavoro, e ho preso anche molta più forza e più determinazione nelle scelte, nelle cose che facevo. Secondo me è un errore delle persone pensare che uno che ha il Parkinson sia... cioè sia un handicappato, perché io vedo che al �mone sono molto più concentrato e riesco molto più a dare il meglio di me che non prima della mala�a. Ma sai uno � vede che tremi e dice: Questo qui, che cazzo vuole fare le regate? Non esiste.

3.2 COMUNICARE LA DBS. CHE COSA CI INSEGNANO I PAZIENTI

Analizzata la stampa, raccolte le tes�monianze dei pazien� e messi in luce pun� di

conta�o e distanze fra i due, possiamo infine provare a rispondere a una delle do-

mande poste inizialmente: in che modo il nostro lavoro può essere u�le per innovare

la comunicazione della Dbs? Visto il campione limitato sia per la stampa sia per i pa-

zien�, la nostra è una ricerca esplora�va che non intende proporre tanto contenu�

e risulta� generalizzabili quanto un metodo per o�enerli. Ci sembra però che già a

questo livello mostri come, interpellando dire�amente i pazien�, si acceda a cono-

scenze e contenu� altrimen� invisibili: proseguito e ampliato, il lavoro prome�e da�

interessan� per cogliere i limi� della comunicazione e dell’informazione a�uali sulla

s�molazione cerebrale profonda e per tentare di innovarle.

So�o il profilo della comunicazione, che cosa comporta dunque ascoltare i pazien-

�? Le implicazioni sono diverse. Da una parte, interpellare gli «esper� laici» significa

legi�marli come voci autorevoli in materia e so�rarre la Dbs all’esclusivo appannag-

gio di scienzia� e clinici: la tecnologia in questo modo entra nel diba�to pubblico

come una ques�one non pre�amente scien�fica ma carica di altre valenze; mostra

al pubblico le proprie ricadute sulla società, sulla vita delle persone e delle famiglie,

sulle scelte di governance pubblica. So�o questo aspe�o, consultare i pazien� (o altre

«voci marginali», amministratori o mondo dell’industria, per esempio) risponde al

possibile obie�vo di trasformare la comunicazione in uno spazio plurale, luogo di una

discussione a molte voci. E per quanto il tema della Dbs possa essere circoscri�o, è

su quest’apertura che si può costruire un dialogo capace di coinvolgere i diversi a�ori

nei processi decisionali, come scrivono Eric Racine e colleghi riferendosi alle neuro-

scienze in generale:

Promuovere gli scambi fra neuroscienzia� e pubblico dei non esper� non solo può accrescere la comprensione che il pubblico ha delle neuroscienze, ma anche aumentare

La complessità delle ques�oni in gioco e i possibili vantaggi di un diba�to aperto invitano a pensare una comunicazione più complessa, aperta e mul�direzionale. Un simile modello considera la scienza una componente della cultura e la società una realtà mul�culturale. La dis�nzione fra concezioni degli esper� e dei non esper� diventa così un con�nuum, nel quale ognuna interagisce con l’altra. [Racine et al., 2005, p. 7.]

Al di là di ques� obie�vi, e forse prima di ques�, prestare ascolto alla voce dei

pazien� perme�e di mol�plicare narrazioni e significa�, superando la cornice del-

l’innovazione che sembra prevalere nella comunicazione della Dbs proposta dalla

stampa generalista: si amme�ono così nel racconto colle�vo sulla neuros�mola-

zione cerebrale profonda conoscenze e riflessioni in grado di promuovere tanto

fra gli adde� ai lavori

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quanto fra i profani una considerazione più cri�ca e accorta

della tecnologia e di preservarci forse da errori di valutazione già sperimenta� in