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La profilassi della trasmissione verticale dell'infezione da HIV: studio sulla sorveglianza della neurotossicità indotta dalla terapia antiretrovirale.

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INTRODUZIONE

Nella presente tesi si analizza la prevenzione della trasmissione madre-figlio dell’HIV, discutendone l’importanza a livello internazionale, i meccanismi con i quali avviene, e la profilassi più idonea da attuare nei riguardi di madre e neonato secondo le più recenti linee guida internazionali. Sono analizzati i fattori di rischio materni e neonatali relativi alla trasmissione madre-figlio di una coorte di 73 pazienti afferenti alla Clinica Pediatrica di Pisa; in particolare, l’attenzione è riservata al trattamento con antiretrovirali a cui al giorno d’oggi vengono sottoposte la quasi totalità delle madri e i rispettivi figli, valutandone il profilo di sicurezza neonatale. Viene descritto il protocollo europeo del “Collaborative

Committee for Mitochondrial Toxicity in Children” (MITOC), che si propone di

valutare le ripercussione sullo sviluppo neurologico dell’esposizione del feto e del neonato ad farmaci antiretrovirali. La Clinica Pediatrica di Pisa ha partecipato attivamente, inviando dati riguardanti 20 pazienti idonei allo studio. Vengono analizzati i dati raccolti nel corso dello studio di tali pazienti, che si è composto di una valutazione clinica, volta alla ricerca di eventuali inesplicabili sintomi neurologici di ritardo cognitivo o motorio, da ricondurre ad un danno mitocondriale. Nell’ambito di questa valutazione è stato compilato, per ogni bambino, un questionario di screening. Successivamente è stato effettuato un follow-up dopo 24 mesi. Tutti bambini sono risultati normali alla valutazione clinica, e nessuno ha richiesto una valutazione aggiuntiva di tipo neurologico e/o mitocondriale. L’analisi dei risultati ha portato alla conclusione che, seppur nell’esclusivo ambito della Clinica Pediatrica di Pisa, l’esposizione a farmaci antiretrovirali non espone il nascituro a ritardi cognitivi né motori. Sono stati inquadrati i dati raccolti nel panorama pisano ed internazionale, valutando le possibili prospettive future.

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2 Desidero ringraziare la Prof.ssa Rita Consolini per avermi seguita e consigliata con costanza, accuratezza e gentilezza durante questi mesi di lavoro e per i valorosi insegnamenti non solo scolastici, ma anche umani. Vorrei inoltre ringraziare il Sig. Francesco Varricchio per il suo indispensabile supporto tecnico.

Un ringraziamento speciale va alla mia famiglia tutta, in particolare a Bibì punto di riferimento nella mia formazione.

A Linda e a Paola per il tifo di sempre.

A Francesca ed Ilaria per il sostegno di vere sorelle.

Al mio fidanzato Andrea, per avermi sempre fatto tornare il sorriso. A Francesco, perché non c’è fratello migliore.

E poi papà, mio modello di medico, e mamma, senza la quale non sarei arrivata dove sono adesso.

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3

SOMMARIO

Introduzione ... 1

1. La Sindrome da immunodeficienza umana e il virus HIV ... 6

1.1 Storia ... 6 1.1.1 AIDS pediatrico ... 6 1.2 Definizione ... 6 1.3 Epidemiologia ... 7 1.4 Il virus HIV ... 7 1.4.1 Morfologia ... 8 1.4.2 Ciclo vitale ... 8 1.5 Trasmissione di HIV ... 8 1.6 Fisiopatologia e patogenesi ... 9

1.6.1 Sviluppo dell’infezione cronica e persistente ... 9

1.6.2 Anomalie numeriche e funzionali dei linfociti T CD4+ ... 10

1.6.3 Ruolo della genetica ... 10

1.7 Clinica nell’età pediatrica ... 11

1.7.1 Decorso ... 13

1.8 Diagnosi di laboratorio e monitoraggio di infezione da HIV ... 13

1.8.1 Diagnosi di laboratorio di HIV ... 13

1.8.2 Monitoraggio di laboratorio di pazienti con infezione da HIV ... 15

1.8.3 Diagnosi e monitoraggio delle donne in stato di gravidanza ... 16

1.8.4 Diagnosi e monitoraggio in età pediatrica ... 17

1.9 Trattamento dell’infezione da HIV in età pediatrica ... 18

2. Prevenzione della trasmissione madre-figlio ... 19

2.1 Trasmissione madre-figlio. ... 19

2.1.1 Meccanismi della trasmissione ... 21

2.2 Il protocollo 076 ... 34

2.2.1 Metodo dello studio ... 34

2.2.2 Discussioni ... 35

2.3 Rivisitazione del Protocollo 076: la profilassi della MTCT oggi. ... 36

2.3.1 Le linee guida internazionali a confronto ... 37 2.3.2 Consensus del Registro Italiano per l’infezione da HIV in Pediatria 28 Maggio 2011: quale profilassi anti-retrovirale deve essere impiegata in bambini nati da donne HIV-1 positive in base al rischio di trasmissione perinatale dell’infezione?1343

(4)

4 2.4 Ruolo di virus ZDV-resistenti e multi-resistenti nella trasmissione perinatale

dell’infezione da HIV-1 ... 49

2.5 Sintesi delle evidenze sugli effetti dell’esposizione ARV sull’outcome neonatale 50 2.5.1 Fattori di rischio della trasmissione verticale di HIV e l’influenza della terapia antiretrovirale sull’esito della gravidanza95 . ... 50

2.5.2 Sviluppo neurocognitivo ed esposizione ad ARV in utero in bambini HIV esposti non infetti100. ... 51

2.6 L’attività della Clinica Pediatrica di Pisa nella gestione delle coppie madre HIV-positiva-figlio. ... 53

3. Materiali e metodi ... 61

3.1 Il protocollo MITOC125 ... 61

3.1.1 Breve storia della nascita del protocollo MITOC ... 61

3.1.2 Gli obiettivi del protocollo MITOC ... 63

3.1.3 Disegno dello studio... 63

3.1.4 Coorti e registri partecipanti. ... 63

3.1.5 Popolazioni da studiare. ... 63

3.1.6 Procedura dello studio. ... 64

3.1.7 Segnalazione dei dati alle autorità competenti ... 70

3.1.8 Analisi dei dati e considerazioni statistiche ... 70

3.1.9 Responsabilità ... 72

3.2 Partecipazione della Clinica Pediatrica di Pisa al Protocollo del “Collaborative Committee for Mitochondrial Toxicity in Children” (MITOC) ... 75

3.2.1 Popolazione studiata ... 75

3.2.2 Procedura dello studio ... 75

4. Risultati ... 80

4.1 Descrizione della popolazione dello studio... 80

4.1.1 Caratteristiche demografiche e di base dei bambini... 80

4.1.2 Storia materna ... 82

4.1.3 Esposizione ad ARV ... 83

4.2 Prevalenza di segni/sintomi clinici neurologici di ritardo cognitivo e motorio ad eziologia nota o inesplicabile e disordini mitocondriali accertati. ... 85

4.3 Esposizione ad antiretrovirali (ARV) ... 86

4. Eterogeneità ... 86

4.5 Bambini persi al follow-up e deceduti. ... 86

4.6 Analisi aggiuntive ... 86

4.6.1 Pregressi disordini di tipo non neurologico ... 86

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5

5. Discussione ... 89

5.1 Il protocollo MITOC ... 89

5.1.1 caratteristiche demografiche e di base dei bambini ... 89

5.1.2 Storia materna ... 89

5.1.3 Esposizione ad ARV ... 90

5.1.2 Prematurità ed accrescimento staturo-ponderale ... 92

5.1.3 Prevalenza di segni/sintomi clinici neurologici di ritardo cognitivo e motorio ad eziologia nota o inesplicabile e disordini mitocondriali accertati. ... 92

5.1.4 Valutazioni aggiuntive ... 93

5.2 Inquadramento della popolazione partecipante allo studio nella coorte pisana delle pazienti HIV-infette. ... 94

6.Conclusioni ... 97

Bibliografia ... 99

(6)

6

1. LA SINDROME DA IMMUNODEFICIENZA UMANA

E IL VIRUS HIV

1.1 STORIA

Il Virus dell’Immunodeficienza Umana (Human Immunodeficiency Virus HIV) fu isolato nel 1983 da L. Montagnier in Francia e da R. Gallo in USA: nel 1984 venne indicato responsabile della Sindrome da Immunodeficienza Umana (AIDS). Nel 1985 fu messo a punto un test enzimatico su plasma (enzyme-linked

immunosorbent assay, ELISA) che permise di valutare l’effettiva estensione e

portata dell’epidemia, non solo negli Stati Uniti, ma anche nel resto del mondo. Alla progressiva diffusione dell’infezione da HIV si sono parallelamente sviluppate un’infinità di informazioni sulla virologia, la patogenesi, la clinica, il trattamento e la prevenzione della stessa1.

1.1.1 AIDS PEDIATRIC O

Le prime osservazioni di AIDS pediatrico risalgono al 1983, quando James Oleske et al. et Arye Rubistein et al. pubblicarono due articoli sul Journal of

American Medical Association. Nello stesso periodo, casi simili furono

identificati in Europa. L’ipotesi retrovirale della malattia era allora in corso di dimostrazione e le modalità di infezione di questi bambini erano ancora dibattute. Quando, dal 1984, furono messi a punto i primi test sierologici per l’identificazione del virus, cominciarono ad essere istituite coorti per l’osservazione delle donne incinte sieropositive e dei relativi neonati2

.

1.2 DEFINIZIONE

Secondo il Centers for Disease Control and Prevention (CDC), adulti e adolescenti vengono suddivisi in categorie sulla base delle condizioni cliniche associate alla infezione da HIV ed ai livelli ematici di linfociti T CD4+. È definito affetto da AIDS ogni individuo con infezione da HIV e un livello di cellule T CD4+ inferiore a 200/mmc, indipendentemente o meno dalla presenza di sintomi o malattie opportunistiche. Nella pratica clinica ciò risulta molto più complesso,

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7 variando la malattia da HIV da un quadro di infezione acuta, ad uno stadio asintomatico, a stadi avanzati con malattie opportunistiche1.

1.3 EPIDEMIOLOGIA

L’infezione da HIV è una pandemia. Il programma delle Nazioni Unite HIV/AIDS UNAIDS (Joint United Nations Programme on HIV/AIDS) ha stimato che nel 2009 circa 33,3 milioni di individui erano infetti da HIV e, di questi, 1,8 milioni sono morti per cause AIDS-correlate. Più del 95% degli infetti risiede in paesi a basso-medio reddito, soprattutto nell’Africa meridionale; il 50% sono donne e 2,5 milioni sono bambini al di sotto dei 15 anni3.

Più di 7,000 persone si infettano con HIV ogni giorno.

L’apice della pandemia è stata raggiunta nel 1997 e da allora si è assistito ad una progressiva diminuzione delle infezioni, complici: la riduzione dei comportamenti a rischio, gli screening sui donatori di sangue e sulle donne gravide, la prevenzione della trasmissione sessuale e madre-figlio, l’utilizzo di farmaci antiretrovirali (ARV) per l’abbattimento della carica virale1.

Complessivamente, dal 1981 ad oggi, i morti da AIDS ammontano a 25 milioni.

1.4 IL VIRUS HIV

HIV è l’agente eziologico dell’AIDS, appartenente alla famiglia dei retrovirus umani (Retroviridae) ed alla sottofamiglia dei Lentivirus, virus patogeni in molte specie animali e non oncogeni. Oltre ad HIV, sono quattro i retrovirus capaci di causare malattie nell’uomo: i virus HTLV I e II (Human T Lynphotropic Viruses) ed i virus dell’immunodeficenza umana: HIV-1 ed HIV-2. HIV-1 comprende a sua volta diversi sottotipi distribuiti in varie aree geografiche. Per la precisione, il virus responsabile dell’epidemia mondiale di AIDS appartiene al gruppo M di HIV-1. HIV-2 , per contro, è endemico esclusivamente nell’Africa Occidentale.

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8 1.4.1 MORFOLOGIA

Il virione HIV-1 ha una struttura icosaedrica con numerose proiezioni esterne formate dalle due principali proteine di membrana virali: la gp120 (esterna) e la gp41 (trans membrana). Esso ha la capacità di inglobare nel contesto della sua membrana numerose proteine della cellula ospite, tra cui gli antigeni del complesso maggiore di istocompatibilità.

1.4.2 CICLO VITALE

HIV è un virus ad RNA, che grazie all’attività dell’enzima trascrittasi inversa, è capace di convertire l’RNA virale in DNA, di modo che questo venga integrato nella cellula ospite. Molecola essenziale nel ciclo replicativo di HIV è la CD4, che si ritrova proprio sui linfociti T CD4+, le prime cellule ad essere infettate dal virus a causa del legame tra la proteina gp120 virionica e la molecola CD4. Grazie alla proteina gp41, invece, avviene la fusione delle due membrane plasmatiche. Nel citoplasma della cellula bersaglio avviene la retrotrascrizione dell’RNA virale in DNA, che viene quindi trasportato nel nucleo attraverso i pori della membrana nucleare. Nel nucleo il DNA virale è integrato ai cromosomi della cellula ospite dall’enzima integrasi, dando luogo ad un pro virus di HIV che può restare inattivo o manifestare vari livelli di espressione genica.

È proprio l’attivazione del provirus, e la sua consequenziale replicazione, responsabile della patogenesi della malattia da HIV.

1.5 TRASMISSIONE DI HIV

La trasmissione del virus HIV avviene attraverso il rapporto sessuale (sia eterosessuale che omosessuale), attraverso il sangue e gli emoderivati, dalle madri infette ai propri bambini al momento del parto, nel periodo perinatale o con l’allattamento. Esiste, infine, un minimo rischio di rischio di contagio occupazionale. Saliva, sudore ed urine non sono da considerare infetti, a meno che questi non siano francamente sanguinolenti1.

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9 1.6 FISIOPATOLOGIA E PATOGENESI

Elemento distintivo della malattia da HIV è la compromissione dello stato di immunità, dovuto alla deplezione, in particolar modo, dei linfociti T CD4+: questo porta ad una grave immunodeficienza che espone il soggetto ad infezioni, anche di tipo opportunistico, ed a neoplasie. Infezioni ricorrenti e severe, oltre che lo sviluppo di eventuali neoplasie, sono le condizioni AIDS-correlate che conducono il soggetto all’exitus.

La deplezione e/o disfunzione immunitaria delle cellule T CD4+ è dovuta a: infezione diretta e distruzione da parte di HIV, eliminazione immunomediata delle cellule infette, esaurimento immunitario dovuto all’attivazione cellulare aberrante e morte cellulare indotta dall’attivazione.

Il livello di linfociti T CD4+ nel sangue si correla direttamente con il rischio di sviluppare malattie opportunistiche.

Il primitivo contatto con il virus (attraverso le mucose per trasmissione sessuale o attraverso il sangue se trasmesso da madre a figlio o con sangue ed emoderivati) porta ad un aumento rapido e sostenuto della viremia, che persiste per molte settimane, e che può configurare una sindrome acuta da HIV, con sintomatologia simil-mononucleosica. La stabilizzazione della viremia si realizza entro un anno (set point virale), ed i livelli sui quali si attesta sono indicativi di quanto rapida sarà la progressione della malattia.

1.6.1 SVILUPPO DELL’INFEZIONE CRONICA E PERSISTENTE L’ingresso di HIV nell’organismo causa una intensa reazione da parte del sistema immunitario, ma questa non è sufficiente per combattere l’infezione ed eradicare il virus.

A seguito dello stabilirsi di una replicazione persistente di virioni, con pattern genetico diversificato per l’alta capacità mutagena del virus, questo riesce ad eludere i meccanismi difensivi del sistema immunitario. La replicazione avviene nell’ambito delle cellule immunocompetenti circolanti, soprattutto T CD4+

e macrofagi, e nei tessuti linfatici dove il virus si diffonde una volta entrato

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10 nell’organismo. Anche nei pazienti con viremia plasmatica soppressa (<50 copie HIV-RNA/mL), residua comunque un certo grado di replicazione virale.

Le cellule immunocompetenti ed i tessuti linfatici rappresentano inoltre una riserva cronica di virioni: il DNA virale è integrato nel genoma di queste cellule infette ma non è attivato, fin quando non arrivi un segnale di attivazione e replicazione. Un’altra sede di reservoir virale è il SNC.

La riserva persistente di cellule infette con virus in fase di latenza e/o i bassi livelli di replicazione virale continua rappresentano i principali ostacoli per l’eradicazione del virus negli individui infetti.

1.6.2 ANOMALIE NUMERICHE E FUNZIONALI DEI LINFOCITI T CD4+ La deplezione e la progressiva distruzione dei linfociti T CD4+ è la causa di tutti i difetti immunitari.

Le lesioni che interessano tali linfociti sono sia di tipo quantitativo che qualitativo.

Dall’instaurazione dell’infezione primaria, il numero di linfociti T CD4+ circolante decresce progressivamente a causa dell’incapacità del sistema immunitario di rigenerare il pool di linfociti distrutti dal virus. Alla base vi è la distruzione, non solo delle cellule progenitrici (incluse quelle timiche e midollari), ma anche del microambiente del tessuto linfoide, necessario per la rigenerazione delle cellule immunocompetenti.

La possibilità di ricostituzione di queste cellule è da riferire al grado ed alla durata della loro diminuzione all’inizio della terapia.

1.6.3 RUOLO DELLA GENETICA

Sono stati identificati diversi polimorfismi genici che influenzano caratteristiche fenotipiche: il rischio di acquisire l’infezione, la velocità di progressione della malattia a lungo termine, il controllo virologico spontaneo e la risposta immunologica dopo terapia antiretrovirale (ART). Questi polimorfismi sono localizzati nei geni dei loci MHC, delle chemochine, dei recettori per le

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11 chemochine, delle citochine e di altri fattori dell’ospite. Probabilmente sono coinvolti centinaia di altri fattori dell’ospite, e diversi studi si orientano in questa direzione.

Di particolare interesse è la scoperta del difetto omozigote nel gene che codifica per CCR5 (cofattore importante nella adesione del virus al linfocita T CD4+), trovato in due individui sieronegativi per HIV, nonostante ripetute esposizioni sessuali. L’allele CCR5 difettoso conteneva una delezione di 32 paia di basi corrispondente alla seconda ansa extracellulare del recettore: la proteina risultante è troncata, non espressa, spiegando così la resistenza all’infezione di questi soggetti. Studi successivi hanno rivelato che circa l’1% della popolazione di origine caucasica ha questo difetto, non riscontrato in nessun altra area geografica1.

1.7 CLINICA NELL’ETÀ PED IATRICA

Dal momento dell’infezione alla presenza in circolo di antigeni virali decorrono circa 2 settimane e successivamente compaiono gli anticorpi; il periodo di incubazione, invece, varia dai 4-6 mesi a 2-4 anni. Carica virale e capacità difensive immunitarie influenzano la comparsa della malattia.

La clinica dell’infezione da HIV ha un’ampia espressività: dal quadro di portatore asintomatico all’AIDS conclamata. Essendo l’infezione del bambino diversa da quella dell’adulto, il CDC ha stilato una classificazione pediatrica (per bambini al di sotto dei 13 anni di vita). Per quanto riguarda la clinica, si distinguono 4 categorie:

- N: asintomatico,

- A: lievemente sintomatico, - B: moderatamente sintomatico, - C: AIDS conclamato.

La prognosi è sicuramente migliore nelle prime due, mentre diventa progressivamente più severa nelle ultime categorie.

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12 Per quanto riguarda lo stato immunitario si distinguono 3 classi:

- Classe 1: nessuna evidenza di immunodepressione, - Classe 2: immunodepressione moderata,

- Classe 3: immunodepressione severa. Le classi sono correlate con l’età.

Nel caso di infezione prenatale, solo in casi eccezionali sono presenti nel neonato deficit ponderale, epatosplenomegalia con anemia, ittero e piastrinopenia (quadro simile a quello di altre infezioni prenatali), anomalie morfologiche con microcefalia e facies caratteristica.

Tanto più precoce è l’infezione, tanto più è probabile che si sviluppino embriopatie e che l’infezione si manifesti in forma grave.

Nella maggior parte dei casi la sintomatologia comincia a manifestarsi verso le fine del primo trimestre o dopo.

L’85% dei bambini presenta poliadenopatia generalizzata e splenomegalia con

arresto dell’accrescimento ponderale e compromissione ingravescente dello stato

nutrizionale.

Sono le infezioni recidivanti e gravi a mettere a rischio la vita del bambino, che colpiscono diversi organi ed apparati, compreso il sistema nervoso centrale. Importanza rilevante riveste l’infezione polmonare da Pneumocystis carinii: una

polmonite linfoide con infiltrazione linfoplasmacellulare peribronchiolare e

dell’interstizio, sostenuta dal virus stesso identificato nell’interno dei macrofagi; compare in genere nella 2° infanzia.

Parotiti, cistopieliti, meningiti, sepsi generalizzate sono le più frequenti infezioni di natura batterica.

Sempre nell’ambito della patologia infettiva, sono spesso diagnosticate enteriti

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13 mucosa intestinale con conseguente malassorbimento, arresto dell’accrescimento e malnutrizione. Sono anche assidue le epatiti croniche attive e l’eczema atopico. Nel 20% dei casi di bambini ai primi anni di vita, si identificano lesioni a carico del cervello con atrofia cerebrale diffusa, idrocefalo ex-vacuo, infiltrazioni infiammatorie ubiquitarie e calcificazioni. Il decorso è subacuto e l’esito ineluttabile.

1.7.1 DECORSO

Si riconoscono due gruppi di bambini con diversa espressività di malattia:

- i bambini “fast progressors”, cioè a rapida evoluzione, con decesso entro i 2-3 anni di vita,

- i bambini “slow progressors”, cioè a lenta evoluzione, con comparsa dei sintomi entro 2-3 anni di vita.

La differenza si fonda sulla risposta immunitaria e dell’ospite e su fattori genetici e virali.

Segni prognostici negativi sono: la precocità e la gravità dei sintomi, la presenza di infezioni opportunistiche virali e batteriche gravi, l’encefalopatia ed una severa immunodeficienza.

Il 50% dei bambini infetti in Italia ha un’età superiore agli 8 anni, per cui la prognosi è ancora da considerare severa4.

1.8 DIAGNOSI DI LABORATORIO E MONITORAGGIO DI INFEZIONE DA HIV

1.8.1 DIAGNOSI DI LABORATORIO DI HIV

La diagnosi di infezione da HIV si fonda sul riscontro indiretto del virus (presenza di anticorpi anti-HIV) e/o sul riscontro diretto del virus o di sue componenti strutturali.

Gli anticorpi diretti contro HIV sono rilevabili nel sangue dalle 2 alle 12 settimane successive all’infezione.

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14 La ricerca degli anticorpi viene eseguita con il test ELISA (enzyme-linked

immunosorbent assay), anche detto test immunoenzimatico (enzyme

immunoessay, EIA), che funge da test di screening, grazie alla sua sensibilità

superiore al 99.5%. Il kit più comunemente utilizzato contiene antigeni sia dell’HIV-1 che dell’HIV-2, naturali e ricombinanti, continuamente aggiornati. I tests di quarta generazione rilevano gli anticorpi anti-HIV e l’antigene p24 di HIV. L’esito può essere:

- positivo (altamente reattivo) - negativo (non reattivo)

- indeterminato (parzialmente reattivo).

L’unico limite di questo test è che non ha una specificità ottimale, soprattutto ciò è stato osservato in soggetti a basso rischio, come i donatori di sangue. Fattori associati alla falsa positività sono:

- anticorpi contro gli antigeni di classe II (dopo un gravidanza, una trasfusione di sangue, un trapianto),

- gli autoanticorpi, - le malattie epatiche,

- la recente vaccinazione contro l’influenza, - le infezioni virali acute.

Per questo motivo la diagnosi di conferma deve venire, successivamente al riscontro di una positivià, dall’esecuzione di un test più preciso: il western blot. Una negativizzazione del test ELISA in un soggetto sotto terapia, non indica l’eradicazione dell’infezione, ma che i livelli attuali di carica virale sono talmente bassi da non indurre la produzione di anticorpi specifici.

Il western blot viene eseguito per confermare una diagnosi di infezione all’ELISA. Si basa anch’esso sulla ricerca di anticorpi specifici formatisi per la presenza antigeni virali; sia gli antigeni che gli anticorpi appaiono separati su diverse bande in relazione con il loro peso specifico.

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15 L’esito è:

- negativo se non si sono formate bande ai livelli del peso molecolare corrispondente agli antigeni virali,

- positivo solo se sono presenti anticorpi ( e quindi bande) contro due delle tre proteine di HIV: p24, gp41e gp120/160,

- indeterminato quando non vengono soddisfatti i criteri di positività o negatività. Questo può accadere in un soggetto a basso rischio con anticorpi che cross-reagiscono con una delle proteine di HIV; oppure in un soggetto infetto in cui non si siano ancora sviluppati gli anticorpi. Il test va quindi ripetuto entro un mese.

Un risultato negativo in un individuo con ELISA positivo, indica che il soggetto era un falso positivo.

Un ulteriore test di conferma può essere la ricerca dell’RNA virale e/o la riesecuzione del western blot al follow-up.

Un altro test di possibile utilizzo è la PCR per il DNA pro-virale ed il test di “cattura” dell’antigene p24. Se uno dei due è negativo così come il western blot, la diagnosi di infezione da HIV-1 è da escludere.

Ogni ricerca di 1 deve sempre essere accompagnata dallo screening per HIV-2 con test sierologici.

1.8.2 MONITORAGGIO DI LABORATORIO DI PAZIENTI CON INFEZIONE DA HIV

Il monitoraggio laboratoristico dei pazienti infetti si basa sul conteggio dei linfociti T CD4+ e sulla determinazione della viremia plasmatica.

CONTEGGIO DEI LINFOCITI T CD4+

Il conteggio dei linfociti T CD4+ è utile per un’accurata valutazione clinica e per la definizione di rischio del paziente nei riguardi di malattie opportunistiche, essendo relazionato con lo stato di competenza del sistema immunitario; oltre che per valutare l’efficacia della terapia. Il risultato può essere espresso come numero assoluto o come percentuale del totale dei linfociti circolanti. Esso deve essere

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16 eseguito al momento della diagnosi e poi ogni 3-6 mesi; è altresì opportuno ottenere due determinazioni prima di qualsiasi modifica nella gestione del paziente.

DOSAGGIO DELLA VIREMIA PLASMATICA

Il dosaggio della viremia plasmatica, divenuto ormai estremamente preciso, ha la funzione di valutare direttamente la replicazione virale, e quindi l’efficacia della terapia e la compliance del paziente. I test standard possono individuare fino a 40-50 copie di HIV-RNA/mL di plasma. Pratica comune è descrivere la viremia al di sotto di tale valore come “indosabile”, benché sia fuorviante: il virus c’è e non è pari a 0, concetto che, invece, viene percepito dal paziente.

Il livello di viremia è influenzato dallo stato di attivazione del sistema immunitario, ed è quindi suscettibile di variazioni in seguito ad infezioni secondarie o immunizzazioni.

Per questo motivo una singola determinazione non è sufficiente per prendere decisioni riguardo la gestione del paziente.

Il dosaggio della viremia plasmatica deve essere eseguito al momento della diagnosi e ogni 3-6 mesi nel paziente non trattato. Quando invece si instaura una ART o questa viene modificata, dovrebbe essere eseguito ogni 4 settimane fino alla dimostrazione dell’efficacia del regime terapeutico, ovvero della stabilizzazione dei livelli di HIV-RNA. Nella maggior parte dei casi, se la terapia è efficace, i livelli scendono al di sotto delle 50 copie entro sei mesi dall’inizio del trattamento1.

1.8.3 DIAGNOSI E MONITORAGGIO DELLE DONNE IN STATO DI GRAVIDANZA

Le linee guida italiane del Ministero della Salute aggiornate a Novembre 20135 raccomandano:

- una valutazione preconcezionale (infettivologica ed ostetrica) in entrambi i componenti della coppia che vogliono un figlio. Se la donna risulta positiva, è bene sottoporre a screening anche i figli nati precedentemente,

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17 oltre che fornire tutte le spiegazioni e precauzioni possibili sul rischio di trasmissione e sulla condizione clinica di infetto;

- una valutazione ad inizio gravidanza (infettivologica ed ostetrica) della donna (ed eventualmente del marito), associata a screening di altri microorganismi infettivi;

- una valutazione in corso di gravidanza (infettivologica ed ostetrica) che si compone di ripetuti esami (ogni 2-3 mesi) per il dosaggio della carica virale plasmatica che deve essere mantenuta al di sotto della soglia di dosabilità, della ricerca dell’HIV-RNA intorno alla 34°-36° settimana di gestazione, del monitoraggio della resistenza in donne che hanno iniziato la ART già prima della gravidanza. Considerare che, anche se non ci sono evidenze univoche, sembra che gli inibitori delle protesi inducano parto pretermine.

La diagnosi precoce in corso di gravidanza è essenziale per prevenire la trasmissione perinatale.

1.8.4 DIAGNOSI E MONITORAGGIO IN ETÀ PEDIATRICA

A causa della persistenza di anticorpi materni fino a 15-18 mesi di vita, la diagnosi precoce di infezione da HIV era difficile da eseguire fino all’avvento delle nuove tecnologie, che consentono di identificare direttamente il virus nel sangue o nei tessuti.

La tecnica in assoluto più utilizzata è la PCR4.

In neonati nati da madri HIV positive, si ha l’obbligo di eseguire un test di screening alla nascita. Onde evitare che il dosaggio della viremia plasmatica eseguito alla nascita risulti negativo per influenza della profilassi eventualmente eseguita, è bene eseguire una nuova ricerca dopo 2-4 settimane dalla sospensione della profilassi neonatale5.

La linfopenia nel bambino, a differenza dell’adulto, è presente solo negli stadi avanzati di malattia. È invece frequente la riduzione, talvolta modesta, dei linfociti T CD4+ con inversione del rapporto CD4+/CD8+. È ridotta l’attività delle cellule

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18 NK, la produzione di IL-2 e di interferon, la risposta anticorpale. Spesso si ha una ipergammablobulinemia policlonale, a volte con produzione di autoanticorpi4.

1.9 TRATTAMENTO DELL’INFEZIONE DA HIV IN ETÀ PEDIATRICA

Secondo le linee guida del Ministero della Salute aggiornate a Novembre 20135, nei bambini HIV positivi di età inferiore ad un anno, il rischio di progressione della malattia o morte è più alto nei primi 12 mesi, per questo è importante iniziare la terapia antiretrovirale entro i 12 mesi indipendentemente da clinica, carica virale e CD4+ .

Al di sopra dei 12 mesi di vita il rischio di progressione clinica o morte è minore, quantomeno nei bambini paucisintomatici o asintomatici, per cui in questi casi è possibile considerare un inizio differito della terapia. Dai 5 anni in poi il rischio di progressione o di morte è più alto per bambini con T CD4+ <350 cellule/mmc, come nell’adulto.

Sono considerate di prima scelta le terapie antiretrovirali di combinazione (cART) con le seguenti associazioni:

- 2 inibitori nucleosidici della trascrittasi inversa (NRTIs) + 1 inibitore della proteasi (IP)

oppure

- 2 inibitori nucleosidici della trascrittasi inversa (NRTIs) + 1 inibitore non nucleotidico della trascrittasi inversa (NNRTI).

Il bambino va valutato in corso di trattamento sotto il profilo virologico, immunologico e clinico, eventualmente aggiustando la dose o sostituendo un farmaco o tutto il regime terapeutico.

(19)

19

2. PREVENZIONE DELLA TR ASMISSIONE

MADRE-FIGLIO

2.1 TRASMISSIONE MADRE-FIGLIO.

L’infezione da HIV trasmessa da madri infette ai propri figli durante la gravidanza, il travaglio, il parto o l’allattamento al seno è conosciuta come trasmissione madre-figlio (mother-to-child transmission, MTCT). La prevenzione della trasmissione madre-figlio (prevention mother-to-child transmission, PMTCT) è un intervento altamente efficace ed ha un elevato potenziale nel migliorare la salute della madre e del bambino.

430.000 bambini sono stati infettati da HIV nel 2008. Di questi, il 90% attraverso la MTCT. Dato ancora più rilevante è che circa la metà sono morti entro il secondo compleanno6.

L’infezione da HIV è anche la principale causa di morte materna nei paesi a basso/medio reddito7. In prima istanza, le donne che convivono con HIV hanno un rischio aumentato di andare incontro ad eventi avversi durante la gravidanza e il parto, come lacerazioni perineali, sepsi, travagli lunghi e morte8, 9. L’infezione materna, inoltre, tanto più se grave (bassa conta linfocitaria, infezioni sintomatiche), è un fattore di rischio indipendente per mortalità neonatale ed infantile e per basso peso alla nascita10-12 .

L’importanza di un trattamento preventivo è inestimabile, se si considera che, senza alcun intervento, il rischio di infezione è del 20-45% e che scende al 2% o al 5% (rispettivamente senza o con allattamento al seno) integrando tutte le misure ad oggi disponibili6.

In molti paesi industrializzati l’HIV pediatrico è stato ormai eliminato, tanto che negli Stati Uniti la nascita di un bambino infetto da madre HIV positiva, che ha seguito le norme di prevenzione, è un evento raro1.

L’attenzione deve quindi al giorno d’oggi concentrarsi in paesi con scarse risorse economiche, nei quali le norme preventive non sono o non possono essere applicate allo stesso modo dei paesi più ricchi.

(20)

20 Secondo il report del 2009 Towards universal access: scaling up priority

HIV/AIDS intervections in the health sector, negli ultimi anni sono stati raggiunti

risultati davvero significativi nell’ambito della PMTCT, con un sostanziale aumento della copertura con ARV in donne gravide HIV-positive in paesi a basso/medio reddito dal 2004 al 2008.

Fonte:WHO, UNAIDS, UNICEF. Towards universal access: scaling up priority HIV/AIDS interventions in the health sector. Progress report 2009. p 99.

Per prevenire la MTCT, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha promosso un tipo di approccio basato su più componenti:

- prevenire la trasmissione di HIV nelle donne in età fertile, - prevenire le gravidanze indesiderate nelle donne HIV positive,

- prevenire la trasmissione dell’infezione da HIV dalla donna infetta al figlio,

- provvedere ad adeguati trattamento, cura e supporto per le madri che convivono con l’HIV, i loro figli e la loro famiglia.

La PMTCT strategic vision 2010-2015 6definisce i compiti dell’OMS nell’aiutare tali paesi a raggiungere i risultati dell’Occidente nella PTMT, nell’aumentare l’accesso ai servizi di qualità per la PMTCT ed integrare questi servizi con programmi per la salute delle madri, dei neonati e dei bambini e programmi per la salute sessuale e riproduttiva.

0% 10% 20% 30% 40% 50% 60% 70% 80% 90% 100% Africa Sub-Sahariana Amarica Latina e Caraibi Europa ed Asia Centrale Est, Sud e Sud-Est Asiatico Totale paesi a basso e medio reddito

Percentuale di donne incinte HIV positive che hanno ricevuto ARV per PMTCT per HIV in paesi a basso/medio reddito per regione, 2004-2008 2004 2005 2006 2007 2008

(21)

21 L’idea dello OMS è quella di eradicare il virus HIV da donne e bambini, con lo scopo di eliminare l’infezione pediatrica di HIV e migliorare la salute e la sopravvivenza di madre, neonato e bambino nel contesto di HIV. Gli obiettivi sono:

- accelerare il potenziamento globale e nazionale dei servizi per la PMTCT, - migliorare la qualità e dimostrare l’impatto sulla salute pubblica dei servizi

per la PMTCT,

- rafforzare i legami tra i servizi per la salute della madre, del neonato e del bambino, i servizi per la salute riproduttiva ed i servizi correlati ad HIV per ridurre la mortalità materna ed infantile.

Gli obiettivi del “Global Plan Towards the Elimination of New HIV Infections

Among Children by 2015 and Keeping Their Mothers Alive” del Programma delle

Nazioni Unite per HIV/AIDS (UNAIDS) sono di ridurre il numero di nuove infezioni pediatriche da HIV del 90% e ridurre il numero di morti HIV-associate tra le donne durante la gravidanza, il parto e il puerperio del 90% entro il 20156.

2.1.1 MECCANISMI DELLA TRASMISSIONE

La principale trasmissione del virus HIV nei bambini è la trasmissione materno fetale6:

- il 50-60% delle infezioni vengono contratte durante il travaglio o al momento del parto per l’esposizione diretta o alle secrezioni vaginali o al sangue, il quale può anche essere ingerito;

- Il 25% nell’ultimo periodo della gravidanza per passaggio transplacentare (infezione in utero);

- Il restante 20% della trasmissione si realizza nel post-partum attraverso l’ingestione di latte materno infetto13

.

Viremia materna, modalità di espletamento del parto, ed esecuzione di una adeguata profilassi neonatale sono i tre elementi che più di tutti influenzano la trasmissione.

(22)

22 I fattori di rischio correlati con la trasmissione attraverso il latte non sono ancora ben conosciuti; sicuramente aumentano le probabilità: i livelli rilevabili di HIV nel latte materno, la presenza di mastite, una bassa conta di linfociti T CD4+ nella madre e la deficienza di vitamina A. La trasmissione è più probabile nei primi mesi.

È annoverabile tra le cause di trasmissione anche la rottura prematura delle membrane.

Altri fattori di rischio, non ancora documentati, sembrano essere: la presenza di coriamniosite al momento del parto; nel corso della gravidanza: la presenza di MTS, l’uso di droghe pesanti, il fumo di sigaretta; il parto pre-termine, alcune manovre ostetriche come episiotomia e l’amniocentesi1

.

Si può parlare di trasmissione in utero in presenza di un test positivo per HIV (coltura o PCR) entro le prime 48 ore di vita.

La trasmissione è invece definita intrapartum in assenza di un test sierologico precoce, ma con evidenza di infezione tra 7 e 30 giorni di età.

Infine si considera post-partum quando si evidenzia in corso di allattamento materno: la probabilità è massima tra il 2° e il 6° mese (0.7%) per poi diminuire nei mesi successivi13.

SINTESI DELLE EVIDENZE SUL RUOLO DELLA VIREMIA MATERNA NELLA TRASMISSIONE PERINATALE DELL’INFEZIONE DA HIV-1. La viremia materna è strettamente correlata con il rischio di trasmissione madre-figlio dell’infezione da HIV-114. Come regola generale il rischio tende ad aumentare per cariche virali elevate e viceversa ad essere ridotto per cariche virali basse, ma non si è ancora stabilito un cut-off di viremia materna oltre il quale il rischio di trasmissione aumenti in modo significativo15, 16 .

Secondo la classificazione impiegata nelle metanalisi di Contopulos-Ioannidis & Ionnadis, sono da considerarsi basse viremie materne RNA <10.000 copie/mL, ed elevate viremie materne RNA >10.000 copie/mL 17.

(23)

23 In un recente studio Galli L. et al sottolineano che la carica virale materna elevata ( >60.000 copie RNA/mL) al momento del parto è un fattore di rischio indipendente per la trasmissione perinatale dell’infezione (rischio aumentato di 30 volte). In particolare, per ogni incremento della viremia di 1 Log10 è stato osservato che il rischio raddoppia 18.

Sull’altro versante tuttavia, sebbene alcuni lavori, ormai datati, riportino che la trasmissione dell’infezione madre-bambino non sia verificata per carica virale materna <2.000 copie/mL18-21, o < 1.000 copie/mL16, una più recente metanalisi ha dimostrato che il rischio di trasmissione occasionale dell’infezione è presente anche in caso di bassa viremia materna (<1.000 copie/mL), ed è dell’1% in neonati le cui madri erano state trattate con terapia anti-retrovirale; mentre sale al 9.8% in neonati le cui madri non avevano seguito la terapia22.

SINTESI DELLE EVIDENZE SULL’INTERRUZIONE DELLA ART IN CORSO DI GRAVIDANZA18.

L’abbattimento della carica virale raggiunto grazie alla cART, consente alle donne in gravidanza di arrivare al parto con una viremia indosabile, e di ridurre enormemente il tassi di trasmissione. È perciò opinione comune che non sia consigliabile interrompere una terapia efficace nel terzo trimestre, anche se non completamente supportata da evidenze scientifiche.

Per primo, uno studio collaborativo condotto proprio in Italia, al quale la Clinica Pediatrica ha partecipato nella persona della prof.ssa Rita Consolini, si è proposto l’obiettivo di stabilire se, l’interruzione della terapia in corso di gravidanza incida sul tasso di MTCT.

Sono state studiate 937 coppie madre-figlio, tutte sottoposte a ART (crescendo la carica virale cresceva la complessità della terapia somministrata) e bolo

intrapartum (più frequentemente infuso in donne con carica virale elevata). 81

donne hanno sospeso la terapia nel primo trimestre di gravidanza (con una media età gestazionale al momento dell’interruzione di 6 settimane, e una media di 8 settimane senza trattamento); 11 donne nel terzo trimestre (con una media età gestazionale di 32 settimane, e una media di 6 settimane senza trattamento). Solo una madre, che ha dato poi alla luce un bambino non infetto, ha interrotto la

(24)

24 terapia sia nel primo che nel terzo trimestre. L’ART è stata più frequentemente interrotta all’inizio della gravidanza in donne trattate con hight actively

antiretroviral therapy (HAART) (74 su 651), che in donne trattate con una

duplice terapia (3 su 187) o con una monoterapia (4 su 99).

Tra le donne delle quali si conosceva la viremia al parto, è stato valutato che la carica virale era simile tra quelle che avevano interrotto la terapia al primo trimestre o che non la avevano interrotta; stessa cosa è valsa per la conta di CD4+ . Complessivamente il tasso di MTCT nell’intera coorte è stato del 1.3%. Il tasso di MTCT tra bambini le cui madri avevano interrotto la terapia nel primo trimestre è stato del 4.9%, mentre nel terzo trimestre del 18.2%.

Dallo studio è emerso che il rischio incrementale di MTCT associato con l’interruzione del trattamento è elevato tra le donne trattate, anche se trattate con HAART, forse perché il rebound della viremia è maggiore quanto più è potente la terapia. È raccomandabile, pertanto, che tutte le donne gravide infette che ricevano ART debbano continuare il trattamento dopo il primo trimestre, in particolare fino alla fine della gravidanza. È ancora più interessante notare come l’interruzione precoce in corso di gravidanza aumenti il tasso di MTCT in tutta la coorte, e che siano proprio le donne riceventi la HAART che interrompono più frequentemente la terapia ad inizio gravidanza.

È stato inoltre indagato se, somministrare un regime terapeutico bassa potenza potesse incrementare il rischio di MTCT dopo un’interruzione, ma la proporzione tra il regime nevirapina-basato o PI-basato era simile.

La carica virale al parto era simile in donne trattate con un regime basato su PI e in quelle trattate con un regime basato su NNRTIs. Inoltre, vi era una maggiore tendenza ad una carica virale elevata in donne trattate con una regime basato su PI, rispetto a donne trattate con una regime basato su NNRTIs, come recentemente dimostrato da uno Studio Collaborativo Europeo.

Altro elemento importante emerso dallo studio, è che non vi sono differenze a seconda del trimestre di inizio della ART, anche se una buona percentuale di

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25 donne trattate con HAART aveva una viremia dosabile quando trattate solo da terzo trimestre, rispetto a donne trattate con la stessa terapia dal primo o secondo. Ciò supporta le recenti linee guida5 che raccomandano di iniziare preferibilmente una profilassi basata su regime a 3 farmaci nel secondo trimestre, in donne che non richiedano di iniziare prima una terapia per la loro condizione clinica.

Il risultato più importante di questo studio è nessun altro fattore, come l’elevata viremia materna e l’interruzione della ART, sono associati con un rischio maggiore di MTCT.

SINTESI DELLE EVIDENZE SUL RUOLO DEL TAGLIO CESAREO ELETTIVO NELLA PREVENZIONE DELLA TRASMISSIONE PERINATALE

DELL’INFEZIONE HIV-1.

Nel 2008 l’American College of Obstetrics and Gynecology raccomandava che tutte le donne con infezione da HIV-1 e carica virale >1.000 copie HIV-RNA/mL venissero sottoposte ad un taglio cesareo elettivo alla 38° settimana di età gestazionale 23. Uno studio dell’European Mode of Delivery Collaboration del 1999 evidenziava infatti come il taglio cesareo elettivo riducesse nettamente il rischio di trasmissione rispetto al parto per via vaginale, anche in donne che non avessero assunto terapia anti-retrovirale o monoterapia con ZDV.

Successivamente, l’uso della cART si è dimostrato essere il metodo più efficace nella PMTCT19, 24-26. Diversi studi osservazionali suggerivano che non c’era alcun beneficio aggiunto dal taglio cesareo elettivo, oltre a quelli conferiti dalla cART e dalla soppressione della carica virale19, 25, 27-29, anche se altri studi dimostrano che un effetto protettivo effettivamente esiste28.

Poiché nessuno studio è riuscito a definire il cut-off di viremia materna al di sotto del quale è sicuro eseguire un parto vaginale piuttosto che un taglio cesareo elettivo, oggigiorno questo limite nella pratica clinica e nelle linee guida è diverso nei paesi occidentali: in Francia deve essere al di sotto delle 400 copie/mL 19; negli Stati Uniti, in Canada30, 31 e in Spagna al di sotto delle 1,000 copie/mL; nel Regno Unito32 e secondo la European AIDS Clinical Society al di sotto della 50 copie/mL.

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26 L’ Agence Nationale de Recherces sur le Sida ha analizzato tutti i parti di donne HIV-1 infette dal 2000 al 2010 (N = 8977), andando a studiare più nei dettagli quelli espletati dal 2005 al 2010 (N = 4717).

Nel decennio 2000-2010 le raccomandazioni internazionali sopra descritte hanno portato ad un incremento del parto per via vaginale dal 25% al 53%, grazie all’aumento dell’esposizione a cART e al conseguente abbattimento della carica virale. Nonostante ciò la percentuale di tagli cesarei resta elevata, anche in quelle categorie di donne che potrebbero essere sottoposte al vaginale, questo probabilmente perché sia il clinico (ostetrico, ginecologo, ecc) sia la donna stessa si sentono più sicuri eseguendo un taglio cesareo. Difatti l’incremento dell’esecuzione del parto per via vaginale dal 2000 al 2010 è più sostanzioso per donne con carica virale < 400 copie/mL, rimanendo pertanto questa procedura meno comune tra le donne con carica ≥ 400 copie/mL.

Considerando come età gestazionale alla nascita la 37° settimana, nelle donne che assumevano cART, il tasso della MTCT era simile tra il parto per via vaginale ed il taglio cesareo elettivo, indipendentemente dalla carica virale.

Andando ad analizzare più nel nello specifico i parti avvenuti tra il 2005 ed il 2010, nel gruppo di donne con carica virale ≥ 400 copie/mL, la scelta del parto per via vaginale è stata favorita dalla gestione precoce dell’infezione (entro il terzo trimestre di gravidanza), dall’assenza di immunodeficienza severa (CD4 ≥ 200 cellule/mmc), indipendentemente dall’età gestazionale al momento del parto e del tipo di unità ostetrico-ginecologica ospedaliera. Queste donne ed i loro clinici hanno tendenzialmente scelto il taglio cesareo elettivo per evitare la MTCT nella metà dei casi, mentre un terzo lo ha scelto per cause diverse dal rischio di trasmissione verticale, come un indicazione fetale. Il taglio cesareo non in elezione è stato eseguito per la PMTCT ed in caso di rottura prematura delle membrane.

Nelle donne con carica < 400 copie /mL, è stato eseguito il taglio cesareo soprattutto in caso di gemelli, una carica > 50/, al di fuori dell’area parigina e per altre indicazioni di natura ostetrica.

(27)

27 Sempre dal 2005 al 2010 è stato riscontrato che, in seguito a taglio cesareo (elettivo e non), si sono verificate complicanze postpartum immediate e prolungata ospedalizzazione, più di frequente rispetto al parto vaginale. Le complicanze più frequenti erano infezioni ed emorragie, soprattutto di natura materna. Indipendentemente dal tipo di parto, sono state più colpite le donne con una bassa conta di linfociti CD4+.

In caso di parto pretermine, il tasso di trasmissione è risultato più basso con il taglio cesareo elettivo. Questo in linea con le precedenti osservazioni riguardo l’associazione tra parto pretermine e PMTCT. La relazione causale non è stata ancora stabilita: probabilmente parto pretermine e MTCT condividono gli stessi fattori di rischio. È possibile che la causa sia anche la ridotta durata dell’esposizione cART33

.

In linea con lo studio francese, anche nel resto d’Europa è prevalsa la tendenza ad evitare il taglio cesareo in seguito all’avvento della cART, come dimostra uno studio europeo condotto dal 2005 al 200728.

È doveroso inoltre aggiungere che un recente studio34 ha evidenziato come ci sia un aumento del rischio di complicanze nelle donne HIV-infette sottoposte a cART che partoriscono mediante taglio cesareo rispetto a donne non infette, quando la loro conta di CD4 è < 500 cellule/mL.

Il taglio cesareo elettivo resta comunque la modalità di parto raccomandata in donne con carica virale non controllata con farmaci antiretrovirali, mentre in donne con carica indosabile si può tranquillamente preferire il parto vaginale33.

(28)

28 SINTESI DELLE EVIDENZE SUL RUOLO DELLA ZDV INTRAPARTUM

NELLA PREVENZIONE DELLA TRASMISSIONE PERINATALE DELL’INFEZIONE DA HIV-1.

Da quando lo studio francese ACTG076 35 ha proposto di somministrare la ZDV

intrapartum per rafforzare la ZDV postparto e creare una sorta di continuità

terapeutica tra la terapia materna e la profilassi neonatale, questa è stata adottata in tutti i paesi industrializzati.

L’ Agence Nationale de Recherce sur le Sida/Enquête Périnatale Française ha analizzato tutte le donne partorienti dal 1997 al 2010 HIV+ esposte a profilassi ARV e che non hanno allattato al seno nel postpartum, valutando le caratteristiche ostetriche e ginecologiche in relazione alla mancata somministrazione di ZDV ev e ha comparato questa associazione con il tasso di MTCT e altri parametri infantili.

Le donne che non hanno ricevuto la ZDV ev al travaglio erano più anziane, spesso multipare, esposte precocemente in gravidanza a cART, avevano partorito per via vaginale e/o pretermine, con un più alto livello di HIV RNA al parto. I neonati hanno quindi ricevuto una profilassi intensificata.

Il tasso di MTCT è risultato essere dello 0.9% in donne che avevano ricevuto la ZDV ev, e dello 1.8% in donne che non l’avevano ricevuta, ma con oppurtune specificazioni.

La MTCT era più probabile in donne con carica virale al parto ≥ 1,000 copie/mL alle quali non era stata somministrata ZDV ev, ma il tasso di trasmissione risultava uguale a quello di donne alle quali la ZDV ev era stata somministrata, se al neonato veniva eseguita una profilassi neonatale intensificata (rispetto alla normale profilassi).

In donne con carica virale al parto < 1,000 copie/mL, non si è rilevata alcuna trasmissione sia nel gruppo ricevente la ZDV ev che nell’altro non ricevente. Dai risultati dello studio si è quindi concluso che la ZDV intrapartum non è necessariamente associata ad una riduzione del rischio di MTCT in donne con

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29 carica virale controllata al parto; ma rimane sicuramente fondamentale, anche nell’era della cART in donne con fallimento virologico.

È interessante notare come, la mancata somministrazione di ZDV ev può essere compensata da una intensificazione della profilassi neonatale, basata sull’associazione di due analoghi nucleosidici (ZDV più lamivudina) o inibitori delle proteasi36.

La singola dose di nevirapina

È stato valutato da uno studio se l’aggiunta della NVP in singola dose (sdNVP) al regime materno di ART (sottoposta poi al taglio cesareo) e poi al neonato in epoca post-parto potesse aumentare l’efficacia del regime materno ( e quindi anche la profilassi del neonato). Ma il rischio di trasmissione non sembra essere ridotto nelle coppie madre-figlio con elevata viremia materna al parto né con viremia bassa. In relazione al rischio di resistenze in seguito all’utilizzo nella madre della NVP, è stato stabilito che non è di alcun vantaggio includere tale farmaco nel regime terapeutico della madre né nell’ambito della profilassi neonatale, in condizioni di controllo viremico materno non ottimale.

Pertanto la sdNVP non è più raccomandata dall’OMS nel regime terapeutico della PMTCT dal 2006.

Ciò nonostante, la profilassi intrapartum e postpartum nei paesi con scarse risorse economiche dell’Africa e dell’Asia consiste nella sdNVP3

, che effettivamente riduce la MTCT del 50%37. È un regime semplice, economico, che può essere attuato anche in ambientazioni con scarso accesso alle cure prenatali, e sembra non perdere efficacia nelle gravidanze successive 38. La NVP è infatti eliminata lentamente dall’organismo, persistendo in livelli sub ottimali nel sangue e nel latte materno, e nel sangue del neonato fino a 2-3 settimane39. Questi livelli sub-ottimali di farmaco, tuttavia, favoriscono la rapida selezione di virus NVP-resistenti, che spesso sono rilevati in soggetti esposti alla NVP40. Una strategia per minimizzare la resistenza alla NVP è associarla ad altri ARV con alta barriera genetica e/o decadimento rapido dei livelli plasmatici di farmaco.

(30)

30 La ricerca si sta dunque muovendo nella direzione di ottimizzare l’utilizzo di questo farmaco.

Uno studio condotto in Uganda41, ad esempio, ha svolto una investigazione farmacocinetica raccogliendo campioni di plasma neonatale e latte materno potenzialmente infetto di madri HIV+. Il passaggio della nevirapina dal sangue materno alla placenta si è dimostrato essere dell’11-25%, con una significativa influenza del tempo intercorso tra la somministrazione del farmaco alla madre e la nascita del figlio: la simulazione ha rivelato che i nuovi nati precocemente (entro 1h dalla somministrazione del farmaco) beneficerebbero di una dose triplicata del farmaco alla nascita (6 mg/kg); mentre sembra essere non necessaria la somministrazione della nevirapina post partum in nati tardivamente (dopo 24 ore dalla somministrazione materna di NVP). Queste evidenze devono essere approfondite in altri studi, includendo l’aggiunta dei ARV.

SINTESI DELLE EVIDENZE SUL RUOLO DELLA PROFILASSI NEONATALE NELLA PREVENZIONE DELLA TRASMISSIONE

PERINATALE DELL’INFEZIONE DA HIV-1.

La profilassi neonatale risulta fondamentale soprattutto in quei casi in cui uno o più fattori i rischio possano favorire la trasmissione dell’infezione madre-figlio. Nei neonati la cui madre non abbia assunto terapia antiretrovirale ante-partum ed

intra-partum, le linee guida statunitensi raccomandano che il neonato assuma la

profilassi con ZDV per 6 settimane.

Nel 1999 lo studio HIVNET012 ha valutato l’efficacia della somministrazione di una sdNVP alla madre intra-partum ed al neonato alla nascita: il rischio di infezione è risultato ridotto del 40% a 4-8 settimane, rispetto alla profilassi materna con ZDV intra-partum associata ad una settimana di ZDV al neonato42, confermata poi a 18 mesi.

Successivamente nel 2005 uno studio francese, DITRAME plus Study Groups, ha confrontato l’efficacia di una terapia combinata materna con ZDV+sdNVP o ZDV+sdNVP+3TC vs. monoterapia con ZDV; combinate con ZDV+sdNVP o placebo come profilassi neonatale. A 6 settimane di vita la probabilità di trasmissione dell’infezione era del 6.5% per ZDV+NVPsd con una riduzione del

(31)

31 72% rispetto alla monoterapia con ZDV. Con l’aggiunta di 3TC alla madre ante ed intra partum, la probabilità di trasmissione dell’infezione era del 4.7% con riduzione del 77%, rispetto alla duplice terapia.

Un recente studio43 ha valutato 3 diversi regimi di profilassi neonatale,

somministrati in neonati nati da madri HIV-1 positive che non avevano assunto terapia antiretrovirale a causa della identificazione tardiva. I 3 regimi erano così composti:

- ZDV per 6 settimane (gruppo monofarmaco);

- ZDV per 6 settimane più 3 dosi di NVP durante i primi 8 giorni di vita (gruppo bifarmaco);

- ZDV per 6 settimane più nelfinavir e lamivudina per 2 settimane (gruppo trifarmaco).

Il regime con 3 farmaci si è dimostrato il più efficace nel prevenire la trasmissione.

SINTESI DELLE EVIDENZE SUL RUOLO DELL’ALLATTAMENTO AL SENO SULLA PREVENZIONE DELLA TRASMISSIONE DA HIV. L’allattamento al seno aumenta il rischio di MTCT al 20-45%, rispetto al 15-30% senza alcun intervento44. Per questo motivo, nei paesi industrializzati, si raccomanda alle donne HIV+ di evitare completamente l’allattamento al seno45

. Comunque, nei paesi con scarse risorse economiche, dove l’allattamento con formula non rispetta i criteri AFASS (Acceptable, Feasible, Affordable,

Sustainable, and Safe), evitare l’allattamento al seno aumenta il rischio di

mortalità infantile e di morbidità infettive46.

Rispetto alla formula infatti, il latte materno protegge da infezioni del tratto respiratorio e gastrointestinale e migliora la sopravvivenza47. Inoltre l’allattamento al seno favorisce la crescita infantile fino a due anni di età48

.

La cART minimizza la MTCT anche riducendo la carica virale nel latte materno, dunque, nonostante gli effetti avversi, c’è da considerare l’effetto protettivo sui bambini HIV-esposti.

(32)

32 Una review del 2013 ha identificato 14 report da 7 RCTs e 3 studi prospettici di coorte condotti in: Sud Africa, Zambia49, Malawi49, USA e Brasile49, Costa D’Avorio49

, Tanzania49, Kenya49, Burkina Faso, Kenya e Sud Africa49, e Sud Africa, Tanzania, Uganda e Zimbawe49. Sono state fatte diverse comparazioni.

Allattamento al seno vs allattamento con formula. I risultati emersi confrontando

RCT e studi prospettici di coorte che se ne sono occupati50-53 indicano che tra i bambini allattati al seno e quelli allattati con formula:

- non vi sono differenze in termini di crescita a nove mesi di età52;

- non vi sono differenze significative riguardo allo stato di nutrizione e di crescita50, 51;

- per quanto concerne, invece, le infezioni del tratto respiratorio e l’insorgenza di diarrea, lo studio di Mbori-Ngacha non ha rilevato differenze nel tasso di incidenza50, mentre Bequet e Venkatesh separatemente hanno riscontrato una minor probabilità di ammalarsi nei bambini allattati al seno51.

Allattamento al seno con profilassi ARV estesa vs profilassi ARV breve. Si

intende con profilassi ARV estesa, una profilassi di durata maggiore a quella breve, somministrata solo nel peripartum alla madre, standard di cura al momento degli studi effettuati.

È possibile paragonare la copertura farmacologica recepita dal bambino attraverso il latte materno quando la madre è sottoposta a ART, con quella recepita attraverso la profilassi neonatale. Questo sulla base di uno studio che ha per l’appunto confrontato le concentrazioni di NVP, lamivudina, e ZDV nel latte materno di donne HIV+ riceventi la HAART con le concentrazioni sieriche di NVP nel siero infantile: le prime sono risultate essere simili o più alte delle seconde54.

Sulla base di ciò l’interrogativo era se fosse sicuro prolungare per il bambino la profilassi materna, che ovviamente comporterebbe una maggiore esposizione a ARV, e dunque un maggior rischio di tossicità infantile farmaco-correlate.

(33)

33 Dall’analisi comparativa di vari studi55-58

è emerso che.

- il rischio di una crescita stentata era più alto del 12% in bambini esposti a profilassi ARV estesa55, 56;

- il rischio di polmonite58, di meningite55, 56, di gastroenterite55-57 e di sepsi55 era simile.

Cessazione precoce dell’allattamento al seno vs durata standard. Due studi hanno

confrontato la crescita e la morbidità per diarrea di bambini alle cui madri era stato indicato random di cessare l’allattamento al seno a quattro mesi (gruppo di intervento) o di continuare ad allattare per quanto tempo avessero voluto, con una durata media di 16.2 mesi (gruppo di controllo)59, 60. Il tasso di trasmissione di HIV tra i due gruppi era rispettivamente del 21.4% e del 25.8%. In termini di crescita i due gruppi non hanno presentato grosse differenze59, mentre i bambini allattati al seno solo fino a quattro mesi hanno avuto il doppio di incidenze di diarrea rispetto agli altri.

Tipo di formula. Tra i tipi di formula è stato valutato se fosse meglio la standard o

quella acidificata chimicamente o biologicamente, ma i bambini hanno grosso modo avuto una crescita simile e una simile incidenza di broncopolmoniti e gastroenteriti61.

Rispetto alla formula standard è invece preferibile utilizzare quella concentrata, che sostiene meglio la crescita del bambino62.

Conclusioni. L’allattamento al seno potrebbe ridurre il rischio di diarrea, infezioni

del tratto respiratorio e malnutrizione rispetto all’allattamento con formula nei bambini HIV-esposti. L’esposizione prolungata alla profilassi ARV e l’allattamento con formula effettivamente prevengono la trasmissione postnatale dell’infezione da HIV63. L’allattamento al seno combinato con la profilassi ARV prolungata, potrebbe essere sufficiente per migliorare la sopravvivenza dei bambini. Tuttavia questa associazione deve essere soppesata con il rischio di trasmissione di HIV attraverso il latte materno. Potrebbero in tal senso orientare la decisione: la carica virale della madre, la sicurezza degli ARV ed il loro utilizzo prolungato. Solo nei paesi Africani si utilizza esclusivamente l’allattamento al

(34)

34 seno64, 65. Pratiche sub-ottimali di allattamento infantile potrebbero modificare l’efficacia della profilassi ARV, specialmente in scenari di normale pratica clinica. È importante dunque continuare a valutare quale sia la combinazione vincente, con i miglior risultati clinici nella pratica; e studiare la morbidità infettiva e la crescita nella ricerca futura.

SINTESI DELLE EVIDENZE SULL’INFLUENZA DELLA ROTTURA PREMATURA DELLE MEMBRANE SULLA TRASMISSIONE PERINATALE

DA HIV.

In caso di rottura prematura delle membrane, la decisione dovrebbe orientarsi verso il taglio cesareo piuttosto che verso l’induzione del travaglio o un atteggiamento di attesa, per evitare di prolungare il periodo di rottura delle stesse. Tale periodo, infatti, è un fattore di rischio per la trasmissione di HIV che è stato ben documentato nell’era pre-cART 66-69

. In una vasta metanalisi è stato rilevato un incremento addizionale del 2% del rischio di MTCT per ora di durata della rottura delle membrane. Studi recenti suggeriscono che non è più un fattore importante in donne con carica virale indosabile 70-73.

2.2 IL PROTOCOLLO 076

Tra l’Aprile 1991 e il 20 Dicembre 1993, il Pediatric AIDS Clinical Trials Group condusse un trial clinico multicentro (Protocollo 076) negli Stati Uniti e in Francia, arruolando 477 donne in stato di gravidanza HIV positive, al fine di accertare la sicurezza e l’efficacia della zidovudina nel ridurre il rischio di trasmissione madre-figlio35. L’idea nasceva da studi sugli animali dimostranti la capacità di zidovudina di diminuire la trasmissione materna di HIV74-78, seguiti da studi di fase 1 su donne gravide nelle quali il farmaco era risultato sicuro e capace di attraversare efficacemente la placenta79-83.

2.2.1 METODO DELLO STUDIO

In questo studio doppio cieco, con gruppo di controllo sottoposto a placebo, randomizzato vennero coinvolte 477 donne in stato di gravidanza, HIV infette, tra la 14° e la 34° settimana di gestazione, la cui conta di linfociti T CD4+ fosse >200

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35 cellule/mmc, e che non avessero alcuna indicazione per la terapia antiretrovirale secondo il loro medico di fiducia.

Vennero inoltre escluse tutte le donne che avevano ricevuto terapia antiretrovirale durante questa gravidanza, o che avevano ricevuto immunoterapia, vaccini anti-HIV, agenti chemio terapeutici citolitici o terapia radiante.

Le future madri vennero stratificate per età gestazionale (al di sopra o al di sotto della 26° settimana) ed assegnate random al trattamento con ziduvudina o placebo. Il regime con zidovudina consisteva in: zidovudina antepartum (100 mg per os 5 volte al giorno) più zidovudina intrapartum (2 mg/kg ev per un’ora, seguita da 1mg/kg/h fino al parto) più zidovudina per il neonato (2 mg/kg per os ogni 6 ore per 6 settimane, iniziando entro 8-12 ore dalla nascita).

L’infezione da HIV era ricercata con una cultura eseguita entro i primi sei mesi di vita. Solo in 2 su 53 bambini infetti, la coltura venne fatta dopo 24 settimane dalla nascita. Il trattamento con zidovudina non è stato associato ad un ritardo nel rilevamento di HIV nella coltura. Nessuno dei 105 bambini nel gruppo con zidovudina con coltura negativa prima della 24° settimana, ha avuto una positivizzazione in quella ripetuta dopo le 24 settimane dalla nascita.

2.2.2 DISCUSSIONI

È stato osservato che somministrare zidovudina alla madre durante la gravidanza, e poi durante il travaglio, il parto, e trattare anche il neonato per le prime sei settimane di vita riduce il rischio di trasmissione materno infantile di HIV approssimativamente dei due terzi. È stato scelto di studiare un regime terapeutico che comprendesse una profilassi antepartum, intrapartum e postpartum, essendo ancora sconosciuto il timing della trasmissione. La dose e il piano di trattamento standard raccomandato di zidovudina per adulti è stato scelto per il trattamento

antepartum della madre. Questa dose è stata associata con una riduzione ai livelli

minimi circolanti di HIV e ad una ridotta tossicità84, 85. L’infusione endovenosa di zidovudina durante il travaglio mantiene i livelli del farmaco ed evita la necessità di somministrazione orale. Lo schema di dosaggio intrapartum è stato derivato da dati di modelli di farmacocinetica precedentemente ottenuti durante la

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36 gravidanza83. La zidovudina è stata somministrata ai neonati per sei settimane dalla nascita alla dose accertata da studi su zidovudina nei neonati86, siccome cellule materne infette potrebbero persistere nella circolazione del neonato dopo la nascita.

Le donne sono state arruolate dopo il primo trimestre di gravidanza, onde evitare l’esposizione a zidovudina del feto nel corso della organogenesi, mancando dati certi sugli effetti del farmaco in questo periodo.

Una singola coltura positiva è stata utilizzata per definire un neonato come HIV-infetto. Nella pratica clinica, invece, la prima coltura viene confermata da una seconda o da una PCR.

Gli effetti tossici riscontrati sono stati minimi: solo due donne hanno dovuto interrompere il trattamento e , tra i bambini, l’unico effetto rilevante era l’anemia, comunque lieve e reversibile.

2.3 RIVISITAZIONE DEL PR OTOCOLLO 076: LA PROFILASSI DELLA MTCT OGGI.

Grazie all’introduzione con il Protocollo 076 della monoterapia di ZDV in gravidanza ( antepartum nell’ambito della terapia materna, intrapartum come bolo ed infusione fino al clampaggio del cordone, e postpartum come profilassi neonatale) il tasso di trasmissione è stato ridotto fino al 68%35. Partendo, dunque, dalla base del protocollo 076, che dal 1994 ad oggi ha rivoluzionata la PMTCT, le nuove linee guida si sono perfezionate, plasmando le raccomandazioni in base, soprattutto, alla carica virale della madre, di modo da garantire la miglior copertura con la minor esposizione farmaceutica.

Con l’uso della tripla terapia ARV, il taglio cesareo (se indicato), e l’astensione dall’allattamento, il tasso di trasmissione verticale può essere ridotto all’1% o meno37, 8754, 88-90.

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