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Riflessioni sulla violenza tra esperienza e memoria

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URN:NBN:NL:UI:10-1-115744 - Publisher: Igitur publishing

Content is licensed under a Creative Commons Attribution 3.0 License Anno 28, 2013 / Fascicolo 2 - Website: www.rivista-incontri.nl

Riflessioni sulla violenza tra esperienza e memoria

Recensione di: Federica Colleoni & Francesca Parmiggiani (a cura di),

Forme, volti e linguaggi della violenza nella cultura italiana, Lonato

del Garda (Brescia), Edibom edizioni letterarie, 2012, 259 p., ISBN:

9788864720180, € 20,00.

Inge Lanslots

Nato in nucleo nell’ambito del convegno AAIS del 2010 e ampliato in seguito, il volume a cura di Federica Colleoni e Francesca Parmiggiani raccoglie sedici saggi che analizzano le forme e i volti della violenza dei linguaggi cinematografico, musicale e letterario della cultura italiana del vent(un)esimo secolo, saggi che sono strutturati in base a criteri tematico-cronologici o storiografici. I primi saggi sono dedicati al cinema contemporaneo, gli ultimi si concentrano sulla letteratura, tutti di stampo tematico o storiografico. Nella parte centrale si inserisce poi un contributo su altre forme di espressione artistica. Con la raccolta si presenta non solo una panoramica, che va dal cinema contemporaneo alla letteratura cavalleresca e quella più recente, ma anche un approfondimento di tale presenza nella cultura italiana. Si offrono analisi e approcci nuovi e sorprendenti in base a opere molto illustrative.

Una delle novità più notevoli del volume è l’inclusione dello studio del linguaggio musicale, finora trascurato nel dibattito sulla violenza. Così, nel saggio di Sebastiano Ferrari, che si situa proprio nella parte centrale del volume, viene evidenziato in quale misura la canzone degli anni Settanta abbia potuto esprimere ‘il clima di violenza e di tensione di quegli anni’ (p. 111). Illustrando la sua ipotesi con canzoni di Roversi-Dalla, di Gaber-Luporini, di De André-Bentivoglio e di Lolli, Ferrari dimostra che la canzone dell’epoca non ha più questa prima funzione di intrattenimento ma che essa diventa un luogo di riflessione sul potere: si denunciano l’abilità del sistema, che porta alla disaffezione dalla politica, e la tragicità di sollevazioni e di atti criminosi.

Quegli anni di contestazione costituiscono il contesto dei film studiati da Federica Colleoni, una delle curatrici del volume, cioè Pasolini. Un delitto italiano di Marco Tullio Giordana e Romanzo criminale di Michele Placido. Mentre il primo film si caratterizza per l’uso di materiale extracinematografico complicando ‘la distinzione tra materiale reale e fittizio agli occhi dello spettatore’ (p. 99), il secondo focalizza sull’approccio dietrologico alla violenza politica di destra e di sinistra di quegli anni in un’ulteriore finzionalizzazione della storia già iniziata nel romanzo noir omonimo di De Cataldo, da cui è stato tratto il film. Tornando ai film girati negli anni Settanta Chiara Borroni prende in esame i film di Bellocchio e di Samperi che dimostrano quanto sia grande la

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schiavitù degli italiani nei confronti dell’oggetto moderno. Si insiste sul ruolo del setting, e in particolare su quello delle case dei protagonisti, l’una ipertrofica, l’altra semivuota ed essenziale, ma ambedue spazi esistenziali violati nella loro assenza ontologica. Nei film horror-gotico degli stessi anni l’uso della violenza si dà quasi per scontata, ma, come illustra Fabio Benincasa, all’interno del cinema di genere Lucio Fulci e Dario Argento sfruttano la sospensione del tempo e l’erotismo per l’impatto scandaloso o meno sul pubblico. Il contributo di Stefano Ciammaroni, invece, sottolinea che nel cinema del neorealismo la rappresentazione della violenza popolare deve rendere l’idea di una progressione storica mentre viene paradossalmente accentuata l’italianità delle vittime di violenza. I registi dell’epoca presentano al pubblico ‘comunità sociali non ancora [pienamente] sviluppate’ (p. 26) che non sanno come rapportarsi ai ‘centri urbani in forte espansione economica’ (p. 26).

Oltre ai saggi dall’approccio prettamente storiografico, gli altri saggi della prima parte hanno un’impostazione più tematica. I saggi di Francesco Rosetti e Francesca Parmiggiani, per esempio, si concentrano sul rapporto molto stretto tra la rappresentazione della violenza e il potere del visivo. Il primo tratta il cinema degli anni Venti di Marco Ferreri in cui la violenza diventa addirittura la base, il fondamento della rappresentazione mentre è sempre legata all’ossessione e alla compulsione. Ripercorrendo l’evoluzione del regista milanese Rosetti afferma: ‘La mutilazione e la morte dei personaggi sono sempre dei tentativi di vivere le pienezza dell’esistenza, che si ribalta comunque nello sconsolato fallimento della morte’ (p. 68). Nell’altro saggio Parmeggiani illustra che nei film di Garrone la macchina da presa studia lo sguardo che tesse i rapporti tra i protagonisti, sguardo che comporta una tensione tra fuga e dipendenza. La macchina da presa non coincide quindi con il punto di vista dei protagonisti, ma coglie lo sguardo di chi osserva e di chi è osservato. Così, la protagonista è ben consapevole che il suo corpo viene modellato a seconda dei desideri dell’amante a cui piace osservarla a distanza. La violenza nel cinema, però, può anche essere letta in chiave lacaniana nel senso che la violenza può essere vista come soggettivo o oggettiva: mentre quest’ultima indica quella inerente allo stato normale di cose, quella soggettiva sta per l’elemento perturbante del normale o pacifico stato di cose. Nell’analisi di Luana Ciavola diventa chiaro che i film di Giuseppe Tornatore e di Claudio Noce si prestano molto ad una lettura simile, ma si scopre anche che per le vittime la violenza, spesso invisibile, è una ‘espressione o affermazione di vita’ (p. 97).

Nella parte dedicata alla letteratura Christopher Nixon si china sull’immagine della foresta nella Gerusalemme liberata: la foresta, e in particolare la selva di Saron, da scenario-sfondo della violenza cavalleresca si trasforma in una risorsa di violenza tecnologica. A questa luce l’opera di Tasso contiene molti elementi della modernità poetica introducendo un pathos e una densità semantica sorprendente. Gabriele Vitello sposta l’attenzione verso gli anni di piombo mettendo il dito sul fatto che certi testi contemporanei di Rocco Carbone e di Walter Veltroni tendono a reinpretare la violenza di quegli anni in chiave a- o post-ideologica. Nei testi prevale uno sguardo nostalgico e si aspira a un solidarismo genericamente morale. Secondo Roberto Risso i motori della violenza sono la furia e l’odio, almeno nei gialli di Scerbanenco, basati sulla cronaca nera e rosa, che, con una forte intensità, narrano storie che hanno come argomento centrale la violenza in ogni suo aspetto e la consecutiva ingiustizia a cui il medico Duca Lamberti, protagonista di molte storie, cerca di rimediare.

Seguono poi altri saggi che hanno un filo piuttosto storiografico. Loredana Di Martino chiarisce come il genere del giallo si presta molto alla riflessione sulle ansie

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culturali provocate dalle recenti ondate di immigrazione. Sia Giancarlo De Cataldo che Massimo Mongai e Gianrico Carofiglio si indegnano dell’intolleranza, ma allo stesso tempo i tre autori esprimono il loro ottimismo che la società italiana possa cambiare per il meglio. Dal crime novel si passa ai testi di Dacia Maraini la cui analisi porta alla luce sia la complessità dei rapporti caratterizzati dall’abuso di e dalla violenza nei confronti delle donne sia la performatività complessa delle donne, il che, come sottolinea Alex Standen, fa capire che ogni domanda in proposito esige una risposta sfumata. La violenza subita dalle donne viene anche studiata da Marie Orton, ma nelle opere di tre scrittrici ebree sopravissute ad Auschwitz: Liliana Millu, Giuliana Tedeschi e Settimia Spizzichino. Il lager, come descritto nelle testimonianze, è uno spazio disumanizzante e violento dove il corpo della donna tende a scomparire . All’interno del lager si creano comunità che però non riescono a fermare il processo di straniamento e di confinamento.

Il romanzo Pozzoromolo di Luigi Romolo Carrino sposta l’attenzione sugli effetti di violenza che subisce l’individuo in modo passivo, effetti che poi sembrano colpire gli altri e la collettività in generale. Christian G. Moretti osserva però che si riscontra anche la volontà di liberarsi dal male e che il lettore viene costretta ad assistere alla formazione del soggetto-vittima. Il saggio conclusivo del volume parla del genocidio armeno come narrato da Antonia Arslan in La masseria delle allodole: Andrea Gallo, che dialoga con la scrittrice, sintetizza la finzionalizzazione dell’esperienza della famiglia di Arslan, narrazione che combina scrittura, storia e memoria.

Tutti i saggi del volume evidianzo quanto ‘[l]a violenza, rappresentata, segna di sé la riflessione critica sul complesso rapporto tra esperienza e memoria e sulla prassi della sua stessa rappresentazione’ (p. 5) producendo effetti estetico-etici e appellando al pubblico e agli studiosi della cultura italiana.

Inge Lanslots

KU Leuven

Subfaculteit Taal & Communicatie

Sint-Andriesstraat 2, 2000 Antwerpen (Belgio) Inge.Lanslots@arts.kuleuven.be

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