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Ma basta zappare il proprio giardino?

Ho indicato, pur se brevi accenni, una chiave di lettura sul- la crisi della teodicea che può essere sviluppata a partire dal Poema sul disastro di Lisbona. La sottolineatura, accanto alle possibilità, anche dei limiti della ragione e, in generale, dell’uo- mo porta a concepire la condizione umana come stato in cui il limite ontologico schiude alla dimensione morale evitando, proprio in virtù dell’affermazione del carattere finito dell’uo- mo, che si precipiti nel prometeismo, un’insidia sempre aperta nella e dalla logica dell’illuminismo. Come hanno magistral- mente evidenziato Adorno e Horkheimer, il carattere «dialetti- co» dell’illuminismo consiste, infatti, proprio nella tensione tra potenzialità critico-emancipative e rischi di caduta nella hybris del dominio. Collocata in tale ambito di riferimento, la figura di Voltaire dopo la svolta provocata dal terremoto di Lisbona può assumere valore rappresentativo di un atteggiamento fi- losofico consistente nel meditare su quanto può e quanto non può la ragione di fronte alla sofferenza umana nel mondo31.

30 Voltaire, Candido, cit., p. 94.

31 Invero, anche dopo il Candide, la posizione di Voltaire sul proble- ma del male sarà tutt’altro che lineare; ma non si può approfondire questo aspetto, peraltro ben visibile negli scritti successivi al romanzo.

Quella che Jürgen Habermas ha definito la «modernità au- toriflessiva», capace di tenere insieme volontà di progresso e coscienza del limite (quindi aliena dal coltivare ogni tentazione totalizzante), potrebbe forse trovare nel Voltaire post-1756 una corrispondenza dal punto di vista teoretico e anche un riferi- mento utile per chi accetti una definizione di «illuminismo» come categoria applicabile, secondo appunto l’accezione fran- cofortese, molto al di là dei limiti cronologici del Settecento.

Per spiegare quest’ultima affermazione si può richiamare ancora Habermas là dove egli individua il momento di frattura delle potenzialità critico-emancipative dell’Aufklärung proprio in corrispondenza della trattazione kantiana del problema del male. Nel tentativo di ricondurre la questione del male inte- gralmente entro il cono della ragione Habermas individua il gesto inaugurale della deriva del moderno dalla quale alla fine nasceranno i totalitarismi. Kant – così argomenta Habermas – aveva smantellato la «simbiosi tra religione e metafisica» pro- dotta dall’ellenizzazione del cristianesimo e lo aveva fatto trac- ciando una linea di confine tra «la forza morale della religione razionale e le fedi delle rivelazioni positive». Hegel, nella sua critica al «dogmatismo puro» illuministico, sostituisce a una «ragione che traccia confini», come appunto quella kantiana, una ragione che «assimila e ingloba»: «Egli presenta la morte in croce del figlio di Dio come il centro di un pensiero che inten- de fare propria la figura positiva del cristianesimo», in modo tale che «i contenuti religiosi vengono superati e conservati nel concetto della filosofia». Ciò avviene nella forma costituita dal- la «circolarità di un processo universale», quello dello Spirito. A questo esito fatalistico si oppongono quanti – da Feuerbach e Marx fino a Bloch – non intendono più semplicemente «sal- vare la religione nel puro pensiero, bensì vogliono realizzare i suoi contenuti profanizzati»32. Il percorso così brevemente 32 J. Habermas, Fede e sapere, in Id., Il futuro della natura umana, tr. it. di L. Ceppa, Einaudi, Torino 2002, p. 109.

stilizzato è definibile come un «processo giudiziario» proprio perché consente di evidenziare il potenziale emancipativo del- la modernità (cioè l’uso critico della ragione, che rappresenta un apporto positivo, almeno finché essa rimane consapevole dei suoi limiti) e, allo stesso tempo, i rischi di implosione del razionalismo moderno (che diventano evidenti quando vengo- no accollati sulle spalle della ragione «compiti insostenibili»33).

L’appropriazione critica di contenuti religiosi, sperimentata con successo da Kant in una parte della sua filosofia, diventa supplenza acritica e indebita quando la filosofia tende a cancel- lare la «linea di confine» tra ciò che della religione è possibile (e fecondo) tradurre nei termini della ragione filosofica e ciò che, invece, non lo è. Il tema del male e della redenzione da esso offre in tal caso un esempio di valore emblematico. Il progetto messianico che promette una salvezza inframondana totale ed esaustiva – cioè l’idea dell’eliminazione, con mezzi tutti umani, del male dal mondo – costituisce l’esito di un itinerario interno alla modernità nel corso del quale si può vedere quanto facile e allo stesso tempo terribile sia perdere di vista questa linea di confine, tutt’altro che pacifica e, anzi, «terreno minato»34.

Se si accetta la prospettiva entro la quale ho cercato sin qui di interpretarlo e situarlo, Voltaire si collocherebbe, quindi, non solo cronologicamente ma anche dal punto di vista teo- retico, al di qua delle insidie insite nella posizione kantiana, offrendoci l’esempio di un pensiero in grado di evitarle (na- turalmente se crediamo di poter condividere l’interpretazione, non certo poco problematica, che di Kant offre Habermas in Fede e sapere).

Malgrado ciò, ritengo che non sia possibile ignorare, nel pensiero di Voltaire sul male quale si viene profilando dopo la catastrofe di Lisbona, una vistosa ambivalenza.

33 Ibi, p. 110. 34 Ibidem.

Deve essere intanto fatto oggetto di riflessione critica pro- prio l’orientamento che si delinea, nel Poema, a favore dello scetticismo di Bayle e dell’avversione a ogni spirito di sistema sul problema del male. Infatti, la scelta scettica orienta verso il silenzio sulla secolare questione che riguarda il quid et unde malum. E il silenzio indica l’impossibilità di esplicitarla esau- stivamente attraverso il linguaggio e di tradurla entro i confini della semplice ragione. Ciò non significa per nulla indifferenza al cospetto dei diversi tentativi con i quali si è cercato, nella lunga e variegata storia del pensiero umano, di rispondervi. Quando Voltaire ricorda nel Poema questi tentativi e li sotto- pone, uno per uno, a critica, non intende certo negare la loro rilevanza; non snocciola un elenco asettico e privo di significa- to. Sa bene che vi è depositato lo sforzo plurisecolare di pensare il male, di misurarsi con esso, di non arrendersi alla sua mera e cruda datità. Voltaire eredita qui lo scetticismo nell’accezio- ne che ha assunto lungo la linea che collega Sesto Empirico e Montaigne35, per giungere a Bayle. In tale contesto il «sag-

gio» rappresenta la figura di colui che sa dell’impossibilità di pervenire alla verità, ma che non per questo pone fine alla sua ricerca, poiché è convinto che nel ricercare sta il senso della filosofia e anche della vita. Così come sta pure il vaccino contro il dogmatismo, cioè contro l’assolutizzazione di una posizione determinata. Scetticismo è, dunque, rigetto di ogni chiusura definitiva del cerchio, ma non certo, se si può dire così, cini- smo teoretico, ironia corrosiva contro ogni attribuzione di sen- so alla tensione verso la verità. È ben per questo che Voltaire afferma, da un lato, che il «principio segreto» del male «ci è sconosciuto»36, aggiungendo però poi, dall’altro lato, che noi

uomini, «atomi pensanti», «in seno all’infinito protendiamo il

35 Cfr. Löwith, Skepsi e fede, tr. it. in Storia e fede, Laterza, Roma-Bari 1985, pp. 5ss; Id., Sapere e fede, ibi, pp. 39ss.

nostro essere»37. Certo, non arriveremo mai a «poterci vede-

re» e «conoscere»38; ma ciò non sottrae niente allo sforzo sen-

za fine di misurarci con la nostra condizione. Che il problema del male non possa essere racchiuso ed esaurito in un sistema non esclude che sia privo di senso porcelo. Anzi, come già si è osservato, è esattamente questa capacità di farci questione a noi stessi che ci distingue dagli animali, come osserva Voltaire congedando quello che era diventato un leit-motiv libertino – cioè la (quasi) indistinzione tra uomo e di animale – mutuato in buona parte da Montaigne.

L’ambivalenza di cui si diceva sta, a mio parere, nel fatto che il procedere del pensiero voltairiano sul male, fino al pun- to per molti versi culminante costituito dal Candide, tende ad accentuare il polo negativo, se così lo si può definire, implicito fin dall’inizio in tale posizione. Questo polo negativo consiste – come i passi precedentemente riportati dagli scritti successi- vi al 1756 documentano – nella tentazione di arrestare la do- manda sul male, di arrendersi di fronte alla sua irrisolvibilità e, quindi, di finire per far cadere tutto l’accento su quella dimen- sione pragmatica (la lotta contro i mali dell’esistenza) che, così, viene isolata dallo sforzo di pensare il male e va ad occupare da sola tutto il campo. Non è questo, in ultima analisi, il senso più proprio del Candide?

Judith Shklar ha sostenuto che il dibattito sul terremoto di Lisbona segna una sorta di rottura epocale nella riflessione sul male, perché «è stata l’ultima volta che i piani di Dio sull’uomo sono stati oggetto di un dibattito pubblico generale», mentre la «protesta contro l’ingiustizia divina» sarebbe diventata, di lì a poco, a suo avviso, «intellettualmente irrilevante»39. Se è con-

37 Ibi, p. 8. 38 Ibi.

39 J. N. Shklar, I volti dell’ingiustizia. Iniquità o cattiva sorte?, tr. it. di R. Rini, Feltrinelli, Milano p. 65 (il passo è discusso anche da A. Tagliapie- tra nell’Introduzione a Voltaire, Rousseau, Kant. Sulla catastrofe…, cit., pp. XIXss).

divisibile quanto ho evidenziato in precedenza ricorrendo a Dostoevskij e Camus come esemplificazioni di una direzione di pensiero ben più generale, allora ne deriva che l’affermazio- ne della Shklar va giudicata quanto meno discutibile. Ma non sta solo qui il punto su cui vale la pena di soffermarsi. Il dato che mi sembra, invece, maggiormente degno di attenzione è che a diventare irrilevante, salvo alcune eccezioni, comincia a essere, con sempre maggiore frequenza, il confronto filosofico in quanto tale sulla questione del male. È stato come se la crisi della teodicea avesse avuto – diciamo pure, per accettare la pe- riodizzazione della Shklar, «dopo la catastrofe di Lisbona» – un singolare effetto di trascinamento, portando con sé in una zona umbratile ben più che l’interrogativo sulla giustizia di Dio. In- fatti, ciò che viene progressivamente dimenticato e/o sottaciuto è il quesito concernente la domanda sul quid et unde malum, in qualsiasi modo la si possa e la si voglia formulare. Certo, tale domanda non svanisce. Ma passa decisamente in secondo piano. E, anche là dove si continua a porla, affiora una singolare caratteristica: l’eclissi del suo carattere tragico, che aveva for- se avuto nel pensiero luterano e nella versione giansenista del cattolicesimo le sue espressioni culminanti. Ben poco tragica, infatti, è la riformulazione che Ernst Cassirer vede iniziare da Rousseau e che consiste nell’attribuzione del male alla «socie- tà» e non più all’«individuo»40. Costituisce, per Cassirer, il vero

e proprio (oltre che unico) grande mutamento che subisce nel pensiero occidentale la posizione sul dilemma del male. Una volta che lo si pensi originato dalla divisione del lavoro e dalla proprietà privata (secondo il ben noto schema interpretativo che L’ideologia tedesca mutua dal Discorso sull’origine e i fonda- menti della disuguaglianza tra gli uomini), il male diviene mera contingenza storico-sociale e, quindi, in ragione appunto di

40 Ho cercato di vagliare criticamente questa attribuzione a Rousseau in L’enigma del male. Un’interpretazione di Rousseau, Studium, Roma 1996 (ed. rivista e ampliata, La politica e il male. Saggio su Rousseau, ibi, 2012).

tale contingenza, la sua eliminazione si presta a essere pensata e programmata da parte dell’uomo con le sue sole forze. Com’è stato creato dall’uomo nella storia, così il male può esserne, dal suo artefice, tolto, previa l’appropriata conoscenza delle sue cause. Il messianismo secolarizzato di Marx costituisce la con- figurazione forse più calzante di tale linea di pensiero.

Peraltro, l’elisione del carattere tragico del male non sta solo nel ridurlo speculativamente a epifenomeno di relazioni sociali distorte, ma nell’identificarlo in toto con l’ingiustizia sociale. La componente scandalosa del male, in ogni sua possibile ma- nifestazione (per es., la morte e la sofferenza degli innocenti), scompare. E in tal modo avviene la cancellazione di uno dei ca- pitoli cruciali della filosofia e della teologia così come si erano caratterizzate dall’inizio del pensiero occidentale. L’orrore di Voltaire di fronte al tremendum del terremoto del 1755 perde lo sfondo che lo rendeva comprensibile e che lo giustificava, essendo ogni espressione del male ormai riportata – parten- do da Morelly per arrivare a Marx – alla sua caratteristica di fenomeno storico e, in quanto tale, delebile. Non è esagerato dire che la filosofia della storia moderna, innanzitutto nella sua versione storico-materialistica, può essere letta come un ten- tativo di anestetizzare il carattere irriducibile del male, la sua componente di mistero, il suo tremendum41.

41 «I ladri spariranno, con lo sparire della proprietà privata, e ognuno potrà, con un onesto lavoro, appagare, come tutti gli altri, facilmente e co- modamente i propri bisogni». Non ci saranno più «disoccupati e vagabon- di», prodotto di una società che riposa sulla proprietà privata. «Omicidi perché se ne dovrebbero commettere? Nessuno può arricchire a spese di un altro, e l’omicidio per odio o vendetta dipende sempre più o meno diretta- mente dalle presenti condizioni sociali»(A. Bebel, La donna nel passato, nel

presente e nell’avvenire [1879], tr. it. di V. Olivieri, Savelli, Roma 19732, rist. anast. della tr. it. del 1892, p. 390). Il marxismo prolunga e sistematizza, ca- landola nella storia, una via in parte già tracciata in alcune versioni dell’uto- pia illuminista: «L’uomo è accidentalmente o condizionatamente malvagio. Tolte, pertanto, la condizione e le cause della malvagità, che per la maggior parte non dipendono da lui, egli non potrà essere perverso, né desiderare

Marx non fa che riprendere, in questo, una delle direttrici fondamentali della filosofia hegeliana, contro la quale, proprio riguardo al tema del male, rimangono un riferimento quanto mai rilevante le pagine di Jacob Burckhardt, nonché la lettura che ne offre Karl Löwith42.

Vorrei far notare – anche per rendere meglio conto di quan- to appena evidenziato – come sia possibile segnalare, partendo da alcuni autori salienti in parte già qui richiamati ed esami- nati, un singolare parallelismo tra la trattazione del problema religioso e quella del problema del male. Di fronte all’uno e all’altro, il modo e l’orizzonte di comprensione cambiano ra- dicalmente rispetto alle epoche precedenti. Non ci si interroga più, infatti, sul significato intrinseco del divino e/o del male. Si opera, invece, un aggiramento di tale significato e si porta in primo piano la considerazione della genealogia, delle con- seguenze, delle ricadute, a livello individuale e collettivo, di entrambe queste realtà. Come la religione viene ormai còlta e

o continuare ad esserlo» (Morelly, Codice della natura, tr. it. di E. Piscitelli, Torino 1975, p. 119).

42 Cfr. K. Löwith, Jacob Burchkardt. L’uomo nel mezzo della storia, tr. it. di L. Bazzicalupo, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 90-120. Per Löwith, la presenza e lo scandalo del male fanno parte ineliminabile dell’enigmati- cità dell’esistenza, mentre nella filosofia hegeliana vengono esorcizzati at- traverso il ricorso alla categorie di necessità e accidentalità, perfettamente idonee – nota Löwith riprendendo una lettera di Burckhardt a Brenner del marzo 1856 – a far «scomparire il ‘bene’ e ‘male’ – quotidiano ottimo pane di casa» (ibi, p. 77). Se queste due categorie di bene e male non vengono concettualmente dissolte, allora la vicenda storica si delinea come una co- stante e intrascendibile tensione tra «agire» e «patire», di cui non si dà mai, entro la storia, conciliazione definitiva. Qui risiede, nota Löwith, il cuore del «malismo» di Burkhardt, che si distingue dalla semplicistica dicotomia tra «pessimismo» e «ottimismo» in quanto consiste nel cercare di «vedere le cose umane così come sono, e non – semplicemente capovolgendo l’ottimi- smo – nel farle peggiori di quello che sono». In tale prospettiva Burckhardt condivide con Overbeck la non ammissibilità dell’opposizione ottimismo- pessimismo: «si potrebbe, è vero, ‘tenere distinti’ i due tipi di considerazio- ne, ma, ‘a rischio della vita’, mai ‘separarli’» (ibi, p. 145).

analizzata quasi soltanto nei suoi effetti storico-sociali (si pensi alla linea che unisce Machiavelli e Marx, pur nella diversità e, anzi, nell’opposizione a proposito del giudizio che di tali effetti viene dato43), così accade per il problema del male. Non la sua

radice (e il mistero che sembra avvolgerla) è più oggetto d’in- terrogazione, ma la sua scaturigine storico-empirica e i suoi esiti concretamente visibili. La fenomenologia del male prende il posto di ogni riflessione religiosa e/o metafisica e, allo stesso tempo, appiattisce la profondità del male. Diventa dominante l’approccio che potremmo definire sociologistico44 al posto di

quello teologico e filosofico. La definizione ricoeuriana di pen- siero del sospetto si applica perfettamente a tale atteggiamento teorico: risalire alle spalle di un fenomeno portandone in luce la sua genesi storica (Marx, Nietzsche) e/o psicologica (Freud) equivale a gettare su di esso una luce che, come quella di una torcia entro una caverna buia, rischiara, smascherandole e ri- muovendole, le incrostazioni mitiche che l’ignoranza e l’inge- nuità (o anche la scaltrezza di chi ne trae vantaggio) avevano depositato. Attraverso tale equivalenza tra religione, metafisica e mito il pensiero si autocensura quanto alle sue possibilità di essere più che critica dell’esistente storico e si rifiuta di oltre- passare la superficie dei fatti indagati.

Ma solo questi brevi cenni sono qui possibili e bisogna tor- nare più direttamente a Voltaire.

Nel Candide – romanzo filosofico quanto mai rilevante, pur nella sua stringatezza, per intercettare alcuni tratti del proces- so di pensiero appena indicato – svanisce la tensione tragica ancora presente nel poema sul terremoto di Lisbona. Si scinde

43 Nell’autore dei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio la religione è l’ordinamento cruciale per garantire unità civile e bontà dei cittadini. Nella ricostruzione materialistica della storia serve invece da strumento surretti- zio di legittimazione ideologica del dominio di classe.

44 Per un’accezione non generica del concetto di «sociologismo» si veda A. Del Noce, Il problema dell’ateismo, Il Mulino, Bologna 1964, pp. XLIV- XLVIII.

il nesso tra l’interrogazione filosofica sul male e l’impegno nel mondo per estirpare o limitare i mali contro i quali è possibile intervenire. Solo a questo livello l’accento ironico verso quan- ti s’interrogano ancora sulle questioni ultime viene in primo piano e assume la figura grottesca di Pangloss, che non è sol- tanto la pantomima dell’ottimista metafisico, ma dell’uomo che perde tempo, e fa perdere tempo agli altri, ponendo di- lemmi inutili. La scepsi abbassa il suo baricentro e, mostrando il suo lato nichilistico, passa da interrogazione inesausta sulla verità a indifferenza verso di essa nel senso tipico del pirro- nismo, sia che si tratti di verità scientifica o morale. L’azione umana nel mondo diventa così – una volta separata dal lavorìo del pensiero – un attivismo sganciato da ogni riferimento in grado di orientarla. È ciò che – come ho cercato di mostrare nei capitoli precedenti – riescono a evitare Montaigne e Pascal, rimanendo, pur in equilibrio precario, estranei, positivamente estranei, a tale logica. Il significato filosofico della loro politi- ca raisonnable come alternativa al prometeismo razionalistico di Hobbes e al potenziale nichilismo della scepsi in versione neo-pirroniana è, nella sostanza, qui. E andrebbe approfondito più di quanto mi sia possibile fare in questa sede (nella quale, peraltro, mancano altri essenziali autori, tra i quali mi limito a menzionare Charron e La Mothe le Vayer).

Comunque sia: se la stilizzazione che ho proposto del per- corso compiuto da Voltaire è accettabile, allora è chiaro che vi possiamo vedere, anticipata, la forma mentis che sempre più, nel lungo tragitto che porta dal secolo dei lumi a oggi, ha ca- ratterizzato sia alcuni filoni egemoni della filosofia occidentale, sia il senso comune. E ciò con un singolare e curioso parados- so: man mano che le forme del male andavano radicalizzando- si, il pensiero filosofico si ritraeva, salvo poche eccezioni, dal misurarsi con esse. Fino ad autorizzare, quasi in chiusura del secolo XX e dopo l’esperienza dei totalitarismi, le dolenti paro- le di Luigi Pareyson:

«Mi ha sempre stupito il fatto che nell’immediato dopoguerra abbiano avuto grande diffusione filosofie esclusivamente dedite a problemi tecnici di estrema astrattezza e sottigliezza, mentre l’uma nità stava appena uscendo dall’abisso del male e del dolore in cui era precipitata. Com’è possibile, mi chiedevo, che